ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 4 luglio 2020

Miserabili astuzie che stravolgono la realtà

La santa spallata di Viganò al Vaticano II



Riceviamo e pubblichiamo le riflessioni del prof. Enrico Maria Radaelli riguardo le coraggiose prese di posizione di mons. Carlo Maria Viganò sul Concilio Vaticano II, testo che troverete a fondo articolo.

Lettere da Babilonia

Dico io:
È da sessant’anni che si continua a truffare la gente a furia di “progressisti” e “conservatori”, ora anche con questa bagarre per la santissima presa di posizione dell’Arcivescovo Carlo Maria Viganò, ma è ora di finirla con l’uso sleale e doloso di queste categorie tutte e solo politiche applicate alla Chiesa, società tutta e solo squisitamente religiosa!
È proprio ora di finirla, perché è solo un modo peccaminoso per nascondere il fatto che quel che si vuol far credere oro è letame e quel che si vuol far credere letame è oro. Una vera corbelleria.
Ma quando mai nel Terzo secolo si parlava di “progressisti” invece che di eretici ariani e di “conservatori” invece che di fedeli al Dogma?
E quando mai nel Sedicesimo secolo si parlava di “progressisti” invece che di eretici luteran-calvinisti e di “conservatori” invece che di fedeli alle leggi di Dio insegnate da santa Romana Chiesa?
Per dire.
  1. S. Ah, dimenticavo:
La Maxi-Spallata di Monsignor Viganò
al Maxi-Trappolone di Roncalli-Ratzinger.
Basta quindi una buona volta con queste miserabili astuzie che stravolgono la realtà facendo passare per buoni gli eretici e per perfidi trogloditi i fermi e santi fedeli a Dio: i cosiddetti “progressisti” non sono altri che coloro che riassumono nella loro perversa dottrina il coacervo delle peggiori eresie confluite nel Modernismo; i cosiddetti “conservatori” sono invece solo i cristiani fedeli al Dogma e alla vera e santa liturgia pre-Montiniana a costo di inimicarsi il mondo, Papi compresi.
Anche nell’odierna vicenda in cui l’Arcivescovo Carlo Maria Viganò prende una forte e severa posizione riguardo al Concilio Vaticano II, in realtà l’unica posizione da prendere, egli non è il “conservatore”, ma è il cristiano fedele al Dogma, e i Papi che indissero, condussero e difesero e tutt’ora difendono quell’Assise perversa non sono i buoni e bravi “progressisti”, ma sono Papi del tutto infedeli al Dogma, nel loro caso precisamente Papi modernisti e neo-modernisti.
Sta il fatto che le categorie fasulle vanno rimpiazzate con le categorie vere, basta coi sotterfugi: agli eretici l’eresia, ai fedeli la fedeltà.
Le uniche categorie accettabili in una disputa dottrinale nella Chiesa cattolica di Roma sono quelle di “eretico” per chi non aderisce al Dogma e al Magistero pastorale che ad esso è strettamente connesso così come insegnato dal Magistero dogmatico, e di “cattolico” per chi vi aderisce.
Altre categorie non ve ne sono. E quelle usate sono solo bugiarderie.
Non solo: si smetta anche di parlare di “ermeneutica”, altro trabocchetto, quasi si penda tutti dalle labbra della Scuola di Francoforte come bravi scolaretti di Papa Ratzinger, che dell’ermeneutica e dello storicismo ha fatto le sue Polari, e si riprenda in mano la metafisica, la sola scienza cattolica, la sola metodologia concreta, la sola filosofia razionale, così finalmente tornando a toccare con mano, dopo quasi sessant’anni di buia notte ermeneutica e storicista la vera realtà della Chiesa, prima che sia invece l’odierna terribile realtà della Chiesa a farci sbattere la faccia contro di essa, ma allora sarà ormai troppo tardi.
Nessuno dei venti Concili ecumenici della Chiesa ha mai avuto bisogno che i documenti, i comandi e gli anatemi prodotti dovessero affrontare il setaccio di un’interpretazione: nessuno, perché il Dogma non lo consente, troppo chiaro per essere “interpretato”, checché ne dica il Cardinale Brandmüller.
E la si smetta poi una buona volta di parlare della tanto più farraginosa, implessa e contorta ermeneutica indicata da Papa Ratzinger nel più sciagurato che celebre suo Discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005: « un’ermeneutica della riforma – chiosava in quelle sue considerazioni –, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa ».
Qualcuno regali e inviti a leggere al più presto al sempre più in pericolo augustissimo Autore di tanto contorcimento concettuale I vestiti nuovi dell’Imperatore, una bella fiaba di Andersen che potrà suggerirgli il motivo per fermarsi dal produrre da decenni, con insistenza degna di miglior causa, uno dopo l’altro, solo morbidi guanciali di piume utili soltanto ad appoggiare sereni il proprio capo tanto bisognoso di pace, i gomiti stanchi, e così dormire quieti sonni tra i frastuoni del mondo, alla faccia degli strafulmini di Ez 13,18, santa Parola di Dio.
La “ermeneutica della riforma nella continuità” è, scandendo i termini uno per uno: primo, solo un’interpretazione (= ermeneutica); secondo, di una discontinuità (= riforma); terzo, nell’ortodossia (= continuità).
Dunque è un’opinione, è un’ipotesi di lavoro, è nulla più che un parere intorno a un qualche concetto che vorrebbe essere in continuità col sano sviluppo del Dogma e contemporaneamente però, riformandolo, vorrebbe essere anche il suo opposto, e tutto ciò, ossia essere quello e il contrario di quello, senza però darlo minimamente a vedere, senza scoprire il conflitto, la contraddizione, la più stridente guerra all’ultima essenza tra le due cose.
Ratzinger Ratzinger, quando la finirai di aggrovigliarti in gomitoli di bianche piume soavi solo per non vedere il sangue della Redenzione che ti scorre intorno, e così magari, alla fine, salvarti?
Si cita sempre quel fin troppo celebre Discorso alla Curia Romana, e anche osannandolo, perché nella sua semplicità – ermeneutica della continuità ermeneutica della rottura NO –, parrebbe risolvere tutti i quanto mai annosi problemi nati e poi mai risolti del Vaticano II, ma non si va mai al fondo di quelle righe in cui il loro augustissimo Autore consente la realizzazione di un fatto gravissimo, tanto grave da tagliare alla radice tutta la potenza del celeberrimo schema che mette tutti nel sacco, continuità sì, rottura no, ermeneuticamente parlando, si capisce, cioè a dire sempre alla Rashomon, quel film di Kurosawa dove quattro ermeneuti interpretano lo stesso episodio arrivando a quattro conclusioni inconciliabili: l’interpretazione è la realtà.
Già, ma quale interpretazione? Perché mai quella del Papa dovrebbe essere più vera della mia, visto che non parla ex cathedra?
E questo è il punto. Ed è qui che gli eserciti si affrontano da ormai sessant’anni. Già: sempre camminando e combattendo su una coltre di foglie che nasconde alle soldataglie di Cardinali, Vescovi, Monsignori e semplici fedeli, “progressisti” o “Conservatori” che siano, la gran trappola che tutti li sprofonda nell’unica buca, acquiescenti essendo tutti al regime ereticale così ben insegnato, e dico “tutti” perché non c’è da parte di nessuno il rigetto pubblico richiesto e dovuto, tranne ora il suddetto Arcivescovo Carlo Maria Viganò.
Ma, dopo che lo stesso Amerio aveva segnalato nel suo Iota unum, e da qui poi ripetutamente il sottoscritto nei propri libri, che gli stessi neoterici non si facevano scrupolo di spiattellare la cosa senza pudore, v. padre Schillebeecks che scrive: « Nous l’exprimons d’une façon diplomatique, mais après le Concile nous tirerons les conclusions implicites » (p. Edward Schillebeecks op, su De Bazuin n. 16, 1965), perché mai, dicevo, tutti insistono ancora a non guardare in faccia la realtà, e a non farla finita con questo conciliare maxi-trappolone dell’ambiguità?
Esso è il truffaldino escamotage che chi scrive denuncia da decenni, raccomandato dal Cardinale Suenens all’accorto e fine grande orecchio del cosiddetto “Papa buono” Giovanni XXIII, che lo mise subito in atto fin dalla formale apertura del Concilio al grado meramente “pastorale”, e non affatto “dogmatico”, come avrebbe invece dovuto essere per la presenza del Papa, l’11 ottobre 1962: e l’escamotage è di non utilizzare mai il grado dogmatico di Magistero, ma sempre e solo il grado “pastorale”, così da non essere costretti a un insegnamento infallibile, che natura sua deve essere perfettamente vero e sicuro e, per la sua divina indefettibilità, non permette nessuna ambiguità – l’ambiguità è un difetto – nemmeno a volerla, e dunque nessuna “interpretazione”.
Il grado dogmatico, il grado massimo di insegnamento, detenuto solo dal Papa, o da un Concilio ma solo se unito al Papa, è il vero e unico Katéchon che può imbrigliare l’Anticristo. Il Katéchon è il Dogma.
Togliete il Dogma e liberate l’Anticristo.
E non c’è bisogno di toglierlo davvero, il Dogma: basta nasconderlo, come consigliò l’astuto Porporato francese al placido Papa bergamasco, e poi far finta che non ci sia, e usare il grado pastorale di Magistero con spericolatezza: come se questo grado pastorale non dipenda in tutto e per tutto e non abbia il preciso obbligo morale di essere sempre il più possibile coerente e il più esattamente conseguente al Dogma, come è stato sempre vissuto e di conseguenza attuato nei secoli dal santo Magistero della Chiesa.
Ecco: per liberare l’Anticristo è sufficiente questo svaporamento di fatto del Dogma, questo “non tenerne conto”, quest’astuta “dimenticanza”, chiamiamola così, che naturalmente è del tutto immorale, peccaminosa, basata su un machiavellismo elaborato sulla Parola di Dio.
Una regoletta semplice semplice. E ferrea: se p. es., il Papa convoca un Concilio cui toglie ogni possibilità di enunciare una locutio ex cathedra, p. es. prescrivendogli la forma di Magistero detta “pastorale”, le definizioni che quel Papa esporrà in quel Concilio “non correranno mai il rischio, chiamiamolo così, di essere infallibilmente vere”, ed è questo che il Card. Suenens e Papa Roncalli volevano centrare e di fatti centrarono: “Non essere costretti mai a dire verità infallibili, ma, al contrario, essere certi di poter dire sempre qualsiasi cosa, magari anche qualche eresia (purché non si veda, ma per questo basta equivocare sul linguaggio, grazie Schillebeecks), tanto: primo, il Papa non potrà mai essere accusato di eresia formale, cioè propriamente di eresia; secondo, non sarà mai intaccato il Dogma dell’infallibilità, il Dogma che ci garantisce proprio questo”.
Per tutti i dettagli sul maxi-trappolone, visionare il mio All’attacco! Cristo vince, Edizioni Aurea Domus, Milano 2019, § 16, pp. 63-7, richiedibile anche a chi qui scrive.
Questo perverso meccanismo è il motore, il perno, la causa materiale ed efficiente, il genius absconditus dell’abnorme e vuota costruzione modernista che è diventata oggi la Chiesa, è il meccanismo senza il quale la Chiesa dunque non sarebbe la rovina preagonica che è, il Modernismo non sarebbe riuscito a scalzare dal Trono più alto la Verità, la Sposa di Cristo sarebbe oggi più splendida, santa e gloriosa che mai.
Eppure, malgrado ciò, di questo perverso congegno, che chi scrive ha riassunto nella formula di “Guerra delle due Forme”, parlandone e illustrandolo in tutte le lingue da più di dieci anni, nessuno ha mai discusso, nessuno lo ha mai neanche minimamente considerato, nessuno si è girato un attimo a guardarlo neanche nello specchietto retrovisore.
Oggi un Arcivescovo ha il coraggio di prendere le carte in mano, carte sopite da quasi sessant’anni di vergognose astuzie elaborate prima di tutto dai Pastori più alti e responsabili della Chiesa.
Oggi l’Arcivescovo Carlo Maria Viganò non ha timore di riconoscere che il Concilio Vaticano II va cancellato sia nella sua totalità che in ciascuna di tutte le mille ambiguità cui i suoi fautori ricorsero per far passare concetti che se esso fosse stato aperto nella dovuta forma dogmatica sarebbero stati non solo con forza rigettati, ma anche esplicitamente e ancor più duramente anatemizzati.
Basta con i maxi-trappoloni alla Roncalli-Ratzinger. E che la Chiesa riprenda la sua strada di unica Polare di divina salvezza stringendosi con forza e decisione assoluta alla ferma schiettezza del Dogma: « Il vostro parlare sia sì sì no no, il resto viene dal maligno » (Mt 5,13).
Enrico Maria Radaelli

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VIGANÒ: AL CONCILIO UN COACERVO DI ERRORI ABILMENTE DISSIMULATI.

21 Giugno 2020
Dominica infra Octavam Ss.mi Cordis Jesu
Carissimo Dottor Lawler,
            ho ricevuto per il tramite del comune amico Edward Pentin la Sua email, nella quale Ella pone alcune domande relative a quanto già da me espresso sul Concilio Vaticano II. Volentieri Le rispondo, auspicando che queste riflessioni possano contribuire a risanare la Chiesa Cattolica dai gravi mali che la affliggono.
Ph. Lawler: Innanzitutto, qual è la Sua opinione sul Vaticano II? Che da allora le cose siano andate rapidamente in discesa è certamente vero; ma se l’intero Concilio è un problema, com’è potuto succedere? Come si concilia questa posizione con ciò in cui crediamo sull’inerranza del Magistero? Com’è stato possibile che tutti i Padri conciliari siano stati tratti in inganno? Anche se solo alcune parti del Concilio (ad esempio Nostra Aetate, Dignitatis Humanae) sono problematiche, dobbiamo porci le stesse domande. Molti di noi affermano da anni che lo “spirito del Vaticano II” è in errore. Vostra Eccellenza sta ora dicendo che questo falso “spirito” liberale riflette esattamente il Concilio in sé?
             Che il Concilio rappresenti un problema, penso non occorra dimostrarlo: il semplice fatto che ci poniamo questa domanda sul Vaticano II e non sul Tridentino o sul Vaticano I, mi pare confermi un dato evidente e riconosciuto da tutti. In realtà, anche coloro che difendono a spada tratta quel Concilio si trovano a farlo prescindendo da tutti gli altri Concili Ecumenici, di cui neppure uno fu definito come concilio pastorale. E si noti: lo chiamano il Concilio per antonomasia, quasi fosse l’unico e il solo di tutta la storia della Chiesa, o quantomeno considerandolo un unicum sia per la formulazione della sua dottrina, sia per l’autorità del suo magistero. Un’assise che, a differenza di quelle che l’hanno preceduta, si definisce appunto pastorale e dichiara di non voler proporre alcuna nuova dottrina, ma che di fatto crea un discrimine tra prima e dopo, tra Concilio dogmatico e Concilio pastorale, tra canoni inequivocabili e vaniloqui, tra anathema sit e ammiccamenti col mondo. 
            In questo senso, credo che il problema dell’infallibilità del Magistero – (l’inerranza da Lei menzionata riguarda propriamente la Sacra Scrittura) – non si ponga nemmeno, perché il Legislatore, ossia il Romano Pontefice attorno al quale è convocato il Concilio, ha solennemente e chiaramente affermato di non voler usare dell’autorità dottrinale che pure, volendo, avrebbe potuto esercitare. Vorrei fare osservare che nulla è più pastorale di quanto è proposto come dogmatico, poiché l’esercizio del munus docendi nella sua forma più alta coincide con l’ordine che il Signore diede a Pietro di pascere le Sue pecore e i Suoi agnelli. Eppure questa opposizione tra dogmatico pastorale è stata fatta propria da chi, nel discorso di apertura del Concilio, ha voluto dare un’accezione severa al dogma e un significato più morbido, più conciliante alla pastorale. Ritroviamo la stessa impostazione anche negli interventi di Bergoglio, laddove egli identifica nella pastoralità una versione soft del rigido insegnamento cattolico in materia di Fede e di Morale, in nome del discernimento. Duole riconoscere che il ricorso ad un lessico equivoco, o a termini cattolici intesi però in senso improprio, è invalso nella Chiesa a partire dal Vaticano II, che del circiterismo – vale a dire l’equivocità, la voluta imprecisione del linguaggio – è il primo e più emblematico esempio. Questo avvenne perché l’Aggiornamento, termine anch’esso equivoco e ideologicamente perseguito dal Concilio come un assoluto, aveva posto come priorità su tutte il dialogo con il mondo.
            Vi è un altro equivoco che deve esser chiarito. Se da un lato Giovanni XXIII e Paolo VI dichiararono di non voler impegnare il Concilio nella definizione di nuove dottrine e vollero che esso si limitasse ad essere solamente pastorale, dall’altro è pur vero che esteriormente – mediaticamente, si direbbe oggi – l’enfasi data ai suoi atti fu enorme. Essa servì a veicolare l’idea di una presunta autorità dottrinale, di una implicita infallibilità magisteriale che pure erano state chiaramente escluse sin dall’inizio. Se questo avvenne, fu per consentire che le sue istanze più o meno eterodosse venissero percepite come autorevoli e quindi accolte dal clero e dai fedeli. Ma basterebbe questo per screditare gli autori di un simile inganno, che ancora oggi insorgono se si tocca Nostra Aetate, mentre tacciono dinanzi a chi nega la divinità di Nostro Signore o la perpetua verginità di Maria Santissima. Ricordiamoci che il Cattolico non adora un Concilio, né il Vaticano II né il Tridentino, ma la Santissima Trinità, unico vero Dio; non venera una dichiarazione conciliare o un’esortazione postsinodale, ma la Verità che questi atti del magistero veicolano.
            Lei mi chiede: Com’è stato possibile che tutti i Padri conciliari siano stati tratti in inganno?” Le rispondo attingendo alla mia esperienza di quegli anni e alle parole dei Confratelli con i quali mi sono confrontato. Nessuno poteva immaginare che in seno al corpo ecclesiale vi fossero forze ostili così potenti e organizzate, da riuscire a respingere gli schemi preparatori perfettamente ortodossi preparati da Cardinali e Prelati di sicura fedeltà alla Chiesa, sostituendoli con un coacervato di errori abilmente dissimulati dietro discorsi prolissi e volutamente equivoci. Nessuno poteva credere che, sotto le volte della Basilica Vaticana, si potessero convocare gli stati generali che avrebbero decretato l’abdicazione della Chiesa Cattolica e l’instaurazione della Rivoluzione (come ho ricordato in un mio precedente scritto, il Card. Suenens definì il Vaticano II il 1789 della Chiesa!). I Padri Conciliari sono stati oggetto di un clamoroso inganno, di una frode abilmente perpetrata con il ricorso ai mezzi più subdoli: si sono trovati in minoranza nei gruppi linguistici, esclusi da riunioni convocate all’ultimo momento, spinti a dare il proprio placetfacendo loro credere che così volesse il Santo Padre. E quel che i novatori non riuscivano ad ottenere nell’Aula Conciliare, lo conseguivano nelle Commissioni e nei Consigli, grazie anche all’attivismo di teologi e periti accreditati ed acclamati da una possente macchina mediatica. Vi è una mole enorme di studi e documenti che testimoniano questa sistematica mens dolosa da un lato, e l’ingenuo ottimismo o la sprovvedutezza dei buoni dall’altro. L’attività del Coetus Internationalis Patrum poté poco o nulla, quando le violazioni del regolamento da parte dei progressisti venivano ratificate al Sacro Tavolo.
            Chi ha sostenuto che lo “spirito del Concilio” rappresentasse una interpretazione eterodossa del Vaticano II ha compiuto un’operazione inutile e dannosa, anche se nel farlo è stato mosso da buona fede. È comprensibile, per un Cardinale o un Vescovo, il voler difendere l’onore della Chiesa e cercare di non screditarla dinanzi ai fedeli e al mondo: così si è pensato che quello che i progressisti attribuivano al Concilio fosse in realtà un travisamento indebito, una forzatura arbitraria. Ma se all’epoca poteva essere arduo pensare che la libertà religiosa condannata da Pio XInella Mortalium Animos potesse esser affermata da Dignitatis humanae, o che il Romano Pontefice potesse veder usurpata la propria autorità da un fantomatico Collegio episcopale, oggi comprendiamo che quello che nel Vaticano II era abilmente dissimulato, oggi è affermato ore rotundo nei documenti papali, proprio in nome dell’applicazione coerente del Concilio.
            D’altra parte, quando si parla comunemente dello spirito di un evento, si intende esattamente ciò che di quell’evento costituisce appunto l’anima, l’essenza. Possiamo quindi affermare che lo spirito del Concilio è il Concilio stesso, che gli errori del postconcilio sono contenuti in nuce negli Atti Conciliari, così come si dice a giusto titolo che il Novus Ordo è la Messa del Concilio, anche se al cospetto dei Padri si celebrava la Messa che i progressisti chiamano significativamente preconciliare. E ancora: se davvero il Vaticano II non rappresentasse un punto di rottura, per quale motivo si parla di Chiesa preconciliare e di chiesa postconciliare, quasi si trattasse di due entità diverse, definite nella loro essenza proprio dal Concilio? E se il Concilio fosse davvero in linea con l’ininterrotto Magistero infallibile della Chiesa, perché è l’unico che pone gravi e serissimi problemi di interpretazione, dimostrando la propria ontologica eterogeneità rispetto agli altri Concili?
Ph. Lawler: Secondo, qual è la soluzione? Mons. Schneider suggerisce che un futuro Pontefice debba ripudiare gli errori; Ella trova questa proposta inadeguata. Ma allora come si possono correggere gli errori, in modo da mantenere l’autorità del magistero di insegnamento?
            La soluzione, a mio parere, risiede anzitutto in un atto di umiltà che tutti noi, ad iniziare dalla Gerarchia e dal Papa, dobbiamo compiere: riconoscere l’infiltrazione del nemico in seno alla Chiesa, l’occupazione sistematica dei posti chiave della Curia Romana, dei Seminari e degli Atenei, la congiura di un gruppo di ribelli – tra i quali, in prima linea, la deviata Compagnia di Gesù – che sono riusciti a dar parvenza di legittimità e di legalità ad un atto eversivo e rivoluzionario. Dobbiamo riconoscere anche l’inadeguatezza della risposta dei buoni, l’ingenuità di molti, la pavidità di altri, l’interesse di quanti grazie a quella congiura hanno tratto qualche vantaggio.
            Dinanzi al triplice rinnegamento di Cristo nel cortile del sommo sacerdote, Pietro “flevit amare”, pianse amaramente. La tradizione ci narra che il Principe degli Apostoli avesse due solchi sulle guance, a causa delle lacrime che versò copiose per tutto il resto dei suoi giorni, pentito di quel suo tradimento. Toccherà ad un suo Successore, al Vicario di Cristo, nella pienezza della sua potestà apostolica, riprendere il filo della Tradizione là dove esso è stato reciso. Questa non sarà una sconfitta, ma un atto di verità, di umiltà e di coraggio. L’autorità e l’infallibilità del Successore del Principe degli Apostoli ne usciranno intatte e riconfermate. Esse, infatti, non furono deliberatamente chiamate in causa nel Vaticano II, mentre lo saranno il giorno in cui un Pontefice dovesse correggere gli errori che quell’Assise permise giocando sull’equivoco di un’autorità ufficialmente negata, ma surrettiziamente lasciata intendere ai fedeli dall’intera Gerarchia, ad iniziare proprio dai Papi del Concilio.
         Voglio ricordare che per alcuni quanto qui sopra esposto può suonare eccessivo, perché metterebbe in discussione l’autorità della Chiesa e dei Romani Pontefici. Eppure, nessuno scrupolo ha impedito di violare la Bolla Quo primum tempore di San Pio V, abolendo da un giorno all’altro l’intera Liturgia Romana, il venerando tesoro millenario di dottrina e spiritualità della Messa tradizionale, l’immenso patrimonio del canto gregoriano e della musica sacra, la bellezza dei riti e delle vesti sacre, sfigurando l’armonia architettonica, anche di insigne basiliche, rimuovendo balaustre, altari monumentali e tabernacoli: tutto si sacrificò sull’altare del coram populo del rinnovamento conciliare, con l’aggravante di averlo fatto solo perché quella Liturgia era mirabilmente cattolica e inconciliabile con lo spirito del Vaticano II.
            La Chiesa è un’istituzione divina, e tutto in essa deve partire da Dio e a Lui tornare. Non è in gioco il prestigio di una classe dirigente, né l’immagine di un’azienda o di un partito: qui si tratta della gloria della Maestà di Dio, del non vanificare la Passione di Nostro Signore sulla Croce, delle sofferenze e dei patimenti della Sua Santissima Madre, del sangue dei Martiri, della testimonianza dei Santi, della salvezza eterna delle anime. Se per orgoglio o per sciagurata ostinazione non sapremo riconoscere l’errore e l’inganno nel quale siamo caduti, avremo da renderne conto a Dio, che è tanto misericordioso con il suo popolo quando si pente, quanto implacabile nella giustizia quando segue Lucifero nel non serviam.
+ Carlo Maria Viganò

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