Povera mamma e povero papà, tutta una vita dedicata alla scuola: che direbbero oggi, se vedessero cosa la scuola è diventata? Ci hanno insegnato a lottare, per fare ciò che è giusto e con cristiana benevolenza verso il prossimo
di Francesco Lamendola
È un freddissimo mattino di febbraio del 1954 e le montagne del Friuli sono tutte coperte di neve e ghiaccio. Gli operai della cartiera, gli impiegati e i tre o quattro maestri elementari provenienti dalla città sono scesi dalla corriera a Moggio Udinese, Mueç in friulano, alla confluenza del Canal del Ferro con la Val d’Aupa. Intirizziti, entrano al bar per scaldarsi e mandar giù il caffè bollente e dalla vetrina vedono allontanarsi con passo spedito, come ogni giorno, la maestrina ventenne che prosegue tutta sola per la minuscola frazione di Chiaranda, circa tre chilometri più in su. La corriera non arriva fin là e del resto non c’è neanche la strada asfaltata; quanto alla scuola è un modestissimo edificio con una classe sola, nella quale fanno lezione tutti insieme i bambini dalla prima alla quinta.
Gli avventori del bar si scambiano un’occhiata, quasi increduli, mentre la giovane si allontana con la borsa dei libri sotto il braccio e dicono che quando la vedono passare, così svelta e sorridente, è come se portasse con sé la primavera. A Chiaranda non c’è la luce elettrica, né il riscaldamento, né acqua corrente nelle camere: solo una soffitta presso la bidella, dove, accanto al deposito delle mele, hanno sistemato un letto per lei che, dal tramonto, deve studiare con il lume a petrolio. Si sta preparando per sostenere un concorso e cercar di ottenere una destinazione più comoda, se possibile in città, perché si è sposata in settembre e adesso è in arrivo un bambino che dà già i primi segni di vita – il nostro fratello maggiore. Il lunedì si è portata, insieme ai libri, un po’ di cibo, ma vedendo quei piccoli che la osservano con occhi bramosi, non ha resistito all’impulso di distribuir loro gran parte della scorta. È talmente innamorata del suo lavoro e così traboccante d’entusiasmo e di affetto per quei piccoli, da sentirli come creature sue, e lo scrive nel diario ove riversa le sue riflessioni quotidiane, dalle quali traspaiono un acume psicologico e una competenza didattica che si stenterebbe ad attribuire a una ragazza di vent’anni che, in fondo, sa ancora così poco della vita. Tutti la stimano e le vogliono bene nel minuscolo borgo, e c’è perfino chi le confida le proprie pene e le chiede consigli su questioni delicate, scordandosi di aver di fronte una giovane che fino a qualche mese prima viveva in città, coi genitori, e di certe cose sa ben poco, anche se supplisce con la sensibilità e con la cristiana benevolenza verso il prossimo.
Coraggio ! Dobbiamo smetterla di piagnucolare sulle difficoltà dell’ora presente, e astenerci dal continuo lamento: stiamo scoraggiando i giovani, che ci guardano e ci stanno osservando più attentamente di quel che non c’immaginiamo: il Regno di Dio trionferà!
Con l’avanzare della gravidanza, però, quella sistemazione scomoda e precaria diventa insostenibile e così si è accordata con una famiglia di Moggio, parenti acquisiti di una sorella più grande, per cenare e dormire presso di loro. Restano comunque i tre chilometri di strada sterrata in mezzo al bosco da fare due volte al giorno, la mattina e il pomeriggio, dal lunedì al sabato (niente giorno libero settimanale per gli insegnanti, allora), e solo la domenica da trascorrere a casa sua, in città, col marito ex militare di carriera e ora insegnante anche lui, professore d’inglese nelle scuole medie superiori. E quel giorno, di ritorno dalle lezioni, come il destino in agguato, lo scivolone rovinoso sulla strada ghiacciata; la poverina ruzzola per alcuni metri fino al margine del fosso. Per fortuna non si è fatta male, però è terrorizzata all’idea che quella caduta possa aver avuto conseguenze fatali per il nascituro, che da qualche tempo si fa sentire con vivacità e che adesso, con orrore, le pare di non sentire più. La strada è buia e deserta; affrettando il passo arriva alla chiesa parrocchiale ormai vicina, non c’è anima viva, entra e siede al banco di fronte all’altare della Madonna, e prega: Maria Santissima, ti supplico, fa’ che non sia successo niente di male al mio bambino; di qui non mi muovo finché non me lo fai sentire ancora. Questo le chiede quella giovane donna piena di fede, e rivolge gli occhi imploranti alla Beata Vergine che pare ascoltarla, nel gran silenzio della chiesa semibuia e rivolgerle un lieve sorriso nella tenue luce dei ceri. A un tratto, il miracolo: il bambino (o la bambina?; allora non si faceva l’amniocentesi) dà nuovamente dei timidi segni di vita. Allora è vivo; allora sta bene; allora non è successo niente d’irreparabile! Sì, la Madonna dall’altare sembra proprio sorriderle; e la giovane, rassicurata, esultante, come in un piccolo Magnificat: Ti ringrazio, Madre santa: lo sapevo che mi avresti ascoltata.
La bontà dei nostri genitori e dei nostri nonni era una bontà fattiva, virile, pedagogica; e in nessun caso un alibi o una scusante per il vizio e la colpa!
Questo, in fondo, non è che un episodio di una lunga serie di piccoli atti di coraggio quotidiano, coi quali si potrebbe intrecciare una ghirlanda per raccontare la vita di una persona semplice, come lo era nostra madre e come lo erano molte persone di quella generazione, educate alla severa scuola del dovere e della responsabilità, e tuttavia non inasprite dalle rinunce e dalla preoccupazioni, ma anzi, aperte e disponibili, perché animate da un sincero amore cristiano verso il prossimo. Un amore che era fatto di cose e gesti semplici e concreti e traeva alimento dalla bontà, della quale l’odierno buonismo, così politicamente raccomandato e quasi imposto per legge, è solo una ipocrita e ignobile contraffazione. Potremmo riempire un grosso quaderno di ricordi, se volessimo elencare tutti i gesti di misericordia materiale e spirituale che abbiamo visto compiere spontaneamente dalla mamma nel corso della sua non facile esistenza; un quaderno pieno di azioni che hanno fatto del bene, sì, ma con discernimento (quello vero, non quello di Bergoglio), con saggezza, con prudenza e sempre con la finalità di elevare e in un certo qual modo di educare il prossimo, non semplicemente di aiutarlo, lasciandolo però, in sostanza, nelle stesse condizioni di prima, e soprattutto non incoraggiandolo nei suoi atteggiamento sbagliati o nelle sue pretese ingiustificate. Un quaderno che avrebbe molte cose da insegnare oggi ai grossisti della misericordia e inflazionisti della solidarietà e dell’accoglienza, come il falso clero bergogliano e gl’intellettuali radical-chic con l’attico a New York, tipo Saviano, la cui vera molla è l’odio della propria identità e del proprio patrimonio spirituale e una smania disordinata di agevolare, per ragioni astrattamente ideologiche che nulla hanno a che fare con la realtà delle cose, quelli che non se lo meritano, perché le loro intenzioni non sono oneste e il loro stato d’indigenza è sventolato come una bandiera per strappare diritti e privilegi, o viene esibito per conto e a nome loro da una gioventù nostrana che disdegna di assistere i vecchi delle case di riposo ma scalpita per poter andare in Africa ad aiutare i bambini di quel continente, salvo poi convertirsi all’islam e simpatizzare, magari, per quegli stessi terroristi che non esitano a rapire i cooperanti europei per chiederne il riscatto.
Un tempo esisteva un orizzonte culturale e morale condiviso: non accadeva che la mamma desse ragione a noi bambini contro il papà o viceversa, salvo casi del tutto eccezionali; né che i nonni contraddicessero gli insegnamento dei genitori, e neppure il contrario; o che il professore desse torto al parroco, o viceversa; e così via. Erano tutti d’accordo sulle cose essenziali e su molte di quelle secondarie: dal fatto di osservare un’assoluta onestà verso chiunque, adulto o bambino che fosse, a quello di recarsi alla santa Messa il primo giorno dell’anno scolastico!
No: non era di questo tipo la bontà dei nostri genitori e dei nostri nonni; non era quella che ci insegnavano la maestra e il sacerdote; e nemmeno quella di cui parlavano gli uomini politici, nazionali e internazionali. Era una bontà fattiva, virile, pedagogica; e in nessun caso un alibi o una scusante per il vizio e la colpa. Su questo erano tutti d’accordo: esisteva un orizzonte culturale e morale condiviso; non accadeva che la mamma desse ragione a noi bambini contro il papà o viceversa, salvo casi del tutto eccezionali; né che i nonni contraddicessero gli insegnamento dei genitori, e neppure il contrario; o che il professore desse torto al parroco, o viceversa; e così via. Erano tutti d’accordo sulle cose essenziali e su molte di quelle secondarie: dal fatto di osservare un’assoluta onestà verso chiunque, adulto o bambino che fosse, a quello di recarsi alla santa Messa il primo giorno dell’anno scolastico. Non vogliamo dire con ciò che il mondo della nostra infanzia fosse fatto di santi; le mele marce c’erano, e al bar o per la strada, e anche nei campi, le bestemmie non erano affatto rare; nessuno però aveva la sfrontatezza di affermare che il male fosse bene o che il bene fosse male; o se pure qualcuno ce l’aveva, veniva per ciò stesso emarginato e guardato con un misto di diffidenza e disprezzo. Se un ragazzo si comportava male, si prendeva il meritato rimprovero o la meritata punizione e se li metteva in tasca, facendone tesoro; certo non andava in cerca di un adulto che prendesse le sue difese, perché non l’avrebbe trovato. Spesso, per la strada, il papà o la mamma incontravano degli ex alunni, o ne ricevevano la visita a casa, anche a distanza di moltissimi anni; tutti li ricordavano con riconoscenza e ammirazione: eppure sia l’uno che l’altro sapevano anche essere severi, e i voti non li regalavano affatto. Avevano però la dote di valorizzare i loro studenti, d’incoraggiarli, di entusiasmarli, di farli innamorare delle materie di studio; sapevano trasmettere curiosità e perseveranza, né mai scordavano il lato umano del rapporto educativo, senza però scivolare nella demagogica negazione, stile don Milani, della giusta distanza e della differenza di ruoli che esistono fra insegnante e alunno, così come non se ne scordavano con i loro stessi figli. E poi un grande, un grandissimo senso del dovere: da loro abbiamo appreso a non tirarci mai indietro, a non giocare al risparmio, ad andare al lavoro anche con qualche acciacco, perché non si muore per qualche linea di febbre o per un po’ di mal di schiena. Povera mamma e povero papà, tutta una vita dedicata alla scuola: che direbbero oggi, se vedessero che cosa la scuola è diventata? Meglio che se ne siano andati prima.
Povera mamma e povero papà, tutta una vita dedicata alla scuola: che direbbero oggi, se vedessero che cosa la scuola è diventata?
Una storia semplice
di Francesco Lamendola
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