Porta Pia, il 20 settembre 1870, segna l'inizio dell'anomalia italiana, uno Stato che si impone sulla nazione, ultima delle conquiste militari dei Savoia. L'anomalia centralista e dirigista genera miseria, intellettuale, politica ed economica. Coraggiosa la proposta del libro di Carlo Lottieri, Per una Nuova Costituente, per ridare autonomia (e diritto di secessione) ai territori
Nuova Costituente, il simbolo del programma
A porta Pia sono entrati il 20 settembre 1870 i bersaglieri dello Stato liberale italiano. Il fatto è condannato dai sostenitori della tesi delle “due Patrie” (o delle “due Rome”) che vedono nell’evento lo scontro tra due civiltà. La prima è la patria tradizionale dell’amicizia politica coesa dalla pietà religiosa e dalla tradizione che ne deriva, in un tessuto organico di sedimentazioni storiche e di vincoli di lealtà, ricevuti e trasmessi. La seconda è la patria rivoluzionaria sorta dall’eredità della Rivoluzione francese, con una identità artificiale, custodita e giudicata da una minoranza illuminata, sola capace di discriminare tra il patriottico e l’antipatriottico, con la conseguenza che civico si identifica con pubblico e pubblico con statale. Lì una comunità di comunità, qui uno Stato artificiale accentratore.
In questo quadro merita attenzione che a lamentare l’aggressione di Porta Pia e quanto ne è seguito siano però anche dei liberali. Nel suo libro-manifesto Per una nuova costituente. Liberare i territori, rivitalizzare l’economia (Liberilibri), il professor Carlo Lottieri, dell’università di Verona e intellettuale liberale, critica spietatamente tutto il processo risorgimentale italiano e in particolare la presa di Roma e da lì muove per chiedere, appunto, una nuova costituente. La cosa merita una certa attenzione.
Secondo il liberale Lottieri, i territori italiani hanno subito l’occupazione militare piemontese – la “conquista regia” di cui parlava anche Gramsci - a carattere violento e illegittimo. Ciò riguardò il meridione ed anche il Veneto. Nel 1860 il Piemonte ha debellato il Regno delle due Sicilie senza nemmeno una formale dichiarazione di guerra. Nel 1866 i Veneti sono stati aggregati allo Stato italiano con un plebiscito-farsa dopo che avevano combattuto lealmente all’interno dello schieramento austriaco nella guerra autro-prussiana. La breccia di Porta Pia – scrive Lottieri - dice con chiarezza “come la costruzione dell’Italia unita sia stata l’opera di una minoranza che s’è imposta anche a costo di sacrificare le aspirazioni dei più”.
Da queste valutazioni Lottieri prende le mosse per segnalare l’urgenza di una nuova costituente, dato che l’arretratezza cronica del nostro Paese – “quasi tutti i Paesi ex comunisti hanno superato il Mezzogiorno d’Italia in termini di reddito procapite e benessere” – è dovuto proprio a questo centralismo statalista delle prebende e del parassitismo, che impoverisce l’Italia produttiva e che obbliga le realtà territoriali italiane ad abbandonare la propria identità. Il modo – “folle” – con cui il potere ha trattato il coronavirus ha dato il colpo di grazia ad un Paese che negli ultimi dieci anni ha conosciuto un declino senza ritorno, riducendosi ad elemosinare dall’Europa una grama esistenza periferica. La proposta si spinge fino a postulare il diritto alla secessione delle aree dei Paesi che lo decidano con consenso democratico, come la Catalogna anche il Veneto.
Questa proposta liberale di una nuova costituente è di notevole interesse, come pure la coraggiosa condanna senza appello della “rivoluzione italiana” del risorgimento, condanna che ormai neppure la Chiesa colpita a Porta Pia fa più. Presenta anche delle debolezze che vanno comunque segnalate. Prima di tutto perché – anche se Lottieri lo nega - dimentica che lo Stato che ha unificato con la violenza e l’accentramento l’Italia è anche esso uno Stato liberale. Andando al fondamento si vede che il liberalismo produce una libertà originariamente anarchica che contiene già come proprio sbocco la sovranità del potere e la sua strutturale illegittimità. Secondariamente perché Lottieri dice di “ripartire dal consenso” di persone e territori, ma il consenso su cosa si fonda? Se si fonda sul solo fatto della libertà di esprimerlo non è fondato per nulla. In terzo luogo perché anche il costituzionalismo liberale può mancare di legittimità, se fondato su un qualche processo decisionista (anche collettivo o addirittura, per assurdo, universale) e non sull’ordine finalistico della realtà.
In sintesi, l’autodeterminazione delle persone e delle comunità locali, se si fonda solo sulla libertà, rimane privo di fondamento ultimo. Lo stesso accade se si fonda solo su motivi di fatto: comunità locali che hanno una loro identità tradizionale, valorizzazione economica delle loro potenzialità, oppure, al contrario, considerazioni sui costi improduttivi del sistema centralistico e così via. Tutte motivazioni vere, ma non decisive.
Nonostante queste debolezze, la denuncia di “Nuova Costituente” va accolta e accompagnata con attenzione, anche dai sostenitori della tesi delle due Rome. Certe sue critiche contro il centralismo statalista possono essere fatte proprie anche dall’altra prospettiva, pur soprassedendo per il momento sui fondamenti ultimi. Non dico che i fondamenti ultimi non debbano essere recuperati, né che i confronti sulle conseguenze senza i fondamenti corrano il serio pericolo del nominalismo, tuttavia ci può essere uno spazio di confronto nella disponibilità a non sottrarsi ad andare fino in fondo.
Stefano Fontana
https://lanuovabq.it/it/una-nuova-costituente-per-superare-litalia-di-porta-pia
Democrazia & tramonto dell’Occidente
“La democrazia finché dura è più sanguinaria dell’aristocrazia e della monarchia. Ricordate: la democrazia non dura mai a lungo, si corrompe si esaurisce e si suicida. Non c’è mai stata una democrazia che non si sia suicidata”.
(John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti d’America)
Che le democrazie occidentali stiano attraversando uno stato di profonda crisi sociale e politica non ci vuole un luminare per capirlo. La nostra società sta crollando a pezzi in un moto esponenzialmente più rapido di giorno in giorno e quasi certamente il punto di non ritorno è stato superato verso i primi anni ’90 del secolo scorso, l’indomani dell’avvento del mondo monopolare.
La causa di questo disastro umanitario ha però una natura filosofica profonda che affonda la propria incubazione nella crisi della Scolastica, ma oggi si mostra, in linea con la generale percezione confusionaria della realtà, attraverso una fenomenologia molteplice a comporre un’idra orrenda e micidiale.
I fenomeni più agilmente osservabili dal comune cittadino sono:
- una cattiva politica determinata da un vizio di fondo del sistema democratico rappresentativo (che vedremo), dall’impreparazione generale dei cittadini al voto, ma soprattutto degli stessi politici contemporanei, molti dei quali mostrano ormai non solo di non capire di politica, ma di non avere le basi per affrontare un discorso logico: si affidano a pianti isterici e a sentimentalismi vari intendendo manipolare in questo modo la coscienza delle masse, in taluni casi stentando persino ad esprimersi in italiano corretto;
- il fenomeno dell’abbandono generalizzato della religione in senso lato, dato dalla fine del sensus fidei dei popoli occidentali, i quali si dedicano all’assolutizzazione delle proprie vite e delle proprie voglie etsi Deus non daretur, con risultati sovente di squallore sociale;
- non da ultimo, il particolare fenomeno parafilosofico della scientolatria: uno scientismo filosofico, già embrionale nel secolo dei cosiddetti Lumi, ma sviluppatosi in modo abnorme, tanto da tendere essenzialmente a fagocitare la vera scienza e soprattutto il vero scienziato, viene diffuso nelle nostre famiglie dal una scuola corrotta, che disconosce la metafisica e i processi logici che la sostengono. La voracità del fenomeno è tale per cui un qualsiasi scienziato (non tutti per la verità) titolato in qualche disciplina specialistica si sente in diritto di esprimere teorie presumibilmente olistiche sulla vita, sulla società, sul diritto e sull’intero filosofare. Tanto che il programma tanto proclamato delle “3 i”, inglese, impresa, informatica, ha infine partorito i banchi a rotelle.
Ci limiteremo qui, tuttavia, a proporre alcune considerazioni politiche sul sistema democratico diffusosi a seguito della fine delle monarchie e dei fascismi in tutta quell’area culturale ancora definita Occidente, anche post mortem dato il suicidio culturale di quest’ultimo.
Gli antichi avevano individuato sei forme di governo dello Stato, tre forme valide e tre corrotte: monarchia/tirannide, aristocrazia/oligarchia, democrazia/oclocrazia o demagogia. De facto, ogni forma di governo può funzionare, se gli interpreti sono degni, nonostante il nostro pregiudizio democratico sia caratterizzato dalla logica hegeliana secondo la quale quando la realtà non si adegua alle idee, tanto peggio per la realtà. Ora, sarebbe meglio la cosiddetta “costituzione mista” che raccogliesse le potenzialità delle tre forme di governo, ma non è oggetto di questo scritto. L’oggetto è indagare se la tragedia culturale odierna abbia una causa politica consustanziale alla democrazia parlamentare.
L’Occidente si è suicidato, ma era inevitabile. Si è suicidato perché ha scelto la forma peggiore di governo. Vediamo se saltare a questa conclusione sia pertinente: non basta, infatti, stabilire che la democrazia parlamentare sia una forma corrotta di governo, bisogna valutare il perché.
La considerazione primaria è che la democrazia rappresentativa, così come attuata dalle società liberali, non sarebbe tecnicamente da considerarsi una democrazia compiuta, o almeno, gli antichi Greci che la concepirono avrebbero da ridire. Democrazia è governo del popolo, non governo “per conto del popolo”, la vera democrazia è quella diretta, in cui ognuno vota dopo aver avuto la possibilità di esprimere il proprio parere non per interposta persona, per argomentazione o al limite per dossologia.
Non inganni il passaggio dallo stato liberale alla liberaldemocrazia tramite l’estensione del voto a suffragio universale. Il fatto che il popolo deleghi alcuni soggetti a fare da portavoce o da rappresentante, per giunta non vincolato a mantenere le promesse elettorali, è un sofisma buono per gli incolti affamati di libertà economica degli inizi del XX Secolo, illusi che l’eguaglianza data dal diritto di voto equivalesse a eguaglianza economica con i padroni di un tempo. Delegare una sparuta percentuale di cittadini a rappresentare il popolo è non solo un fatto pericoloso, ma disfunzionale dal principio democratico, essi tenderanno per prima cosa e prioritariamente a stabilire leggi in favore di se stessi, dei propri interessi e degli interessi dei finanziatori delle proprie campagne elettorali.
Questo sistema politico, a detta dei Greci, si chiama oligarchia, governo di pochi. Se pensiamo agli Stati Uniti possiamo parlare invece di una forma particolare di oligarchia, la timocrazia, governo dei più ricchi. essendo sotto gli occhi di tutti come questi signori rappresentanti del popolo e parlamentari non siano affatto migliori del popolo che professano di rappresentare, non possiamo chiamare il nostro sistema nemmeno aristocratico.
La nostra cosiddetta democrazia, governata in realtà da politici di professione, non scelti dal demos, ma nominati dal partito di riferimento, cui devono rendere ragione è dunque un’oligarchia che Hilaire Belloc ha brillantemente definito “Partitocrazia”, perché in essa una fittizia alternanza politica fra correnti contrapposte altro non fa che perpetuare se stessa e la pinguedine dei propri attori, che per decenni bisticciano su ogni futilità e marginalità politica, concordando diabolicamente su quanto è di più importante, vitale e sostanziale per la vita dei cittadini.
Per questi motivi definiamo la nostra forma di governo “democrazia parlamentare” una forma spuria di democrazia. Ma se dovessimo guardare con disincanto la storia della democrazia parlamentare italiana, con le ruberie, le inettitudini, i ritardi strutturali, la burocrazia che ha prodotto, dovremmo ben definirla invece oclocrazia partitocratica che aspira alla tocquevilliana dittatura della maggioranza. Una dittatura che, con la demagogica riduzione del numero dei parlamentari, e con essa della rappresentatività degli stessi, sarà ancora più facile per semplice calcolo matematico. Una vera e propria antipolitica in cui un popolo ubriaco di pseudodiritti e altre balordaggini sceglie inconsciamente la propria espiazione e il proprio castigo. Si tratterà di vedere nel prossimo futuro secondo quali livelli di contrappasso: dalle rotelle sotto i banchi anziché sotto il cappello, al caos BLM, alla guerra civile.
Senza per questo doverne condividere le conclusioni anarco-capitalistiche, altri interessanti spunti di riflessione si possono trarre dal pensiero del politologo, economista tedesco naturalizzato statunitense Hans-Hermann Hoppe, nella fattispecie dell’opera Democrazia, il dio che ha fallito. L’opera è un tentativo di dimostrare che le monarchie sono superiori alle democrazie partendo da un’evidenza: il mondo post monarchico è più ricco di quello monarchico, ma grazie alla democrazia parlamentare o a dispetto di essa? Chiunque risponderebbe che siamo più ricchi grazie al sistema democratico. Una colossale idiozia: e quello che ci interessa è che Hoppe lo dimostra.
Nella storia del pensiero politico la democrazia è sempre stata considerata il più fetente dei sistemi e adatta a funzionare solamente in luoghi molto piccoli, non certo in nazioni popolose con milioni o miliardi di abitanti. Questa pare una verità incontrovertibile, accettata persino dal propugnatore della democrazia Rousseau. Tuttavia, la democrazia oggi appare a tutti come la migliore e più potente delle invenzioni, nessun uomo sarebbe disposto a rinunciarvi in favore della più naturale monarchia.
A Hoppe basta un semplice esempio a partire da un assioma: “se noi avessimo mantenuto le monarchie tradizionali ora saremmo infinitamente più ricchi di quello che siamo ora. Perché ciò? Da un punto di vista economico la transizione dai governi monarchici tradizionali a governi democratici non è nient’altro che la transizione da qualcuno che considera il paese come sua proprietà a qualcuno che lo considera come qualcosa di cui è custode provvisorio”. Hoppe prende a esempio il debito pubblico, per spiegare il quale ricorriamo alla metafora della casa.
In un caso vi rendono padroni della casa, così che la potete passare alla generazione successiva o la potete vendere in qualunque momento. Nell’altro vi rendono custodi temporanei di una casa, non potete determinare chi sarà il prossimo custode e non avete il diritto di venderla, né trattenere le eventuali entrate che ricevete voi stessi dalla casa. Fa differenza in termini di come trattare la casa o, parlando di re o di politici democratici, di come trattare il Paese? La risposta è che naturalmente la differenza è come il giorno e la notte: il proprietario della casa è di solito interessato a passare alla generazione successiva qualcosa che abbia almeno mantenuto il valore. Se possibile di maggior valore di quanto abbia ereditato, sia per motivi economici che affettivi, di stabilità, radici. Questo è quello che fa la maggioranza dei genitori.
Cosa fanno invece i custodi temporanei? I custodi temporanei non possiedono il capitale, il loro interesse è trarne la maggior rendita senza riguardo a quel che accadrà al suo valore. Anche se alla fine la casa è una rovina, hanno tratto un reddito tremendo da essa, dal loro punto di vista questo è un gran vantaggio. Questo è quanto fanno i politici di professione nelle moderne democrazie parlamentari: saccheggiare il paese più in fretta possibile, perché ciò che non saccheggiano oggi non sono sicuri di poterlo saccheggiare in futuro, data l’imprevedibilità del risultato elettorale. Un re, invece, non ha questo atteggiamento, se non distrugge il proprio paese, il valore di questo paese o reame sarà più alto e i suoi eredi otterranno di vivere in un mondo migliore.
Ecco l’esempio del debito pubblico fuor di metafora. I re erano di solito ritenuti responsabili per il debito pubblico. Persino i loro eredi, non sempre ma in genere, erano considerati essere i responsabili per il debito contratto dal padre. Per questo motivo le monarchie aumentano il debito in tempo di guerra, ma in tempo di pace di solito lo diminuiscono.
Se considerate i governi politici democratici, il debito pubblico totale aumenta sempre, in tempo di guerra e in tempo di pace. Per di più nessuno risulta essere mai personalmente responsabile per questo fenomeno. Ci saranno sempre dei babbei nel futuro costretti a pagare e nel lungo periodo saremo tutti morti. I politici democratici hanno la mente tarata sul breve periodo. Sono come dei bambini che vogliono divertirsi ora, mentre i re sono costretti ad avere una visione lungimirante del governo, altrimenti rischiano letteralmente la testa.
Nonostante lodevoli eccezioni questo problema non è caratteriale, ma strutturale nella forma di governo democratica. Secondo questa logica, se non avessimo mai avuto le democrazie, ma avessimo mantenuto le monarchie, con forte potere del monarca – non assoluto, semplicemente un monarca – il nostro tenore di vita sarebbe stato esponenzialmente più alto di quanto lo è ora. A questa conclusione si può arrivare solo se si usa una teoria in grado di contemplare una visione di insieme della storia, scevra dal pregiudizio rivoluzionario di cui spesso sono accecati gli storici. Occorre tener conto dei fatti economici e della ragione filosofica, non solamente della cronologia dei fatti accaduti, per giunta attraverso la lente dell’egalitarismo giacobino, secondo la quale semplicemente si guardano i dati: bene XIX secolo povero, XX secolo ricco. Ergo: Monarchia povera, Democrazia ricca.
L’insostenibilità del debito pubblico è però solamente una delle cause della morte delle democrazie occidentali, che sotto questo punto di vista stanno più o meno bene. Sono, cioè, più o meno indebitate mortalmente con le banche private di riferimento, ma presto la situazione sarà degenerata al punto da non essere più sostenibile, perché questo è l’indirizzo esplicitamente dato dalle élite della finanza internazionale che hanno già pesantemente compromesso la salute politica degli stati nazionali.
Dunque, oltre al peccato originale della rappresentatività senza obbligo di fedeltà al mandato, oltre all’emorragia di denaro dei cittadini, le democrazie parlamentari hanno altri difetti strutturali. Ne aveva parlato per primo il politico americano della Carolina del Sud John C. Calhoun: il sistema liberaldemocratico avrebbe portato in primis all’avvento di una trimurti perversa, il successo della macchina del partito (per cui i politici eletti rispondono a esso e non al popolo), la brutale occupazione del potere (l’inserimento degli uomini fedeli al partito dominante nei gangli dello stato), la manipolazione plebiscitaria delle masse. E in secondo luogo la mortifera “gabbia d’acciaio” in cui sarebbero stati rinchiusi i popoli generata dall’unione del potere politico con il potere economico. Questa unione è causata dall’inevitabile impossibilità dei politici di sanare uno strutturale debito pubblico, poiché questo risanamento economico dello stato richiederebbe una legislazione impopolare di cui i politici, qualora anche avessero le capacità intellettuali e morali, non hanno nessuna voglia né coraggio di assumersi le responsabilità. Come disse Ezra Pound: “I politicanti sono i camerieri dei banchieri”.
Abbiamo così mostrato la concatenazione fra oligarchia e finanza presente in nuce nel sistema democratico rappresentativo proprio delle liberaldemocrazie. Di qui l’invocazione sibillina da parte di questi politicanti nei confronti dei mirabolanti tecnici dell’economia. Non fosse altro che, nel grande gioco dello scaricabarile sono stati scaricati interi popoli, perché i governi tecnici tanto invocati per risolvere da esperti i guasti economici hanno finito per fare ulteriori guasti politici irreparabili, tramite cessioni irreversibili delle sovranità nazionali.
Non capiscono nulla di come si governa una nazione, e non avrebbero mai potuto, data la formazione specialistica che hanno ricevuto. Siamo così giunti al disastro finanziario odierno, accompagnato dal disordine culturale causato dalle riforme politiche pasticciate dei numerosi governi di esperti succedutisi più o meno legittimamente al potere, il tutto affossato definitivamente dal vuoto morale determinato dall’imposizione dello stato laico, in realtà laicista di stampo antireligioso e quindi anticristico.
Lo sbocco naturale di questa situazione politica può essere solamente la tirannide. Le democrazie parlamentari – il cosiddetto Stato liberale (Freiheitlich) – non sono strutturalmente in grado di garantire le libertà che professano, mentre un regime avrebbe tutti gli strumenti per farlo. Lo stato liberale secolarizzato, cioè, non può garantire i diritti sanciti nella propria costituzione. Questo particolare fenomeno è noto come “Paradosso di Böckenförde”, dal nome dell’ex giudice della Corte Costituzionale tedesca, docente in diritto costituzionale e in filosofia del diritto Wolfgang Böckenförde. Il dilemma recita così: “Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che esso si è assunto per amore della libertà”.
Dato che l’identità di una nazione si è, per natura delle cose, formata nel passato, e dato che l’ateismo è un’anomalia nella storia del pensiero umano, “senza un fondamento religioso, da cui originariamente sorse nella pólis greca e nella romana res publica, lo stato democratico non può garantire il proprio vincolo societario su base puramente secolare”. Il dilemma consiste nel mettere in luce la fragilità dei presupposti su cui si basa la società occidentale: la democrazia liberale può esistere solo se la libertà, garantita fittiziamente dalle costituzioni, si regola dall’interno, vale a dire dalla spontanea e accettata moralità dei singoli e dai valori liberamente condivisi della società. Fatto, questo, reso aleatorio proprio dalla laicità costituiva dello Stato liberale stesso, il quale non possiede i presupposti spirituali e valoriali sui quali raccogliere l’adesione dei cittadini, nonostante si tenti di sacralizzare la Costituzione o si coltivi il mito dei padri fondatori.
Perciò lo Stato laico non è in grado di guidare quelle forze regolative interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, se non rinunciando alla propria liberalità e ricadendo, al termine della parabola, nello stesso totalitarismo da cui aveva tentato di uscire dopo la caduta dei regimi. In termini spiccioli si potrebbe dire che le democrazie si reggono fin tanto che popolate da cittadini educati secondo il rigore dei passati regimi.
“Da una parte esso può esistere come Stato liberale solo se la libertà, che esso garantisce ai suoi cittadini, si regola dall’interno, vale a dire a partire dalla sostanza morale del singolo e dall’omogeneità della società. D’altra parte, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade – su un piano secolarizzato – in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali”.
In conclusione, il paradigma libertà e diritti per tutti ha un fondamento politico fragile, perché la libertà deve essere garantita da quell’autorità che vuol negare – la linea è sottilissima – almeno quanto i diritti devono essere supportati da un humus culturale diffuso quanto omogeneo. Non si può pretendere il diritto di voto senza avere la preparazione culturale sufficiente a esprimerlo, le capacità intellettuali necessarie per discriminare il vero dal falso e le contraddizioni dei discorsi dei politici. Ma soprattutto non si può pretendere di educare i propri cittadini secondo princìpi di laicità contrari alla storia dei popoli che incarnano e al tempo stesso pretendere che i princìpi religiosi, ora contestati, contengano e siano argine agli impulsi violenti del popolino, ne regolino la vita morale, sorreggendo i costumi della nazione. Ben presto ci si troverà di fronte all’amara constatazione che i paradigmi ideologici crollano sotto il peso delle menzogne da essi stessi imbastite, a meno che la forza repressiva dello Stato non intervenga, mettendo a tacere ancora per qualche tempo la verità. Così è stato per i regimi, così sarà per la tirannia della maggioranza, la quale interpreta la libertà come arbitrio del soggettivismo, basando se stessa su un egalitarismo innaturale che distrugge la libertà dell’uomo, e sulla prepotenza dell’opinione dei più fattasi scienza di verità.
Matteo DonadoniSettembre 24, 2020
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