PARTE TERZA
DATEVI UN SEGNO DI PACE
DATEVI UN SEGNO DI PACE
Al termine del Padre Nostro, il celebrante, rivolto ai fedeli, porge loro l’invito a scambiarsi ‘un segno di pace’. Sùbito dopo si scatena la caccia alla mano da stringere. Eh sì, perché nonostante l’esortazione parli di un segno – vale a dire uno, tra i tanti, non ben identificato – quello della stretta di mano è diventato il segno unico ed esclusivo. Per il quale va ricordato il ruolo che, nella riforma – o ‘deforma’ - della Santa Messa ebbe il sopra citato massone, mons. Annibale Bugnini, il quale, in forza del suo incarico di Presidente di Commissione, inserì questo gesto non senza una sottile e reale intenzione di inquinare il significato della vera pace di Cristo. Un elemento totalmente dissacratorio che ci apprestiamo a spiegare.
Alla più parte dei fedeli sfugge che la ‘stretta di mano’ è uno dei segni di riconoscimento che i ‘fratelli 3 puntini’ – i massoni – includono nel loro ermetico cerimoniale. Chi possiede, sia pur superficiali, nozioni circa la massoneria e il suo rituale, sa che la stretta di mano, col pollice di una che preme, due o più volte, sull’altra nella concavità molle, sita tra pollice/indice e contigua alla così detta “tabacchiera anatomica”, è un espediente di per sé nulla significante per chi, massone non essendo, non ne avverte il messaggio cifrato, diversamente da altro che, massone ‘coperto’, lo riceve pronto a ricambiarlo.
Sfugge, abbiam detto, alla totalità dei fedeli dacché la stretta di mano è sempre stata, e lo è, segno di amicizia, di concordia, apertura a nuovi rapporti umani, sigillo a un patto e, pertanto, intrinsecamente positivo. Con questa apparente connotazione di affermata positività, che fa velo all’occulta ma reale significanza, buon gioco ha avuto lo scaltro massone mons. Bugnini ad inserire, così, un perverso simbolo nel rituale della Santa Messa.
Ma è da sottolineare che, al di là della sottigliezza massonica, la stretta di mano resta un gesto laico che niente ha da spartire col segno di pace che caratterizza la dimensione cristiana definita nel complesso del sacro rito della Messa intesa quale ripetizione incruenta del sacrifico della Croce.
Noi, per siffatta ragione, rifiutiamo di stringer la mano che qualche fedele protende verso di noi e ciò desta sorpresa – spesso irritazione – nell’altro che, a fine rito, ci chiede spiegazione. E noi, allora, volentieri illustriamo l’arcano, così, come in appresso.
Narra Eusebio di Cesarea (263-339 d. C.) che, alcun tempo prima della battaglia a Ponte Milvio – 28 ottobre 312 – l’imperatore Costantino, ebbe in sogno una visione in cui gli appariva una Croce con la scritta greca “En tuto nike” – in questo la vittoria – tradotta in latino “in hoc signo vinces” – in questo segno vincerai. Dopo di che dette ordine di apporlo su scudi e labari. È il segno che consacrò i crociati nella difesa della Terra Santa, che protesse i Franchi dai musulmani nella battaglia vittoriosa di Poitiers (732), che accompagnò la flotta cristiana a Lepanto (1571) contro l’Impero Ottomano, che fu baluardo e vittoria sui Turchi nell’assedio di Vienna (1683); è il segno con cui si rappresenta e si adora Dio Trinità; che splende e lampeggia nel cielo dei martiri, così come lo vide e descrisse Dante nella sua Divina Commedia (Par. XIV, 94/105); che adorna il logo di tutti gli Ordini religiosi; che apre e chiude l’amministrazione di ogni sacramento; che apre la vita del cristiano nel battesimo e la chiude nell’estrema unzione; che apre l’ufficio delle ore, da mattutino a compieta; che apre e chiude il rito sacrificale della Santa Messa; che apre e chiude la recita del santo Rosario; che apre e chiude la giornata del buon cristiano; che dà conforto nei momenti di pericolo; che pende dalla catenina quale testimone di fede e di difesa; che spicca sui campanili, irradia pace nei cimiteri e consolazione negli ospedali.
Ciò vuol dire che l’unico e il solo segno che distingue e rende riconoscibile il cristiano è quello della santa Croce, riassuntivo dell’intera storia della salvezza, delle virtù teologali – Fede, Speranza, Carità. Ma soprattutto esclusivo segno di pace, sì, perché sulla/nella/con la Croce s’è ristabilita l’armonìa, l’amicizia fra cielo e terra, fra l’uomo e Dio (rappacificare con il sangue della sua croce, gli esseri della terra e quelli del cielo - Col. 1, 20), e segno della potenza di Cristo secondo quanto è scritto: “Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria” (Mt. 24, 3). La Croce, pertanto, si rappresenta segno con il quale chiediamo e auguriamo la pace e, nello stesso tempo, proclamiamo la potenza e la gloria del Figlio di Dio fattosi uomo.
Ma, nonostante siffatta alta significanza, si cerca e si dà la pace barattandola con una banale stretta di mano la cui scenografìa rappresenta quanto di più avvilente, penoso e deplorevole si possa immaginare: mani sudaticce, molli, sfuggenti, pendule, flosce che si offrono a mani callose, forti, ossute, asciutte, grasse, tatuate, unghiute, mani che hanno, un momento prima, esplorato le narici attardandosi, poi, a prolungate e vibranti oscillazioni o sbrigandosi in un sol breve contatto delle dita. Una ridda di braccia che roteano, si incrociano, un viavai rumoroso di fedeli che attraversano l’intera navata per stabilire il primato di mani agguantate.
Una vergognosa e dissacrante messinscena con cui il santissimo, trinitario segno della Croce viene cancellato a favore di un gesto massonico, di marca luciferina abilmente occultato dal suo ideatore, mons. Bugnini, sotto l’apparente patina della cordialità e dell’amicizia.
E vi pare un’ottima scelta?
BUONA GIORNATA/DOMENICA A TUTTI
A fine Messa, il celebrante impartisce ai fedeli presenti la benedizione con la seguente formula: “Vi benedica Dio onnipotente: Padre, Figlio e Spirito Santo. La Messa è finita, andate in pace”, a cui l’assemblea risponde: “Rendiamo grazie a Dio”. Dovrebbe, quindi, a questo punto, aver compimento il santo rito. Ma non è così, perché da qualche anno sta andando di moda assai un’appendice che, a dirla schietta, sotto la velatura salottiera e cortese di bonario e fraterno galateo, smentisce e depotenzia la citata benedizione trinitaria mettendone in forte dubbio, sottilmente e tuttavìa realmente, l’infinita e sicura efficacia.
Il sacerdote, infatti, alla risposta dei fedeli appone, confidenzialmente sorridendo, un laico beneaugurante “buona giornata/domenica a tutti” quale rinforzino di cui l’onnipotente Santissima Trinità - non si sa mai – potrebbe aver bisogno. Un puntello umano in soccorso alla. . . debolezza del divino.
Luogo comune, inopportuno per la sacralità del luogo senz’altro, ma, per il significato sotteso, sconveniente e sacrilego, addirittura, che trova sponda in quel mondano, estraneo e orrendo “buona sera” con cui il neoeletto Papa, Francesco I Bergoglio – 13 marzo 2013, h. 19,20 ca. – salutò l’ecumene cattolica radunata in Piazza San Pietro, omettendo, volutamente, di porgere l’unico, solo ed esclusivo “Sia lodato Gesù Cristo” noto essendo che il Papa della Chiesa Cattolica è Vicario del suo Padrone, Successore di San Pietro e Vescovo di Roma, e non, invece, il presidente di una delle tante associazioni cultural-sportive o come il condomino contiguo di pianerottolo. Un astuto espediente di “captatio benevolentiae” che dice quanto Papa Bergoglio tenga più ai buoni rapporti con l’uomo che non a quelli con Dio.
Eccessiva critica? No, verità conclamata come dimostrano due, fra le molte, circostanze: 1) Bergoglio non si inginocchia mai davanti al Santissimo Sacramento Eucaristico, 2) mentre striscia a terra (11 aprile 2019) per baciare i piedi a tre politici sudanesi musulmani ai quali chiede di farsi promotori di pace. Vergogna e teatralità!
Dello stesso registro casareccio, è quel banale e fuori luogo “buon pranzo” che amministra, o ammannisce, a fine di ogni udienza pubblica, congedando i fedeli che, raccolti in Piazza San Pietro per ascoltare la Parola di Dio, sono scambiati per turisti in bivacco a Piazza di Spagna o a Villa Borghese, o per escursionisti sui Pratoni del Vivaro. Come dire: Cristo non abita in Vaticano. Ne è stato sfrattato.
di L. P.
Presentazione
Il 3 aprile del 1969, Papa Paolo VI, con la Costituzione Apostolica Missale Romanum, riformava il Rito Tridentino della Santa Messa rimovendo il latino con l’imporre le lingue nazionali, cancellando rubriche e inserendo novità rituali. L’intera operazione, diretta da Mons. Annibale Bugnini – in lezzo di massoneria (23/4/1963, matricola di loggia 1365/75, BUAN – cfr. OP 12 sett. 1978) e con la illegittima ed inquinante partecipazione di sei ‘esperti’ protestanti – ha deformato l’identità della Messa riducendola a ‘sinassi’ del popolo di Dio, cioè come assemblea del popolo, smentendone il vero e unico significato di sacrificio, e facendo dell’assemblea stessa il referente privilegiato al punto che molti sacerdoti rinunciano alla celebrazione del sacro rito quando si verifica l’assenza di pubblico.
Prima di passare in rassegna le voci in tema, è necessario definire il concetto e la dinamica del termine ‘liturgìa’ onde evitare fraintendimenti ed inesattezze.
‘Leiturghìa’: dal greco ‘leiton’ – luogo di affari pubblici – (derivato a sua volta da ‘laos’ – popolo) – e ‘ergon’ – opera - che nell’edizione biblica dei LXX assume il significato di ‘servizio al tempio’. È il complesso tradizionale delle norme che scandiscono i tempi, le formule, i gesti, i simboli, i paramenti di un rito religioso officiato da un celebrante legittimato a rivestire dignità di sacerdote, intermediario tra Dio e l’uomo e stabilisce, in termini inequivocabili, ciò che spetta di competenza all’officiante e ciò che pertiene alla comunità dei fedeli che vi assiste.
Il documento che analizza in profondità ed altezza una parte della riforma liturgica conciliare è, senz’altro il “Breve esame critico del Novus Ordo Missae” presentato al Pontefice Paolo VI dai Cardinali Ottaviani e Bacci il giorno della festività di Corpus Domini 1969. Stimando tale documento di stretta competenza specialistica, noi ne abbiamo illustrati, per quella platea di lettori di ordinaria cultura, alcuni di maggior immediata comprensione. Vediamo, allora, quanti e quali luoghi comuni e quali errori essi arrecano nella vigente liturgìa cattolica riferita al rito della Santa Messa riformata, così come in appresso - qui presentatati in tre parti :
Parte prima:
- Confesso a Dio Onnipotente.
- Gloria.
Parte seconda- Gloria.
- Consacrazione.
- Padre nostro.
Parte terza- Padre nostro.
- Datevi un segno di pace.
- Buona domenica a tutti.
- Buona domenica a tutti.
http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV3648_L-P_Abusi_liturgici_e_deragliamenti_teologici_Terza.html
LEGGE BAVAGLIO
Don Lillo, il prete refrattario che non si piega al potere
Se qualcuno canta fuori dal coro e diventa prete refrattario, non gli si risparmia la gogna e il linciaggio mediatici. Questo è il caso di don Lillo che, da prete refrattario, non giura su nessuna Costituzione civile del clero, come sarà – se approvata – la legge Zan-Scalfarotto, ma mostra il dovere morale di opporsi al potere quando questo emana leggi ingiuste.
Il sacerdote palermitano don Lillo D’Ugo, che ha tenuto un’omelia diventata un caso nazionale, può essere paragonato a un prete refrattario. Nel 1791, l’Assemblea nazionale costituente – un organo, come si disse da allora in avanti e come si direbbe anche oggi, “democratico” – stabilì che i sacerdoti diventassero funzionari pubblici stipendiati dallo Stato e che sottoscrivessero per accettazione la Costituzione civile del clero. Coloro che firmarono furono detti costituzionali e quelli che non firmarono vennero chiamati refrattari. Chi firmava si impegnava ad esercitare il proprio ministero secondo le leggi dello Stato e se questo vietava di suonare le campane e di fare le processioni i preti costituzionali non suonavano campane e non facevano processioni. Come racconta il Gaxotte, un giorno una quarantina di preti refrattari furono fatti salire su un barcone sulla Senna, furono incatenati e poi al barcone furono fatti dei buchi. I preti morirono tutti annegati dopo essersi assolti i peccati l’un l’altro.
I sacerdoti italiani ricevono lo stipendio tramite l’otto per mille, ossia dallo Stato. Non hanno firmato una Costituzione civile del clero ma molti di essi si attengono scrupolosamente alle leggi emanate dal potere e nessuno dice dall’ambone cose che potrebbero dare disturbo al potere politico. Si può dire, quindi, che siano di fatto preti costituzionali. Se qualcuno canta fuori dal coro e diventa prete refrattario, non lo si mette su un barcone incatenato e pronto per annegare, ma non gli si risparmia la gogna e il linciaggio mediatici. Questo è il caso di don Lillo che, da prete refrattario, non giura su nessuna Costituzione civile del clero, come sarà – se approvata – la legge Zan-Scalfarotto, ma come avviene già nella prassi e con l’ausilio della legislazione attuale.
Nel caso degli attacchi violenti che egli sta subendo, non è sufficiente parlare di limitazione della libertà di espressione. Fa un certo ribrezzo vedere il silenzio di tanti paladini di questo moderno diritto individuale. Ma c‘è molto di più. Prima di tutto c’è in ballo il dovere morale di opporsi al potere quando questo emana leggi ingiuste.
Ogni persona ragionevole e, ancor più, ogni fedele della Chiesa cattolica, deve sapere che il potere in sé è pura forza e in quanto tale è incapace di legittimarsi da solo. Anche se la legge Zan fosse approvata all’unanimità rimarrebbe ingiusta e il potere che l’ha approvata ed emanata non avrebbe nessuna autorità né politica né morale. Il potere è legittimato dal fatto di essere strumento dell’autorità e questa è legittimata dall’agire per il bene comune, un fine che precede la politica e che ne è la misura.
Quando gli uomini di ragione e la Chiesa stessa non hanno più la forza di porre il problema della legittimità del potere, allora la dittatura è già in corso. Don Lillo si è opposto alla “democrazia totalitaria”, come si intitolava un famoso libro di Jacob L. Talmon degli anni Cinquanta del secolo scorso. La democrazia, intesa come prevalenza del numero, non è legittimata, è pura forza di fatto, ossia violenza. La violenza infatti è l’uso illegittimo (non solo illegale) della forza. Quando la democrazia approva una legge ingiusta, come è la legge Zan e come era la legge Cirinnà e tante altre leggi italiane degli ultimi cinque anni, fa un atto di violenza e chi tace collabora a questa violenza.
Secondariamente don Lillo ha difeso la libertà della Chiesa, non solo dei singoli individui, siano laici o ecclesiastici, ma della Chiesa. Tale libertà consiste nel diritto che consegue al dovere di svolgere un ruolo pubblico dichiarando la visione trascendente della vicenda umana. Nella sua omelia don Lillo ha detto che noi uomini vediamo solo le cose apparenti, non vediamo tutto. Ha aggiunto che alla nostra lotta per il bene partecipano anche i Santi e gli angeli buoni, naturalmente fanno la loro parte anche gli angeli cattivi. La Chiesa ha diritto (fondato sul dovere) di comunicare al mondo la sua teologia della storia, ossia che i giochi non si fanno solo quaggiù, ma anche in Cielo.
Credo che questa sia stata la parte più indigeribile dell’omelia di don Lillo agli occhi dei poteri mondani di oggi. Senza il fondamento trascendente, la dimensione naturale dell’uomo si trasforma in spontaneismo: come diceva Rousseau: «Ciò che sento essere bene è bene…, ciò che sento essere male è male». Questo spontaneismo per cui il bene per me lo decido io e le leggi devono permettermi di deciderlo io, è nemico del diritto e della politica. Anzi, così viene meno la stessa possibilità della comunità politica, rimangono solo gli individui e lo Stato, il quale è solo lo strumento per garantire il bene pubblico, inteso come la soddisfazione di quanto i cittadini vogliono. Non c’è criterio per i loro desideri, non c’è criterio per la trasformazione di questi desideri in diritti da parte dello Stato.
Contro una simile prospettiva tutta la Chiesa italiana si sarebbe dovuta alzare in piedi. Lo ha fatto un sacerdote palermitano. La Chiesa lo abbandonerà a se stesso o lo difenderà? Noi, intanto, lo difendiamo.
Stefano Fontana
https://lanuovabq.it/it/don-lillo-il-prete-refrattario-che-non-si-piega-al-potere
LEGGE BAVAGLIO
Don Lillo, il prete refrattario che non si piega al potere
Se qualcuno canta fuori dal coro e diventa prete refrattario, non gli si risparmia la gogna e il linciaggio mediatici. Questo è il caso di don Lillo che, da prete refrattario, non giura su nessuna Costituzione civile del clero, come sarà – se approvata – la legge Zan-Scalfarotto, ma mostra il dovere morale di opporsi al potere quando questo emana leggi ingiuste.
Il sacerdote palermitano don Lillo D’Ugo, che ha tenuto un’omelia diventata un caso nazionale, può essere paragonato a un prete refrattario. Nel 1791, l’Assemblea nazionale costituente – un organo, come si disse da allora in avanti e come si direbbe anche oggi, “democratico” – stabilì che i sacerdoti diventassero funzionari pubblici stipendiati dallo Stato e che sottoscrivessero per accettazione la Costituzione civile del clero. Coloro che firmarono furono detti costituzionali e quelli che non firmarono vennero chiamati refrattari. Chi firmava si impegnava ad esercitare il proprio ministero secondo le leggi dello Stato e se questo vietava di suonare le campane e di fare le processioni i preti costituzionali non suonavano campane e non facevano processioni. Come racconta il Gaxotte, un giorno una quarantina di preti refrattari furono fatti salire su un barcone sulla Senna, furono incatenati e poi al barcone furono fatti dei buchi. I preti morirono tutti annegati dopo essersi assolti i peccati l’un l’altro.
I sacerdoti italiani ricevono lo stipendio tramite l’otto per mille, ossia dallo Stato. Non hanno firmato una Costituzione civile del clero ma molti di essi si attengono scrupolosamente alle leggi emanate dal potere e nessuno dice dall’ambone cose che potrebbero dare disturbo al potere politico. Si può dire, quindi, che siano di fatto preti costituzionali. Se qualcuno canta fuori dal coro e diventa prete refrattario, non lo si mette su un barcone incatenato e pronto per annegare, ma non gli si risparmia la gogna e il linciaggio mediatici. Questo è il caso di don Lillo che, da prete refrattario, non giura su nessuna Costituzione civile del clero, come sarà – se approvata – la legge Zan-Scalfarotto, ma come avviene già nella prassi e con l’ausilio della legislazione attuale.
Nel caso degli attacchi violenti che egli sta subendo, non è sufficiente parlare di limitazione della libertà di espressione. Fa un certo ribrezzo vedere il silenzio di tanti paladini di questo moderno diritto individuale. Ma c‘è molto di più. Prima di tutto c’è in ballo il dovere morale di opporsi al potere quando questo emana leggi ingiuste.
Ogni persona ragionevole e, ancor più, ogni fedele della Chiesa cattolica, deve sapere che il potere in sé è pura forza e in quanto tale è incapace di legittimarsi da solo. Anche se la legge Zan fosse approvata all’unanimità rimarrebbe ingiusta e il potere che l’ha approvata ed emanata non avrebbe nessuna autorità né politica né morale. Il potere è legittimato dal fatto di essere strumento dell’autorità e questa è legittimata dall’agire per il bene comune, un fine che precede la politica e che ne è la misura.
Quando gli uomini di ragione e la Chiesa stessa non hanno più la forza di porre il problema della legittimità del potere, allora la dittatura è già in corso. Don Lillo si è opposto alla “democrazia totalitaria”, come si intitolava un famoso libro di Jacob L. Talmon degli anni Cinquanta del secolo scorso. La democrazia, intesa come prevalenza del numero, non è legittimata, è pura forza di fatto, ossia violenza. La violenza infatti è l’uso illegittimo (non solo illegale) della forza. Quando la democrazia approva una legge ingiusta, come è la legge Zan e come era la legge Cirinnà e tante altre leggi italiane degli ultimi cinque anni, fa un atto di violenza e chi tace collabora a questa violenza.
Secondariamente don Lillo ha difeso la libertà della Chiesa, non solo dei singoli individui, siano laici o ecclesiastici, ma della Chiesa. Tale libertà consiste nel diritto che consegue al dovere di svolgere un ruolo pubblico dichiarando la visione trascendente della vicenda umana. Nella sua omelia don Lillo ha detto che noi uomini vediamo solo le cose apparenti, non vediamo tutto. Ha aggiunto che alla nostra lotta per il bene partecipano anche i Santi e gli angeli buoni, naturalmente fanno la loro parte anche gli angeli cattivi. La Chiesa ha diritto (fondato sul dovere) di comunicare al mondo la sua teologia della storia, ossia che i giochi non si fanno solo quaggiù, ma anche in Cielo.
Credo che questa sia stata la parte più indigeribile dell’omelia di don Lillo agli occhi dei poteri mondani di oggi. Senza il fondamento trascendente, la dimensione naturale dell’uomo si trasforma in spontaneismo: come diceva Rousseau: «Ciò che sento essere bene è bene…, ciò che sento essere male è male». Questo spontaneismo per cui il bene per me lo decido io e le leggi devono permettermi di deciderlo io, è nemico del diritto e della politica. Anzi, così viene meno la stessa possibilità della comunità politica, rimangono solo gli individui e lo Stato, il quale è solo lo strumento per garantire il bene pubblico, inteso come la soddisfazione di quanto i cittadini vogliono. Non c’è criterio per i loro desideri, non c’è criterio per la trasformazione di questi desideri in diritti da parte dello Stato.
Contro una simile prospettiva tutta la Chiesa italiana si sarebbe dovuta alzare in piedi. Lo ha fatto un sacerdote palermitano. La Chiesa lo abbandonerà a se stesso o lo difenderà? Noi, intanto, lo difendiamo.
Stefano Fontana
https://lanuovabq.it/it/don-lillo-il-prete-refrattario-che-non-si-piega-al-potere
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