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sabato 9 maggio 2020

Profeti di sventura

Il virus è un castigo di Dio? “La Civiltà Cattolica” dice di no



“Profeti di sventura”. È così che “La Civiltà Cattolica” – la rivista dei gesuiti di Roma che va in stampa dopo essere stata vista e approvata dal papa – definisce e squalifica chi tra i cattolici va sostenendo che la pandemia di coronavirus è “una punizione di Dio adirato contro un mondo peccatore”.

L’ha fatto nel suo ultimo numero, con la firma di un gesuita di prim’ordine, David M. Neuhaus, docente al Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme, nato ebreo, cittadino d’Israele, convertito in gioventù dalla fede ebraica a quella cristiana, nonche vicario del patriarcato di Gerusalemme dal 2009 al 2017 per gli ebrei israeliani entrati nella Chiesa cattolica.
Neuhaus non fa nomi. Ma è evidente che nel suo mirino vi sono tra gli altri l’arcivescovo Carlo Maria Viganò e il professor Roberto de Mattei.
Sono soprattutto due – scrive Neuhaus – i passi della Bibbia che i sostenitori della punizione divina “piegano a proprio uso e consumo”.
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Il primo è tratto dal capitolo 24 del secondo libro di Samuele. Ed è il racconto della peste con cui Dio punì il popolo d’Israele per una colpa commessa dal re Davide, quella di aver ordinato un censimento con la pretesa di ritenere suo un popolo che invece era di Dio.
Sebbene Davide si fosse pentito, si legge che “il Signore mandò la peste in Israele, da quella mattina fino al tempo fissato. Da Dan a Bersabea morirono tra il popolo settantamila persone”. E soltanto quando l’angelo sterminatore stese la mano su Gerusalemme il Signore disse all’angelo: “Ora basta! Ritira la mano!”.
In effetti, l’immagine biblica dell’angelo che rimette la spada nel fodero è stata adottata dall’arte cristiana, che vi ha fatto ricorso più volte nel raffigurare la cessazione di una pestilenza. Ad esempio, a Roma, sulla sommità di Castel Sant’Angelo (vedi foto).
Ma per Neuhaus è sbagliato attenersi alla lettera di questo racconto. Chi ne deducesse che la peste e qualsiasi altra calamità siano strumento della punizione divina “farebbe una lettura falsata del testo, ignorandone il contesto sia storico sia narrativo, le intenzioni dell’autore e il messaggio teologico sottostante”.
“La narrazione del censimento, infatti – spiega Neuhaus –, rientra in una lunga storia che inizia con l’ingresso nella terra promessa, nel libro di Giosuè, e si muove ininterrottamente fino alla distruzione di Gerusalemme e del tempio. Questa ampia saga, scritta verso la metà del VI secolo a.C., è il frutto letterario di un autore o di una scuola di autori che gli studiosi chiamano ‘deuteronomista’. Lo scottante problema dell’epoca era quello di meditare sulla sciagura della distruzione del tempio, che Salomone aveva costruito, e della città di Gerusalemme, con il conseguente esilio a Babilonia. Insomma, la domanda alla quale risponde quel testo è: Come è possibile che Dio abbia donato a Giosuè la terra e che questa sia stata perduta con l’invasione babilonese?
“L’intera tradizione narrativa deuteronomista è stata scritta in un contesto di devastazione: tutto era andato perduto. Il popolo doveva rileggere la propria storia per assumersene la responsabilità e chiedere perdono a Dio. La pagina biblica non intende affermare la pestilenza come punizione divina, bensì la necessità che il popolo – come Davide – si assuma le proprie responsabilità negli eventi che hanno condotto all’esilio.
“Certo, secondo la comprensione di Dio nella Scrittura, che è sempre in divenire, vi è qui ancora una mentalità religiosa che tende a riferire tutto a Dio come causa prima e a collegare ogni avversità con un precedente peccato commesso, dal singolo o da altri. Dopo la ‘correzione’ successiva dei testi profetici – ad esempio Ezechiele –, per cui ciascuno paga soltanto le conseguenze del proprio peccato, sarà Gesù a contraddire questa logica religiosa di stretta dipendenza tra colpa e castigo, come nel caso degli episodi della torre di Siloe e del cieco nato”.
Del crollo della torre di Siloe Gesù parla nel capitolo 13 del Vangelo di Luca: “Quei diciotto sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”.
Mentre la guarigione del cieco nato è narrata nel capitolo 9 del Vangelo di Giovanni, con i discepoli che chiedono a Gesù: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. E Gesù che risponde: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”, cioè appunto la sua guarigione ad opera di colui che è “la luce del mondo”.
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Il secondo passo biblico che Neuhaus vuole strappare dalle mani dei “profeti di sventura” non è dell’Antico ma del Nuovo Testamento. È nel capitolo 16 dell’Apocalisse, là dove “una voce celeste ordina a sette angeli: ‘Andate e versate sulla terra le sette coppe dell’ira di Dio’”, cioè peste, fuoco, sangue, tenebre e altre tremende calamità.
Anche da questo testo si dovrebbe desumere una “punizione divina inflitta a un mondo senza fede”?
No, risponde Neuhaus. Il testo va inquadrato nel suo contesto: “Nel libro dell’Apocalisse, come del resto nelle profezie apocalittiche anticotestamentarie, si intrecciano tre elementi: discernimento, chiarezza di visione e risposta”.
Il discernimento “delinea le forze schierate in questo mondo e la posta in gioco, che comporta mettersi dalla parte di Dio”.
La chiarezza di visione “è basata sulla profonda fede nel fatto che Cristo ha già vinto la battaglia, e alla fine sconfiggerà il male, anche se lo scontro durerà a lungo”.
E la risposta “non si risolve in una cupa profezia di sventura. Piuttosto, tutto dipende da come i credenti trasformano la propria vita alla luce della consapevolezza che alla fine Cristo sarà vittorioso. Essi devono impegnarsi attivamente nel rendere testimonianza e a cambiare il mondo con risolutezza. È un appello ad agire, a contribuire a costruire il Regno attraverso l’imitazione di Gesù, mite agnello immolato per la salvezza del mondo”.
Scrive Neuhaus in conclusione del suo articolo:
“Ai nostri tempi, l’Apocalisse ci ricorda che la Chiesa è chiamata a non assecondare una cultura dominante, intrisa di paura, di accuse, di chiusure e di isolamento. Se il mondo offre una visione del futuro costruita sulla paura, la Chiesa, invece, ispirandosi alla Bibbia e al libro dell’Apocalisse che la conclude, offre una prospettiva diversa, animata e fondata sulla certezza della Buona Notizia della vittoria di Cristo. Quando tutto sembra oscuro, il discepolo di Gesù è chiamato a irradiare la certezza che il tempo delle tenebre è limitato, che Dio sta venendo e che la Chiesa è chiamata con la preghiera e la testimonianza a preparare questa venuta. Ciò significa che la nostra lettura della parola di Dio nella Bibbia deve tradursi in un messaggio di Buona Notizia che richiama alla conversione un mondo in crisi, non in un giudizio moralistico o in una profezia di sventura. […] C’è un tema che attraversa la Bibbia cristiana dall’inizio alla fine: Dio non ha permesso, non permette e non permetterà mai al peccato, all’oscurità e alla morte di prevalere”.
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Il testo integrale dell’articolo di padre David M. Neuhaus su “La Civiltà Cattolica” del 2-16 maggio 2020:
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La pagina del secondo libro di Samuele con il racconto della peste inflitta da Dio al popolo d’Israele, commentata da padre Neuhaus, fa da prima lettura nella “Missa pro vitanda mortalitate” del messale di rito antico.
Ma questa messa non compare più nel nuovo messale attualmente in uso. E neppure vi si ritrova più il brano di 2 Samuele 24.
Nel formulario della messa “in tempo di pandemia” distribuito dal cardinale Robert Sarah, prefetto della congreagazione per il culto divino, lo scorso 30 marzo, in concomitanza con il dilagare del coronavirus, le letture proposte sono Lamentazioni 3,17-26 (“È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore”), Romani 8,31b-39 (“Né morte, né vita potranno separarci dall’amore di Dio”) e Marco 4,35-41 (“Chi è costui al quale anche il vento e il mare obbediscono?”).
Settimo Cielo
di Sandro Magister 09 mag

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