“Fratelli tutti”, anche le “famiglie” dello stesso sesso. Il pontificato di Francesco sotto la lente dell’analista
(s.m.) Le benedicenti parole di papa Francesco delle “famiglie” omosessuali, nel recente film a lui intitolato, e la sua enciclica “Fratelli tutti” sulla fraternità universale, con solo 4 timidi paragrafi su 287 dedicati a “l’identità cristiana”, hanno dato lo spunto al professor Pietro De Marco per una valutazione critica complessiva dell’attuale pontificato.
Della genesi e degli effetti di quelle parole papali nel film, Settimo Cielo ha offerto questa accurata ricostruzione:
> Famiglie omosex. Ciò che il papa ha detto e ciò che gli hanno fatto dire
Mentre per una lettura propriamente teologica di “Fratelli tutti” è istruttiva questa analisi di p. Thomas Weinandy, membro della Commissione teologica internazionale:
> “Fratelli tutti” and the Preaching of the Good News
Ma ecco ciò che scrive De Marco – filosofo e storico di formazione, già docente di sociologia della religione nell’Università di Firenze e nella Facoltà teologica dell’Italia centrale – su quello che egli chiama “il disordine” di questo pontificato e insieme “il consenso deforme, innaturale” che lo avvolge, l’uno e l’altro “tali da gridare al cospetto di Dio”.
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TENEREZZA PER GLI “ULTIMI UOMINI”
di Pietro De Marco
Le tenerezze di una Chiesa che oscura la divina rivelazione servono davvero all’uomo che le riceve?
Dopo che papa Jorge Mario Bergoglio ha invocato la “copertura legale” delle coppie dello stesso sesso, un amico mi mette sotto gli occhi un testo, poi molto citato: "A coloro che [...] vogliono procedere alla legittimazione di specifici diritti per le persone omosessuali conviventi, bisogna ricordare che la tolleranza del male è qualcosa di molto diverso dall'approvazione o dalla legalizzazione del male. In presenza del riconoscimento legale delle unioni omosessuali, oppure dell'equiparazione legale delle medesime al matrimonio con accesso ai diritti che sono propri di quest'ultimo, è doveroso opporsi in forma chiara e incisiva”.
È un passaggio delle “Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra le persone omosessuali” pubblicate dalla Congregazione per la dottrina della fede il 3 giugno 2003, giorno della memoria dei santi ugandesi Carlo Lwanga e compagni, martiri – mi dice il dotto amico – perché avevano resistito alle pretese sodomitiche del loro re. Ma oggi a chi e a che cosa dovremmo opporci se – come scrive un teologo con cui, nell’amicizia, sempre dissento – “col papa il campo non viene più diviso in due parti contrapposte, verità e libertà, dovere e diritto”? Crede davvero l’opinione colta cristiana, antiagostiniana e antipaolina, che l’uomo stia galleggiando in una tiepida piscina curativa, dove non sono più né dramma né rischio per la coscienza e per la decisione?
Verità e libertà, dovere e diritto sarebbero pacificati solo in un uomo alienato da sé, in un formicaio virtuoso quale Dio creatore non ha voluto fosse l’umanità. Non è questo sogno, in nessun modo, il cristianesimo, non quello della Chiesa cattolica o delle Chiese ortodosse. Libertà e verità saranno sempre in conflitto nella nostra finitezza, e a niente serve, di fronte al fatto, la tentata distruzione della metafisica. Anzi, soltanto una Chiesa “katéchon” (2 Tessalonicesi 2, 6-7) potrà impedire che questa caduta dell’umano nella a-patía avvenga.
Questo “katéchon”, nonostante la speranza di p. Antonio Spadaro su “La Civiltà Cattolica” del 4 gennaio 2020, non può essere costituito dalla Chiesa della visione di papa Francesco se – come proclama il gesuita – questa visione fa coincidere la “conversione” spirituale e pastorale con quella “strutturale”. La lotta contro la “fine della storia” ha meno a che fare con strutture economiche e sociali che con i mondi ideologici e morali che penetrano e alienano le esistenze.
In questa luce appare tanto più erroneo, dopo decenni, il lavoro teologico rivolto a dimostrare che la fede e la Chiesa devono, per “rinnovarsi” (una tesi che si autodistrugge, poiché non può esservi novità in senso proprio nella temporalità di una Tradizione) accogliere anch’esse quel non senso, ovvero divenire la debolezza dell’”oltre il credere”, come si esprime qualche autore. Una linea che accelera la fine senza che vi siano rigenerazioni.
Discutendo un po’ vivamente con un’amica postmoderna tutta femminismo, libertà e diritti individuali, tutta “qui e ora”, finitezza del vivere e eutanasia per tutti, mi capitò di sentirle fare l’elogio di Bergoglio, “questo papa che tanto mi piace”. Sappiamo che l’apparire pubblico e l’irrefrenabile discorrere del papa – di cui è buon esempio la recente sconnessa sortita su omosessuali e unioni civili – funzionano come un lenimento sul diffuso nichilismo contemporaneo, come una sorta di giustificazione, non bastando al “vivere per la morte” dell’uomo postcristiano la falsa coscienza di essersi emancipato dalla verità. Ricordo spesso, di fronte alle soggettività sicure e smarrite nell’autosufficienza postmoderna, la previsione dell’“ultimo uomo” riformulata nel dopoguerra da Alexandre Kojève: ci avviamo ad essere – scriveva il filosofo – uomini protetti e sani che così si lasciano vivere, pura animalità felice senza storia e senza anima. Certo, ci sarà difficile proteggere allora la vita se cominceremo a pesare sulla nostra cerchia sociale, ma a quel punto, ci dicono, avremo vissuto abbastanza; cani e gatti, così “umani”, vivranno più di noi. Papa Bergoglio sembra accorgersi di questa deriva del mondo occidentale, diagnosticata di nuovo da Fukuyama oltre trent’anni fa, ma la risolve nella manierata deprecazione dell’individualismo liberale, che riconduce poi all’egoismo degli interessi economici. La realtà è tutt’altra e la mancata diagnosi antropologica colpisce al cuore la strategia pastorale e politica del papa.
I difensori ed apologeti di Francesco, anche i più lucidi, non riescono ad usare altro argomento che il “metodo della dolcezza” e la “lode della fraternità”, come forme nuove della verità cattolica e della funzione petrina. “Il papa riporta l’amore alla dimensione evangelica”, leggo, a proposito delle sue esternazioni sul dramma omosessuale. Chi lo crede non ha mai letto i Vangeli: la “dimensione evangelica” dell’amore – e quale? eros, philia, agape? – implica il mio assenso ora alle nozze tra divorziati, ora alla coppia omosessuale e figure annesse? E domani a cosa altro ancora? All’incesto, al sesso infantile? E se le leggi che depenalizzano, quindi incentivano, questa o quella condotta portano il sigillo, il profilo di Cesare, non vi è forse la somiglianza di ogni uomo con Dio da proclamare? L’uomo-creatura, l’uomo essenziale che la Chiesa dichiara e protegge, è in questa somiglianza. Il “mistero grande” della coppia uomo-donna è in questo ordine primo e ultimo, che è poi quello trinitario (Hans Urs von Balthasar).
Qualcuno sostiene ancora una diagnosi molto diffusa già nel post-concilio, ovvero che cresce “il numero di quanti, per poter dare forma alla propria fede, devono mettersi se non fuori almeno ai margini della Chiesa”; ovvero che la Chiesa non è ancora un posto per credenti veri, al massimo lo è “per affezionati alle pratiche religiose”. Ma la realtà diffusa è tutt’altra: gli “affezionati alle pratiche” sono una minoranza maltrattata dal parroco medio, l’ideologia pastorale e le pratiche parrocchiali sono da anni alla rincorsa di coloro che vogliono “dare forma” personalizzata alla fede. Perciò il papa si occuperebbe giustamente, secondo Giuliano Zanchi teologo e saggista di fama, del “credere di tutti”, perché, indipendentemente dalla forma che la fede assume in ciascuno, “tutti possano credere”.
È una considerazione anche acuta, questa, e forse condivisa dal pontefice, ma smentita da una lunga serie di riduzioni “universalistiche” della fede, anzi delle fedi, ad un minimo comune destinato ad essere la fede di tutti: utopismi sociali cristiani, esperimenti di religiosità liberale alla maniera di Lamennais, congressi mondiali delle religioni in stagione pre-modernistica, il vero e proprio modernismo cattolico, la stessa “religione” dei proletariati rivoluzionari e, dopo una pausa, la ripresa di visioni ecumeniche delle religioni ovvero delle “etiche” alla Hans Küng, hanno tutti preceduto questo disegno – o questa istintiva prassi? – di papa Francesco. Ma dopo oltre due secoli di scenari illusori, nessuna “religione perché tutti possano credere” ha preso corpo, neppure sul polo delle mistiche o su quello opposto delle etiche civiche. Una “vera religione”, infatti, è esigente, fortifica e vincola, vuole amore a Dio, formazione e oblazione, chiede tutta la vita; non è l’emozione per una parola d’ordine condivisa messa a sbandierare al balcone.
Il coro attuale sulla novità di Bergoglio, che si arma di ennesime accuse di inadeguatezza alla Chiesa – ancora una “Chiesa dei no” nonostante la produzione di “sì” del pontificato – finge d’ignorare quanto la tradizione cristiana abbia assimilato le Sacre Scritture per trovare risposte alla continua oscurità della storia umana: che è storia redenta o appunto priva di risposte, come attesta la tragedia antica. La cura delle anime ha sempre ricondotto l’amore al Vangelo, ma restando libera dall’incantamento dell’”amour passion” o “amor concupiscentiae” di cui ogni umano ha esperienza ma che non può essere analogato all’amore a Dio e al prossimo che i Vangeli vedono incarnato in Cristo. Tra l’altro vi è qualcosa di paradossale nel pretendere di legittimare cristianamente l’”amour passion”, i “fatti d’amore” romanticamente assunti come assoluti e abitati da Dio. Si può difenderne la libertà di fronte alla legge, estendendo la categoria di “fratellanza” dell’ultima enciclica anche alla relazione sessuale, come vuole il teologo Andrea Grillo? Amore filadelfico, dunque, o (più probabilmente) metafora oratoria senza corrispondenza nelle cose?
Torniamo al papa. Chiunque sia minimamente consapevole, entro e fuori la cultura cattolica, capisce che lenire l’ultimo uomo, quello della verbosa esibizione della propria sufficienza – cosa mai avvenuta nelle culture umane ovunque aperte all’oltre, al sacro – è l’opposto del messaggio cristiano e del doveri di verità che vi corrispondono sempre. Di fronte alla mezza-cultura della finitezza senza trascendenza, alla predicazione della felice immoralità del sé, di un niente ridicolo quanto ipersensibile, l’invito alla fraternità e alla socialità non può da solo guidare le anime a un recupero di senso e di profondità. Sono esortazioni che non intaccano l’arroganza triste dell’ultimo uomo, non oltre un’emozione. Le grandi idealità dei poveri, della fraternità mondiale, del Dio amore, occuperanno, nell’io contemporaneo desiderante gratificazioni a propria modesta misura, il posto e l’orario che si dedica alle parole: ritagli di dopolavoro.
Valorizzare contemporaneamente la “fede di tutti” per ottenere dalla confusione uno slancio universale verso la fraternità sarà, svanita l’emozione, aver svalutato la fede di ogni forte credente. Una fede religiosa è altra cosa. Pensarla nei termini di un comune denominatore antropocentrico – di fatto umanistico – non ha mai prodotto né produrrà alcuna nuova plausibilità del credere in coloro che non credono. L’Occidente cristiano è stato immerso per lunghi secoli nel percorso (nel nuovo tempo) di Cristo risorto e glorioso, nella storia universale, nel senso pieno e soprannaturale dell’esistere. Mai in un Dio “intimo” e ad un tempo assente, se non in minoranze. Quest’ultimo sembra invece essere il Dio che il papa raccomanda in “Fratelli tutti” (nn. 277- 280): un’utile credenza umana in un inerte legislatore del tutto, come nella cultura deistica. A cosa servirà?
È vero: non possiamo certo consentire con l’”essere per la morte” di uomini polemogeni, sprezzanti dell’uomo comune o “borghese”, o di altra razza, pronti ad eliminare gli scarti dell’umanità o a farne – con lo stesso esito – un altro essere o un popolo nuovo. Ma neppure possiamo autorizzare con la misericordia l’”essere per la morte” di uomini che, accanto a noi, coltivano il non senso per prepararsi la buona morte chimica. Credo che la predicazione di papa Francesco finirà col confermare i mondi postcristiani nel non senso cui essi si condannano. E lenire il non senso non è neppure allestire il troppo famoso “ospedale da campo”, è consentire all’ideologia della fuga in massa dal fronte della vita dotata di senso, dalla verità e pena della lotta che occupa il quotidiano di ognuno.
Non è assolutamente casuale, è anzi strutturale, che nei mondi postcristiani la “fraternità” – apprezzata a parole – cessi di fronte alla maternità non gradita, al malato terminale, all’anziano fuori di testa, domani all’adolescente con handicap grave. Un costume “monstrum” in cui si combina, senza contraddizione, la fraternità dei sentimenti e la complementare azione omicidaria dei comportamenti e delle leggi, cui quelle stesse persone “fraterne” contribuiscono come elettori.
Ora, questa umanità che corre sul piano inclinato della “vita buona” come metro di dignità, ovvero di legittimità a vivere, è solo lenita praticando il “come se Cristo non esistesse” della “Fratelli tutti”. Non vi è salvezza nel “samaritanus bonus” del papa, ma palliativi esistenziali, personali e politici, che non si addicono alla Chiesa: la “sponsa Christi” non deve accompagnare le anime verso la loro morte ma deve affermare la verità di Cristo perché vivano. Un’evidenza che mostra quanto sia erronea la comoda “laicità” della separazione tra verità “religiosa” e prospettiva giuridica e politica, accolta da decenni dal cattolicesimo democratico e liberale. La Chiesa ha da sempre responsabilità e competenza sui dati antropologici ultimi – nascita, maschile e femminile, matrimonio, morte – poiché di essi ha quell’integra visione che è l’antropologia biblica. Non vi è nulla dell’uomo – la realtà creata per eccellenza – che, con l’oblio di questi capisaldi della concezione cristiana, non tenda a pervertirsi.
Ci si metta bene in mente: quando i cattolici, e settori del mondo riformato, combattono contro le innovazioni normative prodotte dalla vittoria dell’io desiderante sui compiti ordinanti ed elevanti del “Nomos”, essi combattono per l’uomo, non “per la religione”. In Italia si è combattuto a suo tempo anche contro l’elevazione a diritto delle “unioni di fatto”, poiché era il nostro dovere. E la diversa posizione di Jorge Mario Bergoglio non può valere più di una opinione. Di certo non servirà all’uomo che la Chiesa falsamente umanizzi la verità di Cristo.
Invece di occuparsi di “unioni civili”, per di più disseminando opinioni incoerenti, papa Francesco dovrebbe occuparsi di elevare la sua voce, in maniera formale e argomentata, contro la rottura in corso di ogni freno etico e legislativo nella liquidazione eutanasica di esseri umani. Questa immonda deriva riguarda il futuro dell’uomo in radice, e non vi è timore di contrasto con le autorità civili, olandesi o no, che tenga. “Hic Rhodus!”, è qui il punto decisivo, non in una mitica battaglia del “popolo” contro la modernità economica e i delicati equilibri internazionali. Il cristianesimo ha sempre accompagnato le anime nella storia alla luce delle virtù teologali, invece di illuderle su un “altro mondo possibile”. L’altro mondo è nella visione di Dio, qui è nella vita soprannaturale. Una “tenerezza” che si affermi senza orizzonte di fini e senza il Dio della rivelazione in Cristo non farà dell’uomo contemporaneo un generatore di umanità fraterna, ma un patetico disertore della storia in cui il Dio creatore lo ha posto. Verso la “fine della storia”.
Chi si lamenta delle molte riserve e critiche nei confronti del papa deve rendersi conto che Sua Santità è attualmente allo scoperto, in una forma inedita e sotto ogni aspetto controproducente per Roma e per la Chiesa, per una somma di responsabilità e debolezze: la continua confusione di privato e di pubblico, la forma improvvisata e confusa degli enunciati nell'eloquio quotidiano come nelle sedi magisteriali, la palese ignoranza dell'insegnamento cattolico di cui dovrebbe essere custode. E tutto ciò, secondo molti, per dare corpo ai suoi progetti e ad una visione dell’ufficio petrino che appare strumentale ad essi. Bisogna pur dirlo, perché la scala a un tempo individuale e mondiale sulla quale Bergoglio intende sperimentare un nuovo volto della Chiesa – come luogo universale per “nuovi credenti”, qualcuno azzarda – rischia già l’alterazione inconsulta della verità della Chiesa e della fede.
Certo il papa non vede che gli intelligenti che lo lodano utilizzano la “storicità” della Chiesa e dei Vangeli come argomento per liquidificare ogni paradigma cattolico – persino quello cauto del promemoria del cardinale Gerhard L. Müller del 23 ottobre, che Andrea Grillo considera “fondamentalista” – e assumersi nei confronti della divina rivelazione quella libertà che nella storia cristiana ha sempre condotto all’errore.
So di non osservare affatto quella “condescendance” nei confronti dei superiori che il misericordioso san Francesco di Sales – anche grande strumento di Dio nella conversione degli ugonotti – raccomandava negli “Entretiens”. Ma il disordine di questo pontificato e il consenso deforme, innaturale, che si leva attorno al pontefice, sono tali da gridare al cospetto di Dio.
Fratelli tutti. Partiamo da Adamo ed Eva
di Giorgio Salzano
Ero indeciso tra esordire con, sarò breve succinto e compendioso; oppure, sarò breve: Adamo ed Eva …
Con il primo esordio, osservo che la nuova enciclica del Papa solleva un interessante problema: perché dovrei starla a sentire? Essa presenta infatti un evidente paradosso (come d’altronde era il caso di quella precedente). L’enciclica è un atto di autorità papale, e il Papa è il successore di San Pietro, che era il vicario di Cristo, per cui per brevità si dice che è il vicario di Cristo, parla cioè a suo nome. Bene. Ma se poi l’enciclica si lancia in analisi socio-politiche del mondo di oggi, in cui non dico che quel nome non compare esplicitamente, ma che l’argomentazione è condotta con stile squisitamente laico, allora essa contrasta l’autorità papale dalla quale promana. O no? Di fronte alle sue argomentazioni da parte di un laico, “credente o non credente”, io mi sentirei pienamente autorizzato a criticarle, come erronee, frutto di incompetenza e di ignoranza. I suoi errori laici dovrebbero essere dunque coperti per me cattolico dal fatto che egli sia il Papa? Mi si potrebbe replicare che sì, perché l’autorità papale è pur sempre in materia di dottrina e di morale. Ma quando il Papa parla laicamente, senza evidenti richiami o echi dottrinali, di morale, su materie delle quali mi sono occupato da studioso in tutto il corso della mia vita adulta, che autorità la sua enciclica dovrebbe rivestire per me? Certo, stare a sentire si sta a sentire chiunque …
Ma che autorità hai tu per dire che non vi sono echi dottrinali nell’enciclica? E allora:
Sarò breve: Adamo ed Eva – la Bibbia racconta, e con essa il catechismo sentito fin da che ero bambino – creati integri nella grazia di Dio, si lasciarono ingannare dal serpente, mangiarono del frutto che gli era stato proibito, e furono cacciati dal Paradiso terrestre. Sì, tutti fratelli. Ma ricordiamo quel che il nostro catechismo ci racconta dei primi fratelli, Caino ed Abele. O ricordiamo più semplicemente le rivalità che spesso ci oppongono ai nostri fratelli. La storia dell’umanità è quella di fratelli-coltelli, coltelli proprio perché fratelli. Di che fratellanza va dunque cianciando Bergoglio nella sua enciclica, quando pare richiamarsi esclusivamente alla comune creazione? Mi sembra anche di ricordare, ma non è più il primo catechismo, che San Paolo dica che, guastata la nostra eredità in Adamo a causa della sua disobbedienza, siamo ricreati in Cristo, nuovo Adamo: in una nuova fratellanza senza più coltelli. Questa non ha purtroppo sempre retto perfino nella storia della Chiesa. Bisognava perciò forse ricordare che siamo sempre bisognosi di ri-creazione.
http://campariedemaistre.blogspot.com/2020/10/fratelli-tutti-partiamo-da-adamo-ed-eva.html
di Gianni Pezzuolo
Tempo addietro, di fronte alle mie perplessità dopo un ennesima uscita poco ortodossa (dal mio punto di vista) di Papa Francesco, un giovane sacerdote mi ha detto “cum Petro e sub Petro” sempre.
Data la mia formazione avvenuta (ormai qualche decennio fa) in ambito di azione cattolica non posso che fare anche mia tale affermazione, un cristiano cattolico romano non può mai mettere in discussione il primato di Pietro né l’unità della Chiesa.
Con Pietro dunque, ma chi è Pietro e in che modo dobbiamo essere cum Petro e sub Petro? E inoltre, sempre?
Credo che sia fuori discussione che con Pietro si debba intendere il legittimo successore di quel Pietro a cui Gesù, dopo aver chiesto più volte se lo amava, ha dato il mandato di pascere i suoi agnelli e le sue pecore (Gv 21,15-17).
Pietro da discepolo è chiamato ad essere pastore, anzi un “buon pastore”, perché deve pascere le pecore di Gesù. Il buon pastore da la vita per le proprie pecore e non si comporta come un mercenario al quale non importa delle pecore.
Gesù sa molto bene che essere un buon pastore non è facile, per questo avvisa Pietro del pericolo che lo attende “Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli».
E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte». Gli rispose: «Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi» (Lc 22,31-34).
Pietro nonostante l’amore per Gesù, più volte ribadito, non è immune dal rinnegarlo. E’ perfettamente consapevole della continua guerra che il diavolo porta alla chiesa di Dio e, una volta imparata la lezione, cerca di avvisarci tutti invitandoci ad essere temperanti e vigili perché il nostro nemico il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare (1Pt 5,8b) e noi dobbiamo resistergli saldi nella fede (1Pt 5,9a).
Pietro ci deve quindi confermare in quella fede a lui annunziata da Gesù perché il rappresentante non rappresenta se stesso ma colui che gli ha conferito il mandato, l’esempio è Gesù stesso che diceva e annunziava non quello che voleva lui ma quello che il Padre gli aveva ordinato (Gv 12,49) e che, come ci ha detto lui stesso, è destinato a durare nel tempo. Cieli e terra passeranno ma le mie parole non passeranno (Mt 24,35).
Ecco qual è il mandato: la fedeltà. Passerà la scena di questo mondo; noi non dobbiamo uniformarci alla mentalità corrente del momento storico che stiamo vivendo (passerà) ma rimanere fedeli a lui (che non passerà).
Il male e il bene convivono come il grano e la zizzania e solo alla fine sarà fatta la distinzione (Mt 13,24-30). La convivenza tra grano e zizzania non è però commistione. La distinzione è netta e non c’è dialogo che tenga. Rimangono due cose distinte l’una buona e l’altra cattiva (Mt 13,36-43).
Questo significa fedeltà al mandato (Gv 8,3-11). Il peccatore, avendo provato dolore per il proprio peccato viene trattato con misericordia ma con un mandato preciso va’ e d’ora in poi non peccare più.
L’episodio della peccatrice ci insegna due cose. La prima il prerequisito per la misericordia costituito dal pentimento per i peccati commessi; la seconda il cambiamento dello stile di vita. Senza questi requisiti direttamente connessi non può esistere la misericordia di Dio (vedi sacramento della riconciliazione) ma solo una sua diabolica caricatura.
Oggi invece sembra di essere in presenza di un distributore automatico della misericordia divina che nulla chiede all’uomo e nulla dice sullo stato di peccato.
Era questo il mandato di Gesù?
Nella “regola pastorale” di S. Gregorio Magno papa (Lib. 2, 4 PL 77, 30-31).
“Il pastore sia accorto nel tacere e tempestivo nel parlare, per non dire ciò ch’è doveroso tacere e non passare sotto silenzio ciò che deve essere svelato. Un discorso imprudente trascina nell’errore, così un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla. Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò ch’è giusto e, al dire di Cristo ch’è la verità, non attendono più alla custodia del gregge con amore di pastori, ma come mercenari. Fuggono all’arrivo del lupo, nascondendosi nel silenzio. Il Signore li rimprovera per mezzo del Profeta, dicendo: «Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare» (Is 56,10), e fa udire ancora il suo lamento: «Voi non siete saliti sulle brecce e non avete costruito alcun baluardo in difesa degli Israeliti, perché potessero resistere al combattimento nel giorno del Signore» (Ez 13,5). Salire sulle brecce significa opporsi ai potenti di questo mondo con libertà di parola per la difesa del gregge. Resistere al combattimento nel giorno del Signore vuol dire far fronte, per amor di giustizia, alla guerra dei malvagi. Cos’è infatti per un pastore la paura di dire la verità, se non un voltar le spalle al nemico con il suo silenzio?
Se invece si batte per la difesa del gregge, costruisce contro i nemici un baluardo per la casa d’Israele… Chiunque accede al sacerdozio si assume l’incarico di araldo, e avanza gridando prima dell’arrivo del giudice, che lo seguirà con aspetto terribile. Ma se il sacerdote non sa compiere il ministero della predicazione, egli, araldo muto qual è, come farà sentire la sua voce? Per questo lo Spirito Santo si posò sui primi pastori sotto forma di lingue, e rese subito capaci di annunziarlo coloro che egli aveva riempito»
I pastori che stanno in silenzio sono come il sale insipido, a null’altro servono che ad essere gettati via e calpestati dagli uomini (Mt 5,13-16).
Ecco allora che, pur essendo cum Petro e sub Petro, come conterraneo di Santa Caterina ritengo che sia altrettanto doveroso ricorrere alla correzione fraterna usando le sue stesse parole quando il pastore non si comporta più come tale:
“Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue Suo; con desiderio di vedervi fondato in vero lume …
Ora è tempo vostro da sguainare questo coltello; odiare il vizio in voi e nei sudditi vostri, e nei ministri della Santa Chiesa.
In voi, dico; perché in questa vita veruno è senza peccato: e la carità si debbe prima muovere da sé, usarla prima in sé coll’affetto delle virtù, e nel prossimo nostro.
Sicché, tagliare il vizio; e se il cuore della creatura non si può mutare, né trarlo de’ difetti suoi, se non quanto Dio nel trae, e la creatura si sforzi coll’auditorio di Dio a trarne il veleno del vizio; almeno, santissimo Padre, siano levati dalla Santità vostra il disordinato vivere e’ scelerati modi e costumi loro …
E perciò, se io parlo quello che pare che sia troppo e suoni presunzione; il dolore e l’amore mi scusi dinnazi a Dio e alla Santità vostra.
Ché, dovunque io mi volgo, non ho dove riposare il capo mio.
Se io mi volgo costì (che dove è Cristo, debbe esser vita aeterna); e io vedo che nel luogo vostro, che sete Cristo in terra, si vede l’inferno di molte iniquità, col veleno dell’amore proprio …
Riluca nel petto vostro la margarita della santa giustizia, senza veruno timore”. (SANTA CATERINA, Lettera a papa Urbano VI) .
E se nonostante tutto il pastore non ascoltasse l’appello delle sue pecorelle allora …: «Figlio d’uomo, profetizza contro i pastori d’Israele; profetizza, e di’ a quei pastori: Così dice il Signore Dio: Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate (Ez. 34, 2-5)
Allora guai ai cattivi pastori (Ger 23, 1), ma noi non perdiamo la speranza perché la salvezza ci arriverà direttamente da Dio «Infatti così dice il Signore, DIO: “Eccomi! io stesso mi prenderò cura delle mie pecore e andrò in cerca di loro. Come un pastore va in cerca del suo gregge il giorno che si trova in mezzo alle sue pecore disperse, così io andrò in cerca delle mie pecore e le ricondurrò da tutti i luoghi dove sono state disperse in un giorno di nuvole e di tenebre; le farò uscire dai popoli, le radunerò dai diversi paesi e le ricondurrò sul loro suolo; le pascerò sui monti d’Israele, lungo i ruscelli e in tutti i luoghi abitati del paese. Io le pascerò in buoni pascoli e i loro ovili saranno sugli alti monti d’Israele; esse riposeranno là in buoni ovili e pascoleranno in grassi pascoli sui monti d’Israele. Io stesso pascerò le mie pecore, io stesso le farò riposare”, dice il Signore, DIO. (Ez. 34, 2a.4a.5-6.11-15)
Con questa fiducia nel cuore preghiamo perché anche questo Pietro, come il primo, si ravveda e, una volta ravveduto, confermi i suoi fratelli.
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