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Ieri sono andato a messa, come immagino abbiano fatto molti lettori di questo piccolo blog. Nella mia parrocchia penso sia stato fatto tutto secondo il famoso Protocollo (di solito uso pochissimo le maiuscole, ma qui ci vuole!): tutti con le mascherine, distanza di sicurezza, disinfezione delle mani all’entrata eccetera eccetera.
Non discuto, mi va bene così. Del resto, a me singolarmente è andata di lusso anche nei due mesi appena trascorsi: possibilità di fare un’ora di adorazione eucaristica tutti i giorni; possibilità di confessarsi; partecipazione alla messa di Pasqua (in quanto lettore) e comunione eucaristica dopo una delle due confessioni che ho fatto. Grasso che cola, per dirla in modo volgare, rispetto alla condizione in cui versano normalmente tanti altri cristiani nel mondo. Non ho nulla di cui lamentarmi, anzi mi sono sentito francamente un privilegiato: mai come in questi due mesi il sacramento è stato così centrale nella mia vita: quell’ora di adorazione in chiesa, dalle 18 alle 19, è diventata il perno felice dell’intera mia giornata. La gratitudine per quanto ho ricevuto non mi impedisce però di temere che, in generale, le cose non siano invece andate altrettanto bene per la chiesa italiana. Anzi, per dirla tutta, io temo che siano andate molto male. Cerco di spiegare perché.
Ieri sera, andando a messa, naturalmente io e gli altri fedeli abbiamo corso un rischio: del tutto ragionevolmente, aggiungo subito. In che consiste, infatti, la ragionevolezza umana (e tanto più cristiana, essendo la fede in Cristo il vertice dell’umana ragione) di un comportamento rischioso? Nella proporzione tra l’entità del rischio che si corre (data dalla magnitudine del danno paventato e dalla probabilità che esso si verifichi) tenuto conto dell’adeguatezza e dell’efficacia presunta delle precauzioni che si prendono, in rapporto al valore del bene che si ottiene o si preserva correndolo. Per esempio: uscire di casa e camminare per strada comporta dei rischi, ad esempio quello che ci cada in testa un oggetto sufficientemente pesante da ucciderci (un pezzo di cornicione deteriorato, un vaso di fiori mal collocato, il ramo di un albero malato … perfino un meteorite). Il danno potenziale è gravissimo, ma la probabilità che si verifichi è talmente bassa che sarebbe irragionevole chiudersi in casa, e sarebbe irragionevole anche mettersi l’elmetto. Se è in corso un temporale, il rischio di inzupparsi d’acqua è molto alto, anche se si indossa l’impermeabile e si usa l’ombrello, ma la grandezza del danno potenziale è di molto inferiore: uscire di casa solo per fare una passeggiata sarebbe perciò irragionevole, ma non lo sarebbe affatto andare in farmacia a prendere una medicina di cui qualcuno ha bisogno, perché il bene che in questo modo si consegue è di molto superiore al potenziale danno di un raffreddore. Se però fosse in corso non un temporale ma un bombardamento, il giudizio di ragionevolezza cambierebbe: uscire dal rifugio sarebbe sensato (ed eroico) solo per salvare una vita. E così via.
L’eclissi della ragione che il regime della paura ha indotto in tutti noi ha di fatto vietato che le persone si ponessero in termini razionali la questione di quali comportamenti adottare di volta in volta, in rapporto ad una entità di rischio che si doveva cercare di stimare in modo specifico e concreto. Non potendolo (o non volendolo) fare, si è sequestrata l’intera società (oltretutto stracciando la costituzione, che prevedeva altri modi di affrontare l’emergenza): tutti in casa, se no moriamo tutti. (A questa retorica se ne è peraltro contrapposta un’altra, ugualmente terroristica: aprite tutto, se no moriamo tutti di fame).
Tutto è rischioso, nella vita, e la sola profilassi assoluta, totale e definitiva nei confronti del Covid-19 sarebbe smettere di respirare. Ma la domanda, ineludibile per quanto difficile sia la risposta, è “quanto rischioso?” Quanto è rischioso stare a lungo in una stanza vicino ad una persona infetta senza dispositivi di protezione? E con i dispositivi?; quanto lo è starci a distanza di due metri, o di quattro?; quanto lo è stare alla stessa distanza, ma all’aperto?; e quanto lo è starci a distanza, all’aperto, per pochi minuti?; e quanto incrociarla solo per pochi secondi mentre si cammina dall’altra parte della strada? Quante goccioline (dunque quanta carica virale, se si è infetti) e a che distanza si emettono starnutendo? E tossendo? E cantando? E parlando? E a bocca chiusa, respirando col naso? Eccetera eccetera: le domande si potrebbero moltiplicare, e so bene che possono suonare inopportune e pedanti, perché le risposte non sono facili, ma tengo il punto: senza una stima almeno approssimativamente attendibile dell’entità del rischio non è possibile determinare la ragionevolezza delle azioni che si compiono e si diventa come pecore senza pastore, pronte ad essere preda dei lupi. Privi di un criterio per valutare le nostre azioni siamo vittime predestinate della dittatura di chi detiene il potere.
Quando vedo persone che camminano da sole, in aperta campagna, indossando mascherina e guanti, mi chiedo da che cosa intendano proteggersi; e quando alla televisione mi fanno vedere costose sanificazioni di luoghi chiusi da settimane (siano essi negozi o la basilica di San Pietro) mi chiedo come abbia fatto il virus a penetraarvi e come vi sia sopravvissuto nella solitudine. In compenso, in tutte queste settimane non ho mai sentito nessuno avvertire che sarebbe meglio evitare gli ascensori, se si può: senza essere virologo, mi pare che la probabilità di contrarre il virus nell’abitacolo di un ascensore, se nelle ore precedenti vi ha tossito o starnutito una persona infetta, sia decisamente più alta e d’altro canto fare le scale è sì scomodo ma salutare, soprattutto in tempi di inattività forzata. Ne consegue l’assoluta ragionevolezza di preferirle, eppure non l’ho sentito consigliare da nessuno … È solo un esempio, ma indicativo di una generale trascuratezza di quel principio di ragionevole proporzionalità che sopra invocavo. Anche alla messa di ieri sera, per fare un altro esempio, si è immediatamente proceduto a disinfettare le panche dopo la fine del culto (rischio bassissimo, per non dire quasi inesistente), ma si è cantato (con conseguente aumento delle goccioline emesse, dunque del rischio): non c’è proporzione.
La chiesa, infatti, mi sembra che abbia purtroppo subito il regime della paura come tutti gli altri. Invece di “pensare con la sua testa” (eppure, dice Paolo, «noi abbiamo il pensiero di Cristo»!), si è legata mani e piedi al carro del governo e dei suoi comitati. La messa, a cui ho partecipato ieri si poteva fare, alle stesse condizioni di ragionevole rischio, anche due mesi fa. Il virus infatti non è sparito dall’Italia e la possibilità di infettarsi esiste anche adesso; non sono in grado di dire se e di quanto sia minore rispetto a due mesi fa, ma certo non siamo in un ordine di grandezza abissalmente distante (non è 1 rispetto a 100, per dire). Dunque se ora, con certe precauzioni, si può partecipare alla messa correndo un certo rischio, con le stesse precauzioni lo si poteva fare anche prima correndo un rischio simile o di poco superiore. Perché non lo si è fatto? La questione torna quella da cui siamo partiti: è ragionevole correre tale rischio? Poiché la probabilità di infettarsi è bassa e il danno potenziale alto (se andando a messa si diffonde il contagio, a molti non succede niente di grave, pochi altri prendono una brutta malattia, ma qualcuno muore), tutto dipende dal valore del bene che è in gioco. Quanto è importante che i fedeli possano partecipare alla messa? Se, per stare agli esempi fatti sopra, vale quanto uscire a prendere una boccata d’aria, è ragionevole rinunciarvi anche se c’è solo il rischio di prendere la pioggia. Se invece è come un farmaco salvavita, per procurarselo ha senso uscire anche sotto le bombe.
Mi spiace moltissimo dirlo, lo faccio solo con dolore e senza alcuno spirito polemico, ma sono convinto che la chiesa italiana, nel suo insieme e più che altro per il modo (direi quasi lo stile) del suo agire, ha comunicato, di fatto, il messaggio che andare a messa non era molto importante. E questo resta. Ci si metteranno mille pezze e mille cerotti, ma resta.
E il lavarsi le mani del titolo che cosa c’entra? Beh, c’è un particolare che mi ha colpito: il Protocollo credo preveda che il sacerdote si disinfetti le mani e indossi i guanti immediatamente prima di distribuire le particole ai fedeli. So che questo ha fatto gridare alcuni allo scandalo, personalmente non mi straccio le vesti però non posso fare a meno di notare una cosa: una purificazione delle mani, il rito della messa la prevede già, al momento dell’offertorio. Si dirà, ovviamente, che si tratta di un puro simbolo, consistente nel versare poche gocce d’acqua sulle mani del celebrante. Però un simbolo si radica sempre in una realtà materiale sottostante. L’acqua è un simbolo di purificazione in quanto è il detergente naturale per eccellenza, se no non lo sarebbe. Che cosa ci sarebbe stato di più liturgico (nel senso di più aderente allo spirito della liturgia) di ridare a quel simbolo, in forza delle circostanze eccezionali in cui ci troviamo, anche tutta la sua valenza materiale originaria? Voglio dire: invece di inserire una zeppa a-liturgica come il gesto di disinfettarsi e mettersi i guanti di lattice prima della distribuzione dell’eucarestia – un gesto che viene da un altro ordine e risponde ad un altra autorità rispetto a quella della lex orandi – non sarebbe stato molto meglio prevedere che al momento dell’offertorio la purificazione delle mani consistesse in una loro effettiva disinfezione? Dopo di che, ragionevolmente, durante la preghiera eucaristica e nell’atto della consacrazione il sacerdote le mani come può mai contaminarle? E se con quelle mani pure prende le ostie che distribuisce ai fedeli, ragionevolmente chi può mai infettare? I guanti di lattice per toccare le particole, più che sacrileghi come alcuni dicono mi paiono irragionevoli. Il che, dal punto di vista sopra esposto, non è meno grave.
https://leonardolugaresi.wordpress.com/2020/05/19/lavarsi-le-mani-chiesa-ragionevolezza-e-coronavirus/
Prete ringrazia demoni per "aiuto vudù"
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