Profondo rosso. Il deludente bilancio di due anni di accordo con la Cina
L’accordo provvisorio e segreto siglato due anni fa con la Cina è scaduto il 22 settembre e la Santa Sede vorrebbe rinnovarlo per almeno altri due anni.
I segnali che arrivano dalla Cina sono discordanti. Ma paradossalmente, l’attacco frontale sferrato contro l’accordo dal segretario di Stato americano Mike Pompeo, prima con un articolo su “First Things” e poi durante la sua visita a Roma il 1 ottobre, potrebbe giocare a favore di un’intesa, dal momento che Pechino – ha notato su “Avvenire” l’esperto di Chiesa cinese Gianni Cardinale – “è disposta a maggiori concessioni con interlocutori criticati piuttosto che benedetti da Washington”.
A giudicare da quanto c’è di libertà di religione in Cina, l’accordo del 22 settembre 2018 non ha prodotto alcun effetto positivo. Anzi, tutto l’opposto, stando ad autorevoli fonti d’informazione specializzate come Asia News, UCA News e Bitter Winter.
Ma l’accordo verteva su una questione molto circoscritta, la nomina dei vescovi cattolici in Cina. E anche riducendo la valutazione a questo solo metro di misura il bilancio appare insoddisfacente.
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Per cominciare, basti tener conto che le diocesi e le prefetture apostoliche in Cina sono 135 e di queste, al momento della firma dell’accordo, quelle rette da un vescovo erano solo 73. Ebbene, oggi quelle con alla testa un vescovo sono 74, appena un’unità in più. Quindi con quasi altrettante diocesi che continuano a restare vacanti, nonostante tra le finalità della Santa Sede, con la sigla dell’accordo, ci fosse proprio quella di colmare questi vuoti.
Hong Kong, come Macao, non rientra in questo conteggio, poiché il suo vescovo può essere insediato dal papa in piena libertà. Eppure anche lì la nomina del nuovo titolare tarda a venire, ormai da quassi due anni. Il cardinale Giuseppe Zen Zekiun, 88 anni, vescovo emerito di Hong Kong, si è recato a Roma a fine settembre per impetrare dal papa la scelta di un pastore non succube di Pechino, ma Francesco ha rifiutato di riceverlo. Così come ha finora rifiutato di dire una sola parola in difesa dello statuto autonomo della città, sempre più in pericolo.
Delle 74 diocesi oggi rette da vescovi l’unica che era vacante (da un anno) nel 2018 e ora non lo è più è quella di Jining, nella Mongolia Interna. In tutte le altre ciò che è cambiato in questi ultimi due anni è solo la proporzione tra i vescovi “ufficiali”, cioè riconosciuti sia da Roma che da Pechino, e i “sotterranei”, riconosciuti solo da Roma ma non dalle autorità cinesi.
Il 22 settembre 2018 le diocesi rette da vescovi ufficiali erano 56 e oggi sono 62. Mentre quelle rette da vescovi sotterranei erano 17 e oggi sono 12.
Ma ciò che più conta è la tipologia di queste variazioni.
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Va premesso che in concomitanza con l’accordo del 22 settembre 2018 Roma ha revocato la scomunica a 7 vescovi insediati unilateralmente dal regime, assegnando loro la diocesi in cui risiedevano e in due casi esonerando o retrocedendo di grado i vescovi sotterranei già lì presenti e attivi.
Evidentemente, la revoca di queste scomuniche era una precondizione imposta da Pechino per la firma dell’accordo. Ma Roma vi si è piegata fino al punto da abbandonare al suo destino il vescovo sotterraneo di una delle diocesi assegnate a un ex scomunicato, quella di Xiapu-Mindong. Retrocesso ad ausiliare e colpevole di disobbedire ai “diktat” del regime inconciliabili con la fede cattolica, tra cui l’adesione a una cosiddetta “Chiesa indipendente”, il sessantenne vescovo Vincenzo Guo Xijin è stato sottoposto a un crescendo di ritorsioni, fino alla cacciata di casa e alla perdita completa della libertà, e tutto questo nel totale silenzio della Santa Sede.
Viceversa, non risulta proprio che Pechino si sia mossa altrettanto alacremente a legittimare i vescovi sotterranei, come presumibilmente desiderato da Roma, né tanto meno a colmare i vuoti delle diocesi vacanti, nonostante la prima scelta dei candidati – stando a quanto si intuisce dell’accordo segreto – spetti proprio alle autorità cinesi.
Nei due anni trascorsi dalla firma dell’accordo sono state appena due, nell’aprile del 2019, le nomine di nuovi vescovi: quelle di Antonio Yao Shun, ordinario della diocesi di Jining, e di Stefano Yu Hongwei, coadiutore della diocesi di Hanzhong. Ma entrambe non sarebbero neppure da conteggiare, perché già concordate tra le due parti ben prima della firma dell’intesa.
Riguardo ai vescovi sotterranei, sono invece cinque quelli che nel biennio hanno avuto il riconoscimento delle autorità di Pechino, sempre accompagnato da forti pressioni per ottenerne l’obbedienza agli imperativi del regime. Nel seguente ordine:
- il 30 gennaio 2019 Pietro Jin Lugang, della diocesi di Nanyang, prima come coadiutore e poi come ordinario;
- il 9 giugno 2020 Pietro Lin Jiashan della diocesi di Fuzhou;
. il 22 giugno 2020 Pietro Li Huiyuan della diocesi di Fengxiang;
- il 9 luglio 2020 Paolo Ma Cunguo della diocesi di Shouzhou;
- il 18 agosto 2020 Francesco Saverio Jin Yangke della diocesi di Ningbo.
Va però notato che la prima di queste cinque legittimazioni governative, quella di Jin Lugang, era già in agenda da più di quattro anni.
Anche le legittimazioni di Li Huiyuan e di Jin Yangke, entrambi aderenti da tempo all’Associazione patriottica, risalgono di fatto ad anni precedenti l’accordo del 2018 ed erano state ritardate solo per dei dissidi interni alla pseudo conferenza episcopale cinese.
Realmente successive all’accordo sono quindi soltanto le due restanti legittimazioni.
Quella di Lin Jiashan, 86 anni, era fortemente desiderata dallo stesso vescovo, nonostante l’opposizione di larga parte del suo clero e dei fedeli, che tuttora la criticano come un’ingiustificata sottomissione al regime.
Quanto al riconoscimento di Ma Cunguo, è stato ufficializzato alla presenza di dirigenti dell’Associazione patriottica e di altri organismi politici di controllo, ma è stato accettato dal vescovo con l’accortezza di non ripetere nel suo giuramento le parole di “adesione alla Chiesa indipendente e autogestita” e di “divieto di educare alla fede i giovani minori di 18 anni” che le autorità avrebbero gradito ascoltare da lui.
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Va aggiunto che Guo Xijin della diocesi di Xiapu-Mindong non è l’unico vescovo in stato d’arresto. Condividono attualmente la sua sorte Agostino Cui Tai, coadiutore della diocesi di Xuanhua, e – dallo scorso 15 agosto – Giulio Jia Zhiguo, della diocesi di Zhengding.
Ma ancor più clamoroso è il caso del vescovo di Shanghai, Taddeo Ma Daqin, agli arresti domiciliari dal giorno della sua ordinazione nel 2012 e destituito per essersi dissociato dall’Associazione patriottica, il principale strumento con cui il regime irreggimenta la Chiesa. Non gli è valso a ottenere clemenza nemmeno l’atto di pubblica sottomissione a cui si è piegato nel 2015, tra gli applausi – anch’essi inutili – de “La Civiltà Cattolica”, che definì quel suo gesto un modello esemplare di “riconciliazione tra la Chiesa in Cina e il governo cinese”.
Per invocare la libertà di questi vescovi la Santa Sede o il papa non hanno mai speso in pubblico una parola, né prima né dopo l’accordo del 2018. Per non dire del mistero che tuttora avvolge la scomparsa di due altri vescovi forse neppure più in vita: Giacomo Su Zhumin della diocesi di Baoding, che oggi avrebbe 88 anni, e Cosma Shi Enxiang della diocesi di Yixian, che di anni ne avrebbe 98. Del primo non si sa più nulla dal 1996, data del suo ultimo arresto, e del secondo dal 2001.
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Ma non è tutto. Sono rimaste immutate, dopo l’accordo del 2018, anche le gerarchie nei due organismi chiave tramite i quali il regime domina la Chiesa cinese. Con i sette vescovi ex scomunicati in posizione preminente.
Uno di questi organismi è il Consiglio dei vescovi, un falso simulacro di conferenza episcopale, da cui sono esclusi i vescovi riconosciuti soltanto da Roma.
Ad esso spetterebbe, secondo l’accordo, proporre al papa i nomi dei futuri vescovi, previa una pilotata “elezione” degli stessi nelle rispettive diocesi, da parte di rappresentanti – organici al regime – del clero, delle religiose e dei laici.
Alla testa di questo Consiglio dei vescovi ci sono tre degli ex scomunicati: Giuseppe Ma Yinglin della diocesi di Kunming come presidente, Giuseppe Guo Jincai della diocesi di Chengde come vicepresidente e segretario generale, e Vincenzo Zhan Silu della diocesi di Xiapu-Mindong come secondo vicepresidente.
Inoltre, sono vicepresidenti di questo organismo altri otto vescovi, tutti naturalmente con il timbro delle autorità cinesi: Giuseppe Li Shan della diocesi di Pechino, Giovanni Fang Xingyao della diocesi di Linyi, Giuseppe Shen Bin della diocesi di Haimen, Pietro Fang Jianping della diocesi di Tangshan, Paolo Pei Junmin della diocesi di Liaoning, Giovanni Battista Yang Xiaoting della diocesi di Yulin, Paolo He Zeqing della diocesi di Wanzhou, Giuseppe Yang Yongqiang della diocesi di Zhoucun.
L’altro organismo è la già citata Associazione patriottica dei cattolici cinesi.
Ne è presidente il vescovo Giovanni Fang Xingyao della diocesi di Linyi, mentre tra i vicepresidenti figurano quattro vescovi ex scomunicati: Giuseppe Ma Yinglin della diocesi di Kunming – lo stesso che presiede il Consiglio dei vescovi –, Paolo Lei Shiyin della diocesi di Leshan, Giuseppe Huang Bingzhang della diocesi di Shantou e Giuseppe Yue Fusheng della diocesi di Harbin-Heilongjiang.
Vicepresidente e segretario generale dell’associazione è il laico Liu Yuandong, mentre altre quattro vicepresidenze sono affidate ai vescovi Giuseppe Shen Bin della diocesi di Haimen e Paolo Meng Qinglu della diocesi di Hohhot, alla religiosa Wu Lin e alla laica Shi Xueqin.
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Detto questo, qual è allora l’organico dei vescovi in Cina, ufficiali e sotterranei, aggiornato alla data di oggi, senza contare gli emeriti e i ritirati?
Eccone qui di seguito l’elenco completo per categorie, con i nomi, l’anno di nascita e la diocesi di appartenenza.
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1. VESCOVI "UFFICIALI" (RICONOSCIUTI SIA DA ROMA CHE DA PECHINO)
Vincenzo Zhan Silu, n. 1961, Xiapu-Mindong
Giuseppe Huang Bingzhang, n. 1967, Shantou
Giuseppe Liu Xinhong, n. 1964, Anhui
Paolo Lei Shiyin, n. 1963, Leshan
Giuseppe Ma Yinglin, n. 1965, Kunming
Giuseppe Guo Jincai, n. 1968, Chengde
Giuseppe Yue Fusheng, n. 1964, Harbin-Heilongjiang
Giuseppe Li Shan, n. 1965, Pechino
Francesco An Shuxin, n. 1949, Baoding
Pietro Feng Xinmao, n. 1963, Jingxian
Giuseppe Liu Liangui, n. 1964, Xianxian-Cangzhou
Giuseppe Sun Jigen, n. 1967, Yongnian-Handan
Pietro Fang Jianping, n. 1962, Yongping-Tangshan
Metodio Qu Ailin, n. 1961, Changsha
Giuseppe Tang Yuange, n. 1963, Chengdu
Giuseppe Chen Gong’ao, n. 1964, Nanchong
Paolo He Zeqing, n. 1968, Wanxian-Wanzhou
Giovanni Lei Jiaipei, n. 1970, Xichang
Pietro Luo Xuegang, n. 1964, Yibin
Giuseppe Cai Bingrui, n. 1966, Xiamen
Giuseppe Gan Junqiu, n. 1964, Guangzhou
Paolo Su Yongda, n. 1958, Beihai-Zhanjiang
Paolo Liang Jiansen, n. 1964, Jiangmen
Giuseppe Liao Hongqing, n. 1965, Meixian-Meizhou
Paolo Xiao Zejiang, n. 1967, Guiyang-Guizhou
Matteo Cao Xiangde, n. 1927, Hangzhou
Paolo Meng Qinglu, n. 1962, Hohhot
Giuseppe Li Jing, n. 1968, Yinchuan-Ningxia
Mattia Du Jiang, n. 1963, Bameng
Giuseppe Zhang Xianwang, n. 1965, Jinan
Giovanni Fang Xingyao, n. 1953, Linyi
Giuseppe Zhao Fengchang, n. 1934, Yanggu-Liaocheng
Giovanni Lu Peisan, n. 1966, Yanzhou
Giuseppe Yang Yongqiang, n. 1970, Zhoucun
Giuseppe Zhang Yinlin, n. 1971, Jixian-Anyang
Giuseppe Han Zhihai, n. 1966, Lanzhou
Nicola Han Jide, n. 1940, Pingliang
Giovanni-Baptiste Li Sugong, n. 1964, Nanchang-Jiangxi
Francesco Savio Lu Xinping, n. 1963, Nanjing
Giuseppe Shen Bin, n. 1970, Haimen
Giuseppe Xu Honggen, n. 1962, Suzhou
Giovanni Wang Renlei, n. 1970, Xuzhou
Giovanni Battista Tan Yanquan, n. 1962, Nanning-Guanxi
Paolo Pei Junmin, n. 1969, Shenyang-Liaoning
Paolo Meng Ningyu, n. 1963, Taiyuan
Pietro Ding Lingbin, n. 1962, Changzhi
Giovanni Huo Cheng, n. 1926, Fenyang
Antonio Dan Mingyan, n. 1967, Xi’an
Pietro Li Huiyuan, n. 1965, Fengxiang
Luigi Yu Runshen, n. 1930, Hanzhong
Giuseppe Han Yingjin, n. 1958, Sanyuan
Giovanni Battista Yang Xiaoting, n. 1964, Yan’an-Yulin
Giuseppe Martino Wu Qinjing, n. 1968, Zhouzhi
Giovanni Battista Ye Ronghua, n. 1931, Ankang
Giovanni Battista Wang Xiaoxun, n. 1966, coadiutore Ankang
Giuseppe Tong Changping, n. 1968, Tongzhou-Weinan
Pietro Wu Junwei, n. 1963, Xinjiang-Yuncheng
Stefano Yu Hongwei, n. 1975, coadiutore Hanzhong
Antonio Yao Shun, n. 1965, Jining
Pietro Jin Lugang, n. 1955, Nanyang
Pietro Lin Jiashan, n. 1934, Fuzhou
Pietro Li Huiyuan, n. 1965, Fengxiang
Paolo Ma Cunguo, n. 1971, Shuoxian-Shouzhou
Francesco Saverio Jin Yangke, n. 1958, Ningbo
2. VESCOVI “SOTTERRANEI” (RICONOSCIUTI DA ROMA MA NON DA PECHINO)
Taddeo Ma Daqin, n. 1968, Shanghai, destituito e agli arresti
Vincenzo Guo Xijin, n. 1958, ausiliare Xiapu-Mindong, otto sorveglianza
Tommaso Zhao Kexun, n. 1924, Xuanhua
Agostino Cui Tai, n. 1950, Xuanhua, coadiutore, agli arresti
Giulio Jia Zhiguo, n. 1935, Zhengding, agli arresti
Giuseppe Hou Guoyang, n. 1922, Chongqing
Giovanni-Baptiste Wang Ruohan, n. 1950, Kangding
Pietro Shao Zhumin, n. 1963, Yongjia-Wenzhou
Giuseppe Gao Hongxiao, n. 1945, Kaifeng
Giovanni Wang Ruowang, n. 1961, Tianshui
Giovanni Pei Weizhao, n. 1966, Yujiang
Andrea Han Jingtao, n. 1921, Siping-Jilin
Giuseppe Wej Jingyi, n. 1958, Qiqihar-Heilongjiang
Giuseppe Zhang Weizhu, n. 1958, Xinxiang
Settimo Cielo
di Sandro Magister 05 ott
L’accordo tra Cina e Vaticano
Il Vaticano e la Repubblica popolare cinese, il 22 settembre del 2018, hanno stipulato un patto. Un “accordo provvisorio” – così è stato chiamato – che è stato accolto con grande soddisfazione dalle alte gerarchie della Santa Sede. Il patto, infatti, ha un tenore storico. La dottrina professata da papa Francesco e dal cardinale e segretario di Stato Pietro Parolin è stata definita a più riprese “multilateralismo diplomatico”.
Quella è la strada che ha concesso di rompere l’impasse in relazione ai rapporti internazionali tra le due realtà geopolitiche. Senza determinate aperture e senza un atteggiamento privo di pregiudiziali ideologiche, insomma, sarebbe stato impossibile raggiungere un risultato di questa portata. Il Vaticano ne è certo, e rivendica la bontà degli effetti con continuità. L’alternativa, per l’ambito delle relazioni internazionali, si chiama bilateralismo diplomatico: il sentiero preferito dall’amministrazione americana, che non a caso è contraria al documento. Ne parleremo dopo.
L’ “accordo provvisorio” ha un durata biennale. Per questo, in questi ultimi tempi, si sta parlando di rinnovo con insistenza: di fatto il tutto è scaduto. Le parti si erano date due anni per verificare la bontà degli effetti scaturiti. Questo è il tempo in cui bisogna decidere il da farsi. In parole povere, Cina e Santa Sede possono optare o no per la continuazione. Tutto lascia pensare che non esistano motivi per interrompere l’intesa. Circolano voci su un rinnovo tacito, che non avrebbe dunque bisogno di troppe formalità. Ma la faccenda presenta non poche complicazioni, e gli esponenti contrari alla stipulazione del patto – quelli che avevano espresso perplessità già in prima battuta – continuano ad eccepire argomentazioni, oltre che a chiedere ascolto da Jorge Mario Bergoglio e dal “ministro degli Esteri” Pietro Parolin. Trattasi del “fronte tradizionale” o “conservatore”, che dir si voglia. Un nutrito gruppo di realtà e persone che dimorano sia dentro sia fuori la Chiesa cattolica. L’attore principale del fronte del “no” – come premesso – è il governo di Donald Trump, con il segretario di Stato Mike Pompeo in testa. Le motivazioni alla base di questa differenza di atteggiamento sono molte: risiedono per lo più nel campo geopolitico, dove gli Usa stanno conducendo una battaglia per il primato mondiale a discapito del “dragone”.La situazione dei cattolici in Cina, dopo la stipulazione del patto, è migliorata o peggiorata? Nella Chiesa cattolica il dibattito ruota tutto attorno a questa domanda. A Pechino il quesito circola meno, ma non perché l’attenzione prevista per l’accordo sia meno importante. Per comprendere il perché del clima creatosi attorno all’accordo provvisorio, che potrebbe anche divenire definitivo in breve tempo, conviene allora chiedersi quali siano le novità apportate da quel testo rispetto alle regole, più che altro inesistenti, che regolavano in passato i rapporti tra le istituzioni che rappresentano la confessione cristiano-cattolica e le autorità governative e civili cinesi.
Cosa prevede l'accordo provvisorio
L’accordo provvisorio non è pubblico. Gli oggetti del patto non sono mai stati resi noti. In questi due anni, gli addetti ai lavori hanno dedotto i contenuti dell’accordo. Come? Verificando quello che papa Francesco metteva in campo volta per volta. Sappiamo che Jorge Mario Bergoglio ha invitato alcuni vescovi cinesi per il Sinodo dei Giovani. Non era mai avvenuto prima. I presuli cinesi non si erano mai palesati a Roma per un appuntamento sinodale. Sappiamo, poi, che papa Francesco ha nominato alcuni vescovi ed istituito nuove diocesi. Possiamo dunque presupporre che l’accordo preveda che il pontefice possa nominare i vescovi in Cina. E questo, rispetto al passato, è già un bel passo avanti. Le indiscrezioni hanno inoltre raccontato di un retroscena: al vescovo di Roma sarebbe stata riconosciuta la piena legittimità di vertice spirituale. Il Papa, quindi, sarebbe stato riconosciuto da Pechino come legittima e riconosciuta, appunto, autorità religiosa. Altrimenti Bergoglio non avrebbe più volte espresso pubblicamente il desiderio di viaggiare verso la Cina, in funzione di una prima e clamorosa visita apostolica da parte di un successore di Pietro in quella zona di mondo. E questa è la base dell’accordo provvisorio, ma cosa ha ottenuto in cambio la Repubblica popolare cinese? Stando a quanto si è appreso mediante considerazioni non ufficiali, sembra proprio che il Papa, per nominare i vescovi, debba passare attraverso il filtro della Conferenza episcopale della Chiesa cinese, che sarebbe – questo è l’argomento principale della critica dei tradizionalisti – controllata dallo Stato. Bergoglio e i suoi successori, in buona sostanza, sono chiamati a proporre dei nomi, che poi la Cina può bocciare o no. E questo particolare apre scenari tutti da disegnare. Se non altro perché le critiche per questo, che può non essere un dettaglio, sono feroci.
Chi si oppone al patto ha motivi diversi per farlo. Questa, almeno, è l’interpretazione data dal “fronte conservatore”, che è genericamente contrario. Esistono due “emisferi” in questo blocco composto da oppositori: quello geopolitico e quello ecclesiastico. Mike Pompeo, che si è da poco recato a Roma per cercare un’interlocuzione sul punto, è sicuro di come il Vaticano, rinnovando il patto, vada incontro ad un pericolo, che sarebbe poi quello di perdere “l’autorità morale”. Gli Stati Uniti sono competitor commerciali della Repubblica popolare cinese. Bisogna inquadrare il contesto ed il momento storico per acquisire delle consapevolezze precise sull’opinione di Pompeo e Trump in merito all’accordo. Comunque sia, papa Francesco ed il segretario di Stato Parolin non sentono ragioni. Anzi, l’ex arcivescovo di Buenos Aires si è addirittura detto indisponibile ad incontrare Pompeo, perché il summit sarebbe avvenuto troppo a ridosso delle elezioni americani e sarebbe potuto essere strumentalizzato. Ma il Vaticano la pensa in un modo e gli Stati Uniti la vedono un altro: è un fatto che rompe gli equilibri occidentali. Sullo sfondo, poi, dimorano le elezioni americane di novembre ed il rapporto tra i cattolici e le preferenze elettorali: Andrea Muratore, in questo articolo, ha anche elencato i pericoli cui Trump si è esposto in questo suo primo mandato, rivendicando una certa autonomia di pensiero in materia spirituale o comunque in ambiti per cui il Vaticano è partito da presupposti diversi. Il secondo “emisfero” è costituito dalla destra ecclesiastica, che com’è noto è sostenuta ed alimentata anche dai cosiddetti “blog tradizionalisti”. Il cardinale Joseph Zen, ex arcivescovo di Hong Kong, è il volto della contrarietà nella Chiesa cattolica. Zen, che è un altro che ha viaggiato verso Roma per incontrare Bergoglio senza che quest’ultimo gli concedesse udienza, pensa, in buona sostanza, che la Chiesa cattolica debba aspettare la fine del comunismo cinese per poi svolgere un ruolo nella ricostruzione. Zen e gli altri conservatori pongono inoltre accenti sul fatto che i cristiani sarebbero vittime di persecuzioni sistematiche. Un fenomeno che si sarebbe aggravato dopo la stipulazione dell’accordo. Zen, ma non solo lui (andrebbe nominato per esempio anche monsignor Carlo Maria Viganò), pensano che la Chiesa sotterranea, ossia quella non riconosciuta dal governo cinese, stiano sostanzialmente patendo delle pene molto gravose per via dell’appiattimento presunto del Vaticano al “dragone”. L’accordo, insomma, avrebbe lasciato strada libera quel un processo di sostituzione automatica del culto cattolico con un altro, quello mediato dalle esigenze ideologiche di Pechino. E questo varrebbe tanto a livello testuale (Bibbie rivisitate in chiave comunista) quanto a livello organizzativo.
Papa Francesco vuole andare in Cina. E questo dato di per sé rappresenta già una notizia. Il blocco dei viaggi imposto dalla pandemia ha impedito alla Santa Sede di ragionare sul serio su quel viaggio, ma è legittimo pensare che la partita venga riaperta in futuro, quando e se le condizioni dello status pandemico globale saranno migliorate. Comunque andrà, l’accordo dovrebbe essere rinnovato. Altrimenti il cardinale e segretario di Stato Pietro Parolin non elogerebbe i passi in avanti fatti sino a questo momento. Il Vaticano non si farà influenzare dall’esito delle elezioni americane, ma è noto come, nel caso dovesse vincere ancora il presidente Donald Trump, la polarizzazione dei due fronti sia destinata ad acuirsi. Un discorso diverso, invece, riguarda la possibile affermazione di Joe Biden, il candidato dei Democratici: in tale circostanza, prescindendo dalle differenze di visione attorno alla bioetica, la Casa Bianca e la Santa Sede potrebbero dialogare attorno alla Cina con una ritrovata sincronia. Gli intrecci sono insomma molti, e non riguardano giocoforza gli ambienti confessionali: è la politica il vero convitato di pietra che è stato chiamato in causa dall’accordo provvisorio.
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