ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 23 maggio 2020

Nell’oscuro tramonto

La pandemia e l’uomo a una dimensione


Cari amici di Duc in altum, dal professor Gian Pietro Caliari una riflessione su ciò che la pandemia ci sta lasciando in eredità sul piano antropologico e filosofico: la vita  umana ridotta dallo scientismo biomedico imperante a una sola dimensione. Con la Politica e la Chiesa alleate nell’opera di appiattimento.
A.M.V.
***
Che cosa è l’uomo e la sua vita perché ne valga la pena?
In questa pandemia che è stata facilmente trasformata ad arte, per oscuri disegni geopolitici e geoeconomici, in un pandemonio, una fondamentale domanda è mancata tanto alla politica quanto alla più alta visione della riflessione intellettuale, spirituale e, finanche, teologica.
Che cos’è la vita? E, soprattutto, che cos’è la vita dell’uomo?
Ci si è limitati, e proprio questo solleva il fumus doli sull’intera vicenda, a propagandare un mito vitalistico di matrice nietzschiana e, per quanto riguarda specificamente la Chiesa, a promuovere un virale neo-umanesimo già teorizzato, nel secolo scorso, dal gesuita Marie-Joseph Pierre Teilhard de Chardin.
Che cosa è l’uomo e la sua vita? Si tratta, a ben vedere, di una semplice domanda che già troviamo nei Tehillìm, il libro dei salmi, composti nel III secolo a.C.
Il Salmo 8, infatti, esordisce con questa semplice ma essenziale domanda rivolta dal credente a Dio: “Che cos’è l’uomo perché Tu, o Signore, te ne ricordi e lo visiti?”.
Nel pensiero occidentale, che appunto il neo-umanesimo alla Teilhard de Chardin o alla Edgar Morin vorrebbero sic et simpliciter abolire, il concetto di vita umana si è articolato in tre distinti ma essenzialmente complementari aspetti.
La ζωή (zoé), quale essenza che contraddistingue indistintamente e universalmente tutti gli esseri umani. Il βίος (bíos) che indica le concrete modalità con cui l’uomo vive individualmente e socialmente.
Usando le categorie della filosofia di san Tommaso, sotto questo aspetto, nell’uomo c’è un principio qua vivimus, secondo il quale viviamo, e uno quam vivimus che, dunque, viviamo in infinite modalità: individuali, sociali, politiche, economiche, intellettuali e materiali.
Rispetto alle prime categorie platonico-aristoteliche la rivelazione cristiana aggiunge una terza dimensione alla definizione del vivere umano, quella della ψυχή (psyché) nel senso di un’anima o soffio vitale, che diventa il criterio di giudizio per quam vivimus e, dunque per valutare se ζωή (zoé) e βίος (bíos) siano realmente vita o morte.
“Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Giovanni 12, 25), afferma Gesù nel contesto di un breve discorso rivolto a dei greci, subito dopo il suo ingresso a Gerusalemme.

Ebbene, nell’originale greco di Giovanni il lemma usato per indicare la vita è proprio quello di ψυχή (psyché).
Per san Tommaso d’Aquino, proprio quest’ultima dimensione della vita umana è “la forma sostanziale del corpo” (Summa theologiae, I, 76, 1).
Che cosa è dunque l’uomo e la sua vita? Per l’Aquinate “corpo, corpo animato e anima razionale” (De anima, 1, 9), ma in tutt’uno di un’antropologia soprannaturale fondata sulla nozione di anima forma sostanziale del corpo, perciò sull’unione armonica di tutte e tre le dimensioni che rendono l’uomo sostanzialmente tale e, dunque, essenzialmente vitale.
Nello scientismo biomedico imperante e propagandato dal virologismo mediatico, invece, la sola dimensione della ζωή (zoé) è stata considerata l’unico, certo e inappellabile criterio che distingue vita e morte.
Non stupisce che nell’alto e inappellabile giudizio d’essa le altre dimensioni del vivere siano state ritenute non solo superflue ma non necessarie, e dunque soppresse d’imperio dallo Stato e dalla Chiesa per quanto attiene non solo a ciò che viviamo ma anche al perché viviamo.
Abbiamo, innanzi tutto, assistito e assistiamo a un inquietante scenario in cui si è materializzata quella che il filosofo viennese Ivan Illich già sul finire degli anni Settanta definiva un’epocale pandemia di iatrogenesi clinica, sociale e intellettuale (cfr. Nemesi Medica, L’espropriazione della salute, Milano, 1977; e Limits to medicine, Londra, 1988) .
Illich definisce la iatrogenesi clinica il danno che i medici infliggono nell’intento di guarire o di sfruttare il paziente.
La iatrogenesi sociale è quella di secondo livello, “i cui sintomi sono la supermedicalizzazione sociale” e che costituiscono quella che Illich chiama “espropriazione della salute”, vale a dire che questa non è più di pertinenza del singolo ma è collettivizzata.
È denominata, infine, iatrogenesi culturale quella di terzo livello, nel quale le professioni sanitarie “hanno, sulla salute, un ancor più profondo effetto negativo d’ordine culturale in quanto distruggono la capacità potenziale dell’individuo di far fronte in modo personale e autonomo alla propria umana debolezza, vulnerabilità e unicità. Il paziente in preda alla medicina contemporanea non è che un esempio dell’umanità in preda alle sue tecniche perniciose”.
Sulla spinta mediatica di virologi del mainstream e di comitati tecnico-scientifici, le cui certezze e previsioni mutavano a misura dell’aggravarsi non della pandemia ma della iatrogenesi, anche la politica ha subito una poligenesi.
La poligenesi si è così pienamente palesata non solo, come prevedeva Michel Foucault, in biopolitica, ma si è auto-leggimitata e auto-sovranizzata, in questi mesi, come biopotere: come gestione, utilizzazione e controllo del corpo umano nella società dell’economia e della finanza capitalista (cfr. Nascita della biopolitica, Milano, 2005).
La politica, poi, si è anche concretata in psicopolitica e psicopotere che plasma le menti, seduce e costringe, fino a non incontrare più resistenza alcuna perché ogni individuo ha interiorizzato come propri i bisogni del sistema (cfr. Byung-chul Han, Psychopolitik. Neoliberalismus und die neuen Machttechniken, Frankfurt, 2014).
Al grido ipnotizzante “state a casa!”, “mantenete le distanze!”, “non portate … anzi portate le mascherine!”, con l’immancabile carrellata giornaliera di morti e positivi, lo psicopotere doveva essere lasciato libero d’esercitare il suo biopotere sui corpi, sulle menti, sulle coscienze, su tutto e per l’ineffabile e messianica missione di “salvare vite umane”!
In questo delirio d’onnipotenza della “scienza” e della “politica”, nel ciclopico sforzo di preservare ciò che ci fa vivere (qua vivimus), poco importa che si dannasse tutto ciò che viviamo (quam vivimus) e, ancor più tragicamente, ciò per cui viviamo (per quam vivimus).
Nell’oscuro tramonto di chiari e solidi riferimenti logici e teologici, non stupisce allora di assistere a un’avvilente ecclesiogenesi in cui anche l’ultimo baluardo di difesa di ciò per cui viviamo, la salvezza delle anime, è cestinato come un inutile residuo medico-chirurgico.
“Che cos’è l’uomo perché Tu, o Signore, te ne ricordi e lo visiti?”.
Una ben minima creatura se paragonata all’immensità dell’universo! Una ben “fragile canna” come direbbe Blaise Pascal (Pensées, n. 264), se confrontato alle pandemie e ai pandemoni del Tempo e della Storia!
Eppure, come insegna il Concilio Vaticano II, “l’uomo, in verità, non sbaglia a riconoscersi superiore alle cose corporali e a considerarsi più che soltanto una particella della natura o un elemento anonimo della città umana. Infatti, nella sua interiorità, egli trascende l’universo delle cose: in quelle profondità egli torna, quando fa ritorno a sé stesso, là dove lo aspetta quel Dio che scruta i cuori là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino. Perciò, riconoscendo di avere un’anima spirituale e immortale, non si lascia illudere da una creazione immaginaria che si spiegherebbe solamente mediante le condizioni fisiche e sociali, ma invece va a toccare in profondo la verità stessa delle cose” (Gaudium et spes, 14).  Se un giorno sarà mai possibile lasciarci alle spalle la pandemia e, soprattutto, il pandemonio che ha travolto e sconvolto ogni aspetto che della vita viviamo ma anche la stessa ragione per cui noi viviamo; la Politica, per quanto le compete, e la Chiesa, per quanto costruttivamente e divinamente le attiene: la prima per ogni qualsivoglia proponimento e progetto di rinascita sociale ed economica; e la seconda per qualsivoglia intenzione e necessità di riscoprirsi Luce delle Genti; entrambe dovranno ripartire dall’antico interrogativo del salmista.
Entrambe, insomma, dovranno ritornare a riscoprire “la forma sostanziale del corpo”, per dirla con l’Aquinate.
La prima, la Politica, non dispone – ahinoi! – di autonome risposte, e dunque procederà come scienza di governo e come ogni scienza, inclusa la tanto declamata virologia, per trials and errors (per tentativi ed errori).
La seconda, la Chiesa, invece dovrebbe già conoscere la risposta – almeno riteniamo – da offrire e dunque, infine, avere il coraggio di offrirla nuovamente a tutti gli uomini, credenti e non credenti, ma almeno di buona volontà: “Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità. E se scoprirai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso. Tendi là dove si accende la stessa luce della ragione” (Sant’Agostino, De vera religione 39, 72).
Gian Pietro Caliari

DISTANZIATA FUTURA UMANITA'

    Fin dalla sua comparsa sulla Terra l’uomo ha cercato di non essere solo. Per Aristotele è un animale sociale e politico, destinato alla relazione. Il libro biblico avvertiva: guai a chi è solo perché se cade non ha chi lo sollevi di Roberto Pecchioli
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TUTTI, ABBANDONATOLO, FUGGIRONO. RIFLESSIONE, OGGI E IERI.

23 Maggio 2020 Pubblicato da  6 Commenti --


Marco Tosatti

Carissimi Stilumcuriali, un amico fedele del nostro sito ci ha inviato questa riflessione spirituale sul comportamento dei Pastori, duemila anni fa, e ora; passando per la Colonna Infame di Alessandro Manzoni. Buona lettura.

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Tutti, abbandonatolo, fuggirono!
di Gian Pietro Caliari

“Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono” (Matteo 26, 56). È stata questa la prima decisione del Collegio apostolico! Forse, c’era da sperare, anche l’ultima che tempestivamente e all’unanimità i primi vescovi hanno assunto.
L’evangelista, tuttavia, conscio di quel tragico dettaglio, che annota ad futuram rei memoriam, dei drammatici momenti vissuti sul “monte degli ulivi” (Matteo 26, 30), lo fa precedere dal richiamo del profeta Zaccaria: “Percuoti il pastore e sia disperso il gregge” (13, 7). Tutto, infatti, avveniva “perché si adempissero le Scritture dei profeti” (Matteo 26, 56).
Nel nuovo Getsemani dell’odierna pandemia, salvo rarissime e isolate eccezioni, gli attuali successori degli Apostoli si sono comportati con eguale codardia ma, a ben vedere, con una distinta viltà rispetto a quella dei loro augusti predecessori.
Quando, poi, per benigna concessione dei pubblici poteri si è timidamente concesso che il “Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di un’alleanza eterna, il Signore nostro Gesù” (Ebrei 13, 20) potesse porsi nuovamente a guida del suo legittimo gregge per guidarlo “alle fonti delle acque della vita” (Apocalisse 7, 17), gli eccellentissimi non hanno perso occasione per additare Pastore e pecore quali nuovi protagonisti della Colonna Infame.
Nel nostro novello caso manzoniano, il ruolo di Caterina Rosa – la donnicciola del popolo che, nell’estate del 1630, accusò gli innocenti Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora d’essere degli untori – è stato interpretato a meraviglia da un fantomatico “comitato tecnico-scientifico”, cui i Vescovi non hanno lesinato sentiti ringraziamenti.
Orbene, c’è da chiedersi o almeno sperare – come fece Alessandro Manzoni – che da “da una storia d’un avvenimento tanto complicato, d’un gran male fatto senza ragione a uomini da uomini, devono ricavarsi osservazioni più generali, e d’utilità, se non così immediata, non meno reale” (La storia della colonna infame, Einaudi, p. 2).
La prima osservazione d’utilità che tentiamo, direbbe il Manzoni, ce la fornisce il filosofo Giorgio Agamben: “La Chiesa Cattolica, facendosi ancella della scienza, che è ormai diventata la vera religione del nostro tempo, ha radicalmente rinnegato i suoi principi più essenziali” (in: Quodlibet, 13 aprile 2020).
Il filosofo ha colto la sostanza della questione. Al teologo e anche al semplice credente serve, invece, cogliere l’essenza e per questo gli è utile rileggere quanto dichiarava dogmaticamente il Concilio Vaticano II: “Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità, quale organismo visibile, attraverso il quale diffonde per tutti la verità e la grazia. […] la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino […] Infatti, come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, così in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo” (Lumen Gentium, 8).
Cristo, unica fonte di verità e grazia, per la Chiesa ma anche per l’umanità, negli ultimi sette anni è stato dal supremo pulpito declassato, perché non più centro dell’Evento cristiano. “Per me il cuore del Vangelo è nei poveri”   (Avvenire 4 aprile 2014), dice il Pontefice regnante. Con lui è anche declassato il suo Corpo che è la Chiesa, sul cui volto non risplende più la luce di Cristo per illuminare tutti gli uomini (cfr. Lumen Gentium, 1), ma al contrario che: “proprio nella vicinanza ai poveri che la Chiesa scopre di essere un popolo” e “i poveri ci salvano perché ci permettono di incontrare il volto di Gesù” (Messaggio per la III Giornata mondiale dei poveri, 2019).
Ne consegue che il santo Concilio, si sbagliava affermando, che “basandosi sulla sacra Scrittura e sulla tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza” (Lumen Gentium, 14), perché “Quando Gesù dice: I poveri li avete sempre con voi”, vuol dire: Io, sarò sempre con voi nei poveri. Sarò presente lì” (Omelia, 6 aprile 2020).
La seconda osservazione d’utilità, direbbe ancora il Manzoni. Se il comportamento dei vescovi è stato generalizzato, univoco – quasi universale! – almeno nel mondo occidentale, ciò è stato possibile perché, in realtà, i  singoli presuli hanno agito non dall’alto di “tutta la potestà ordinaria, propria e immediata che è richiesta per l’esercizio del loro ufficio pastorale” (CJC can. 381), ma perché si sono prostrati supini alle esplicite direttive che provenivano da Santa Marta ed erano applicate senza indugi dalle Conferenze episcopali.
Già nel 1984, Joseph Ratzinger notava: “Il deciso rilancio del ruolo del vescovo [voluto dal Vaticano II] si è in realtà smorzato o rischia addirittura di essere soffocato dall’inserzione dei presuli in conferenze episcopali sempre più organizzate, con strutture burocratiche spesso pesanti. Eppure, non dobbiamo dimenticare che le conferenze episcopali non hanno una base teologica, non fanno parte della struttura ineliminabile della Chiesa così com’è voluta da Cristo: hanno soltanto una funzione pratica, concreta” (Rapporto sulla fede, p. 30) .
E continuava: “Si tratta di salvaguardare la natura stessa della Chiesa cattolica, che è basata su una struttura episcopale, non su una sorta di federazione di chiese nazionali. Il livello nazionale non è una dimensione ecclesiale. Bisogna che sia di nuovo chiaro che in ogni diocesi non c’è che un pastore e maestro della fede, in comunione con gli altri pastori e maestri e con il Vicario di Cristo. La Chiesa cattolica si regge sull’equilibrio tra la comunità e la persona, in questo caso la comunità delle singole chiese locali unite nella Chiesa universale e la persona del responsabile della diocesi” (Ibidem, p. 32).
La terza osservazione d’utilità, direbbe infine il Manzoni. Nel delirio di note, lettere, appelli e direttive episcopali in tema di pandemia è apparso di tutto e il contrario di tutto. Soprattutto, è emersa la totale assenza di una lettura teologica degli eventi e sterili appelli a pie pratiche che, fino al giorno prima, erano derise e rinnegate dalla teologia à la page!
Ci sarebbe da chiedere quale parroco, quale prete e quale catechista abbia insegnato, negli ultimi cinquant’anni, la comunione spirituale, la confessione per votum, la dispensa, e – persino – in che cosa consista il precetto pasquale.
Arnesi vecchi e inutili per una teologia che insegna che la Messa è una festa, un’adunanza, una santa cena; che la Confessione è un dialogo, un confronto o al massimo una ripartenza dopo un infortunio. E, infine, che : “È bello pensare che il nostro Dio non ha bisogno di sacrifici per conquistare il suo favore! Non ha bisogno di niente, il nostro Dio: nella preghiera chiede solo che noi teniamo aperto un canale di comunicazione con Lui per scoprirci sempre suoi figli amatissimi” (Catechesi, 2 gennaio 2019).
Ancora Ratzinger notava: “Poiché la teologia non sembra più poter trasmettere un modello comune della fede, anche la catechesi è esposta alla frantumazione, a esperimenti che mutano continuamente. Alcuni catechismi e molti catechisti non insegnano più la fede cattolica nel suo complesso armonico – dove ogni verità presuppone e spiega l’altra – ma cercano di rendere umanamente interessanti (secondo gli orientamenti culturali del momento) alcuni elementi del patrimonio cristiano. Alcuni passi biblici vengono messi in rilievo perché considerati più vicini alla sensibilità contemporanea; altri, per il motivo opposto, vengono accantonati. Dunque, non più una catechesi che sia formazione globale alla fede, ma riflessi e spunti di esperienze antropologiche parziali, soggettive” (Rapporto sulla fede, pp. 38-39).
Al contrario, mentre si squalifica il proprium dell’educazione e della formazione cristiana, si invita apertamente a “promuovere un evento, che avrà per tema Ricostruire il patto educativo globale: un incontro per ravvivare limpegno per e con le giovani generazioni, rinnovando la passione per uneducazione più aperta ed inclusiva, capace di ascolto paziente, dialogo costruttivo e mutua comprensione” (Messaggio per il Patto Educativo, 12 settembre 2020).
Non la pensavano così i Padri conciliari che scrivevano:” Tutti i cristiani, in quanto rigenerati nell’acqua e nello Spirito Santo, son divenuti una nuova creatura, quindi sono di nome e di fatto figli di Dio, e hanno diritto a un’educazione cristiana. Essa non mira solo ad assicurare quella maturità propria dell’umana persona, di cui si è ora parlato, ma tende soprattutto a far si che i battezzati, iniziati gradualmente alla conoscenza del mistero della salvezza, prendano sempre maggiore coscienza del dono della fede, che hanno ricevuto; […] Essi inoltre, consapevoli della loro vocazione, debbono addestrarsi sia a testimoniare la speranza che è in loro, sia a promuovere la elevazione in senso cristiano del mondo, per cui i valori naturali, inquadrati nella considerazione completa dell’uomo redento da Cristo, contribuiscano al bene di tutta la società. Pertanto questo santo Sinodo ricorda ai pastori di anime il dovere gravissimo di provvedere a che tutti i fedeli ricevano questa educazione cristiana, specialmente i giovani, che sono la speranza della Chiesa (Dichiarazione del Concilio Vaticano II, Gravissimum educationis, 2).
Il nostro Manzoni, riferendosi ai giudici che condannarono gli innocenti untori, scrisse: “Se non sapessero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser forzatamente vittime, ma non autori” (La storia della colonna infame, cit., p. 5).
E che i vescovi, non sia stati forzatamente vittime, ma autori; è fuor di discussione!

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