Concilio Vaticano II / Monsignor Schneider: “Diagnosticare la malattia modernista e fornire la medicina per guarirla. Ecco il compito dei veri pastori”
Cari amici di Duc in altum, ecco il mio più recente contributo per la rubrica La trave e la pagliuzza in Radio Roma Libera. Si parla di Concilio Vaticano II.
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Nel bel libro Christus vincit. Il trionfo di Cristo sulle tenebre del nostro tempo, nel quale monsignor Athanasius Schneider risponde alle domande di Diane Montagna su numerosi argomenti riguardanti la fede e la Chiesa, un intero capitolo, l’ottavo, è dedicato a un esame del Concilio Vaticano II, e mi sembra che le considerazioni del vescovo Schneider vadano prese in considerazione.
Monsignor Schneider ricorda di aver incominciato a riflettere sulla crisi della Chiesa quando aveva quindici anni. Fu allora, alla metà degli anni Settanta, che sentì parlare per la prima volta di monsignor Lefebvre e del suo contrasto con Paolo VI. E Schneider è molto spontaneo nel ricordare ciò che provò: “Da un lato vedevo l’arcivescovo Lefebvre presentare la verità e la bellezza della fede cattolica e specialmente della Santa Messa, dall’altro però egli veniva condannato dal papa”. E siccome il giovane Athanasius era profondamente devoto al papa, ecco emergere in lui un’inquietudine, una frattura. E, nello stesso, il desiderio di approfondire la conoscenza del Concilio.
Il punto di partenza era chiaro, ed è quello nel quale si possono riconoscere anche tanti fedeli dei nostri giorni: “Non potevo pensare che un concilio o un papa potessero commettere qualche errore. Implicitamente consideravo infallibile, o almeno priva di errori, ogni parola del Concilio e del papa… Istintivamente respingevo ogni argomento razionale che potesse, sia pure lievemente, risultare cristico verso i testi conciliari”.
Tuttavia, oggi, più di quarant’anni dopo quella frattura che il giovane avvertì confusamente dentro di sé, il vescovo Schneider riconosce: “Mi rendo conto di aver messo in sonno la mia ragione”.
Il processo è comprensibile e comune a molti fedeli. Come poter anche solo immaginare che il papa sia esposto al rischio dell’errore? Come non avviare una sorta di procedimento per l’infallibilizzazione (questa la parola usata dallo stesso Schneider) di un concilio voluto da un papa?
Nell’intervista il vescovo fa capire che nel suo caso la ragione fu progressivamente illuminata e risvegliata soprattutto attraverso la liturgia, e si tratta di un dato significativo. Fu quando entrò nella Congregazione della Santa Croce, dove si celebrava la Messa ad orientem e si riceveva la Comunione in ginocchio e sulla lingua, che il futuro vescovo incominciò a capire che la cieca difesa di ogni cosa detta dal Concilio richiedeva “acrobazie mentali pur di far quadrare il cerchio”. Ma a un certo punto non fu più possibile.
“Anche adesso – spiega il vescovo – la mentalità generale dei buoni e fedeli cattolici di fatto equivale, a mio avviso, a una totale infallibilizzazione di ogni cosa detta dal Concilio Vaticano II o di tutto ciò che dice e fa l’attuale pontefice”. Ma qui siamo di fronte, occorre riconoscerlo, a un “papa-centrismo” che, pur comprensibile e comune ai cattolici di molte generazioni, va messo in discussione. Infatti “la critica è sempre stata presente e permessa nella tradizione della Chiesa, poiché la ricerca della verità e la fedeltà alla divina Rivelazione e alla tradizione implicano l’uso della ragione e della razionalità, evitando errate acrobazie”. Di qui una precisa consapevolezza: “Alcune espressioni evidentemente ambigue ed erronee contenute nei testi conciliari ora mi sembrano artificiali e poco convincenti, specie riflettendo con maggiore equilibrio e onestà intellettuale”.
Schneider afferma che anche lo studio dei Padri della Chiesa lo ha aiutato. Fu proprio approfondendo la loro conoscenza, e tenendo lezioni al riguardo, che si accorse in modo sempre più chiaro che alcune espressioni del Concilio non erano compatibili con la costante tradizione della Chiesa: “Notavo che alcuni insegnamenti – per dire, in materia di libertà religiosa, collegialità, atteggiamento verso le religioni non cristiane e verso il mondo – non si ponevano in continuità organica con la tradizione precedente”.
Dal momento che negli anni recenti, “specie con il pontificato di papa Francesco”, la crisi della Chiesa è aumentata, per Schneider è stato inevitabile approfondire le domande. Inoltre, quattro anni fa, su incarico della Santa Sede, il vescovo ha visitato la Fraternità sacerdotale san Pio X, e in quell’occasione è stato inevitabile per lui concludere che “dobbiamo prendere più seriamente le obiezioni dell’arcivescovo Lefebvre”.
A tale proposito Schneider non nasconde la sua presa di distanze dal modo in cui la Santa Sede, in nome della cosiddetta “ermeneutica della continuità”, ha continuato a rivolgersi alla Fraternità ex auctoritate, richiedendo l’adesione al Concilio ma evitando un serio ragionamento teologico. Una presa di coscienza divenuta sempre più chiara a partire dal 2014: “Con l’aumentare della crisi nella Chiesa, specialmente con la situazione creatasi dopo i due sinodi sulla famiglia, la pubblicazione di Amoris laetitia, l’approvazione di papa Francesco delle linee guida pastorali per i vescovi della regione di Buenos Aires (che prevedono, fra l’altro, l’ammissione degli adulteri non pentiti alla Santa Comunione) e la dichiarazione sulla diversità delle religioni siglata ad Abu Dhabi, ho realizzato che dobbiamo prendere maggiormente in considerazione le argomentazioni della Fraternità”.
La Santa sede non può, ragionevolmente, continuare a dire: “Noi abbiamo l’autorità e quindi abbiamo sempre ragione”. A mezzo secolo dalla fine del Concilio bisognerebbe scavare più a fondo nella sostanza delle questioni poste dall’arcivescovo Lefebvre. L’ermeneutica della continuità non regge alla prova dei fatti. Per esempio, riguardo alla regalità sociale di Cristo e all’oggettiva falsità delle religioni non cristiane, il Vaticano II segna una frattura rispetto all’insegnamento dei papi precedenti. Di conseguenza, accusando Lefebvre di essere rimasto legato a un passato da superare, implicitamente si afferma la necessità di superare l’insegnamento di tutti i papi fino a Pio XII. Ma “una simile posizione teologica – osserva Schneider – è in definitiva protestante ed eretica, poiché la fede cattolica implica una tradizione ininterrotta, una continuità ininterrotta, senza una percepibile rottura dottrinale e liturgica”.
Amoris laetitia e la dichiarazione di Abu Dhabi sono i due documenti che più di tutti, a giudizio di monsignor Schneider, dovrebbero spingere a considerare l’entità della frattura. Ma, se il libro fosse stato scritto più tardi, il vescovo avrebbe inserito nell’elenco anche il sinodo amazzonico e l’enciclica Fratelli tutti, nella quale, ha detto in un’intervista successiva, “manca un orizzonte chiaramente soprannaturale”, nonché la proclamazione della verità che Cristo è “la fonte indispensabile della vera fraternità”.
Certo, è legittimo osservare che molti testi del Concilio sono in continuità con la tradizione, ma è fuori dubbio che ce ne sono altri, anche su temi decisivi, che costituiscono una frattura, e compito del magistero pontificio sarebbe quello di chiarire, non di allargare la frattura. In ogni caso, è evidente che “le conseguenze negative e gli abusi commessi in nome del Concilio hanno avuto una forza tale da mettere in ombra gli elementi positivi presenti”.
L’arcivescovo Lefebvre, e non è stato il solo, ha denunciato apertamente “la distruzione della fede cattolica e della Santa Messa in atto nella Chiesa, sostenuta o almeno tollerata dalle più alte autorità della Santa Sede”. Avrebbe dovuto tacere e piegarsi? In una lettera del 24 dicembre 1978 a Giovanni Paolo II, Lefebvre spiegava: “L’ondata di novità nella Chiesa, accettata e incoraggiata dall’episcopato, ondata che travolge tutto al suo passaggio – la fede, la morale, le istituzioni della Chiesa – non poteva ammettere la presenza di un ostacolo, di una resistenza. Noi ci siamo trovati quindi a scegliere tra il lasciarsi trascinare dalla corrente devastatrice e accrescere il disastro, e il resistere ai venti e alle maree per salvaguardare la nostra fede cattolica e il sacerdozio cattolico. Non potevamo esitare”.
La fotografia scattata da Lefebvre nel 1978 si adatta perfettamente alla situazione attuale. Ecco perché, dice Schneider, sarebbe ora di mettere da parte il metodo della “quadratura del cerchio”, ovvero il tentativo di giustificare l’ingiustificabile. L’espressione “ermeneutica della continuità” non può essere utilizzata come una formula magica per nascondere la realtà, e la realtà è che il Concilio recava in sé i germi del disastro che oggi è davanti ai nostri occhi.
Paradossale è che la richiesta di tanti laici, ovvero che finalmente si faccia chiarezza, che gli errori siano riconosciuti e corretti e che l’insegnamento sia rimesso in linea con la tradizione, sia snobbata da quella che Schneider definisce la nomenklatura ecclesiastica. Proprio i chierici che per decenni si sono riempiti la bocca, in nome del Concilio, con il protagonismo dei laici, ora ricadono nel più vieto clericalismo e ingiungono ai laici di piegarsi, di tacere. “Ma i fedeli laici devono rispondere a questi chierici arroganti”.
Se ci pensiamo, nota Schneider, quando si guardano le immagini dell’epoca, il Vaticano II apparve subito come “una gigantesca ostentazione di trionfalismo clericale”, e sta lì la radice dell’attuale deriva in senso sinodale, ovvero di quell’“ecclesiocentrismo” e “magisterocentrismo” che ignorano quanto dice il Concilio stesso: “Il magistero non è superiore alla parola di Dio, ma la serve” (Dei verbum, n. 10).
Con il Concilio e dopo il Concilio la Chiesa ha agito in senso contrario a quanto si legge nella Dei verbum. Il magistero non è più il servitore della parola e della tradizione. La prospettiva è stata ribaltata. Cristo stesso non è più al centro e sempre più spesso non è neppure nominato. La verità, sostiene Schneider, è che nel corso del Concilio Vaticano II “la Chiesa ha iniziato a offrirsi al mondo, a flirtare con il mondo, a manifestare un complesso d’inferiorità nei riguardi del mondo”. Se prima del Concilio i chierici mostravano al mondo Cristo e non se stessi, dal Concilio in poi la Chiesa cattolica ha incominciato “a implorare simpatia dal mondo” e oggi è più che mai così, ma “questo è indegno di lei e non le otterrà il rispetto di quanti davvero cercano Dio”.
“Bisogna sempre ricordare – avverte monsignor Schneider – che i testi del Concilio Vaticano II non sono Parola di Dio ispirata né costituiscono sentenze dogmatiche o pronunciamenti infallibili del magistero”. D’altra parte, il Concilio stesso non ha mai avanzato tale pretesa.
La metafora secondo la quale attraverso il Concilio la Chiesa avrebbe aperto le finestre, per far entrare aria fresca in ambienti vecchi e ammuffiti, secondo Schneider è completamente fuorviante. Se e quando la Chiesa decide di aprire le finestre, deve farlo solo per lasciar entrare lo splendore della verità divina, non per far entrare il mondo con le sue seduzioni, i suoi errori e i suoi peccati. E invece è proprio ciò che è accaduto, e oggi, con il pontificato di Bergoglio, lo stiamo vedendo in modo drammatico. Il pericolo è sempre il modernismo, sintesi di tutte le eresie, e “oggi stiamo sperimentando la totale predominanza del modernismo nella vita della Chiesa e nelle facoltà teologiche”. Tanto che “in qualche misura il modernismo si è infiltrato persino nei documenti del magistero”.
Quando alcuni cardinali e vescovi parlano di “cambio di paradigma” utilizzano “un’espressione molto astuta”. Non c’è un cambio di paradigma, c’è la negazione della verità eterna. Ma i motivi di speranza non mancano, perché “oggi il velo è stato rimosso”, tanto che “il modernismo ha svelato pressoché integralmente il suo volto orribile”. La Chiesa, dunque, in quanto istituzione di origine divina, rifiuterà l’errore e tutti i fenomeni più deteriori oggi presenti nella sua vita. Lo farà proprio perché divina. “Lo farà oculatamente e correggerà tutti gli errori accumulati, a partire dalle varie espressioni ambigue dei testi conciliari”. Oggi siamo nella tempesta, ma la maschera è caduta. Di conseguenza, così com’è avvenuto in altre epoche segnate da profonde crisi dottrinali, la Chiesa tornerà a “insegnare chiaramente le verità del divino deposito della fede”, tornerà a “difendere i fedeli dal veleno dell’errore”, tornerà a “condurli per una via sicura alla vita eterna”. “Come un buon medico – conclude Schneider – un futuro papa dovrà diagnosticare la malattia e fornire la medicina per curarla”.
Il giudizio di Dio non mancherà, e Dio sarà tanto più severo quanto più elevato sarà il ruolo svolto dai chierici caduti nell’errore. Perché? Perché “costoro avevano il dovere di vigilare e proteggere il gregge dalle malattie e dai pericoli e non lo hanno fatto, anzi, hanno cooperato alla diffusione di malattie e pericoli e hanno agito come lupi travestiti da agnelli”.
Aldo Maria Valli
La Messa Tradizionale come Antitesi dell’Ideologia Gender.
30 Novembre 2020 7 Commenti
Marco Tosatti
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, dal sito The Remnant rilanciamo questa analisi del prof. Peter Kwasniewski, che i lettori di Stilum Curiae conoscono bene. Ringraziamo Carlo Schena per l’amicizia, e la traduzione. Buona lettura.
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La Messa Tradizionale come antitesi dell’ideologia gender
Peter Kwasniewski
Per quanto possibile, provo a partecipare ogni giorno alla S. Messa presso una cappella gestita dalla Fraternità Sacerdotale San Pietro. Sebbene io prenda assai di rado il mio messalino per l’Ordinario della Messa, lo consulto invece sempre per il Proprio, cercando di pregarlo in profondità e di trarne saggezza. In effetti, non sarebbe esagerato dire che continuo a re-imparare la mia fede, e ad impararla meglio, tramite la S. Messa: è una scuola alla quale sono sempre iscritto, dove l’insegnamento è tranquillo, rispettoso, coerente, serio, ed efficace. Qui, l’apprendimento è delizioso, perché avviene senza didattismi forzati, tediosa verbosità o trovate imbarazzanti. Avviene, piuttosto, in quel modo naturale per cui un nuotatore si bagna d’acqua, se nell’acqua si tuffa.
Una cosa che mi ha davvero colpito nelle messe a cui ho partecipato questa settimana (e ogni settimana c’è qualcosa di nuovo!) è quanto fortemente la liturgia tradizionale mette in risalto tanto il lato femminile quanto quello maschile della natura umana e della vita cristiana. È assolutamente non androgina. La sequenza di feste che vanno dal 16 novembre al 20 novembre sono una splendida dimostrazione di questa caratteristica.
Il 16 novembre, ad esempio, è stata la festa di santa Gertrude la Grande, per la quale l’Epistola è tratta dal Comune delle Vergini (2 Cor, 11): “Sono geloso di te con la gelosia di Dio. Ti ho sposata con un solo marito, per presentarti come una vergine casta a Cristo”. Questo, ovviamente, viene applicato a Gertrude, ma descrive l’intera Chiesa come la casta sposa di Cristo. Il Vangelo racconta delle dieci vergini (Mt 25) che escono per incontrare lo sposo e la sposa. L’Offertorio parla delle figlie dei re e della regina. Nell’ordine spirituale, tutti ci uniamo a e veniamo resi fecondi da Cristo Re: questa è fondamentalmente la nostra vocazione battesimale.
Il 17 novembre, invece, troviamo San Gregorio Taumaturgo, uomo grande e valoroso. L’introito annuncia nobilmente: “Il Signore […] ha fatto di lui un principe, così che abbia in eterno la dignità del sacerdozio”. L’Epistola dal libro del Siracide batte sullo stesso tasto: “Egli lo ha glorificato agli occhi dei re, e gli ha dato una corona di gloria […] gli ha dato un grande sacerdozio […]”. Il Vangelo parla della immensa, infallibile forza della preghiera fatta con fede. L’Offertorio: “Ho trovato Davide, mio servo […] la mia mano lo aiuterà, e il mio braccio gli darà forza”. La Comunione: “Fedele e prudente è il servo che il signore ha preposto alla sua casa”. È tutto connotato da un carattere molto attivo e virile: quello che consideriamo ora è il sacerdozio ordinato, una partecipazione speciale a Cristo, lo Sposo, contemporaneamente Capo della Sua sposa, e colui che per lei offre la Sua vita.
Il 18 novembre è la festa della dedicazione delle basiliche dei SS. Pietro e Paolo. E qual è l’Epistola? “In quei giorni, io vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, discendere dal cielo, da presso Dio, preparata come una sposa che si è adornata per il suo sposo”. Ancora una volta viene sottolineato il tema della chiesa nuziale. Questo tema è messo ancora più chiaramente in luce quando il sacerdote usa, per l’occasione, il prefazio gallicano, come è ora consentito fare a tutti i sacerdoti, e come ha fatto il nostro cappellano:
È veramente degno e giusto, equo e salutare, che noi sempre e in ogni luogo rendiamo grazie a Te, o Signore santo, Padre onnipotente, eterno Dio: Tu che, essendo il Datore di tutto ciò che è buono, dimori in questa casa di preghiera che noi abbiamo costruito; e che santifichi con opera incessante la Tua Chiesa, che Tu stesso hai fondato. Perché davvero questa è una casa di preghiera, espressa in sembianze di edifici visibili, un tempio per la dimora della Tua gloria, la sede immutabile della verità, il santuario dell’ eterna carità. Questa è l’arca che ci conduce, strappati al diluvio del mondo, nel porto della salvezza. Questo è l’amata ed unica sposa, che Cristo acquistò col Suo stesso sangue, e che vivifica con il Suo Spirito: nel cui seno siamo rinati per Tua grazia, nutriti con il latte della parola, fortificati con il Pane di Vita, e riscaldati con l’aiuto della Tua misericordia. Ella combatte fedelmente sulla terra, assistita dal suo Sposo e, da Lui incoronata, trionfa eternamente in cielo. E così con gli angeli e gli arcangeli, con i troni e le dominazioni, e con tutte le schiere del celeste esercito, cantiamo un inno alla tua gloria, per sempre dicendo: Sanctus, sanctus, sanctus…
Il 19 novembre è la festa di Santa Elisabetta d’Ungheria. L’Epistola è tratta del libro dei Proverbi: “Chi troverà una donna valorosa? Più delle perle pregiate essa vale. In lei confida il cuore del suo sposo […] Essa gli dà gioie, e mai dispiaceri, per tutto il tempo della sua vita”. Tutta questa lettura tratta da Proverbi, 33, per quanto la Chiesa la applichi alle donne sante, merita soprattutto di essere letta come una parabola sulla Chiesa stessa – una parabola che si incarna (per così dire) nella Beata Vergine Maria, con assoluta perfezione.
Il 20 novembre è la festa di San Felice di Valois, che apparteneva alla famiglia reale, rinunciò ai suoi beni, si ritirò in un deserto, e infine fondò un istituto per il riscatto dei prigionieri dai musulmani. La Messa Comune a lui assegnata – la Justus ut palma – è, ancora una volta, essenzialmente virile, se così si può dire, come lo è la Colletta del giorno.
Ciò che vediamo, in altre parole, è qualcosa di simile a un dialogo liturgico tra sposa e sposo, come una spola che si muove avanti e indietro, realizzando un arazzo tanto più bello quanto sono le relazioni di contrasto tra ordito e trama. E, dal momento che le feste non sono facoltative, e le letture sono in armonia con il ciclo santorale, tutto questo viene SEMPRE presentato, anno dopo anno, ai fedeli che assistono alla Messa quotidiana.
Col tempo, i fedeli non possono fare altro che essere formati secondo quelle intuizioni tradizionali – vale a dire, date da Dio – circa i ruoli degli uomini e delle donne, su ciò che è appropriato alla mascolinità e alla femminilità, sugli ideali che dovremmo porci e sui modelli che dovremmo sforzarci di imitare. Sebbene l’educazione famigliare e la catechesi giochino senz’altro il ruolo più importante nello sviluppo di una sana comprensione della dualità sessuale della natura umana e dei vari modi nei quali, all’atto pratico, tale complementarità può essere vissuta – perché sicuramente non è un sistema a “taglia unica”: ci sono single che ancora non hanno scelto una strada, vergini consacrate, mogli, madri e vedove, proprio come ci sono scapoli, fratelli religiosi, sacerdoti, mariti, padri, vedovi – non può esserci d’altra parte dubbio che anche la preghiera pubblica e formale della Chiesa giochi un fine ruolo nel fornirci esempi luminosi e senza ambiguità dai quali traiamo principi di pensiero e di azione. Questi esempi li vediamo sia nel dipanarsi stesso della liturgia, con i suoi ministri, uomini, e con le donne ornate dal velo, sia nel culto dei santi che ci viene presentato con questi formulari di Messa particolarmente appropriati.
Una cosa che amo particolarmente è che l’immagine della donna nella liturgia tradizionale è un’immagine di regalità, di dignità, di potere – non del potere sacerdotale e regale, cosa che non sarebbe né appropriata né in effetti possibile, ma piuttosto delle figlie dei re, e delle regine, il cui regnare si realizza nel servire. In altre parole, la differenza non risiede nel fatto che “gli uomini sono al comando e le donne sono servi a contratto”, ma piuttosto tanto gli uomini quanto le donne governano nei loro rispettivi regni: vengono resi perfetti da ciò che hanno in comune come battezzati, nonché da ciò che li differenzia nelle loro vocazioni specifiche. Tutti i cristiani sono, insieme, la Sposa di Cristo, la Chiesa. Le vergini consacrate, guidate dalla Beata Vergine, divengono la sposa di Cristo nel modo più completo possibile. Le madri di famiglie cristiane emulano la maternità della Chiesa e della Madre di Dio. Tutti i sacerdoti, in quanto tali, tengono il posto di Cristo divino Sposo, ed esercitano una paternità divina. Il rito romano classico ha il potere di accentuare e sviluppare ciò che è maschile negli uomini, ciò che è femminile nelle donne, ciò che è umano in tutti noi, ciò che è divino in noi, per dono di Dio.
In un momento in cui i ruoli sessuali tradizionali sono stati rifiutati e persino criminalizzati dalla società mondana, quando il valore stesso dell’umanità viene messo in discussione, il ripristino del nostro culto tradizionale è ancora più importante per evitare fenomeni come la disforia di genere, la misantropia, l’aborto e simili altre malattie psicologiche che raramente – se non mai – si sono verificate in società sane, ma che oggi stanno proliferando in un Occidente decadente, disancorato dalla natura e dalla grazia. Queste malattie si possono prevenire con un’adeguata cura dell’anima. Sono proprio i grandi riti liturgici della tradizione cattolica che servono da modelli, profilassi, vitamine e cure. Anche se questi riti non bastano da soli a garantire la salute, non avremo mai la salute nella Chiesa senza di loro.
[Traduzione a cura di Carlo Schena]
https://www.marcotosatti.com/2020/11/30/la-messa-tradizionale-come-antitesi-dellideologia-gender/
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