Il nostro posto nel campo di battaglia
Un celebre verso di William Shakespeare nella commedia As you Like (Come vi piace) dice: “Tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne sono solo semplici attori” (All the world’s a stage, and all the men and women merely players, in As you like, Atto II, Scena VII). C’è della saggezza in questa frase, ma noi potremmo dire con più precisione: “Tutto il mondo è un campo di battaglia e tutti gli uomini e le donne, sono immersi in questa guerra”. Ciò è vero sempre, ma è vero soprattutto oggi. Come negarlo?
Si sono appena concluse le elezioni negli Stati Uniti. Ma si sono veramente concluse? Il presidente in carica, fino al 20 gennaio, è ufficialmente Donald Trump, che non ha riconosciuto la vittoria del suo avversario, già incoronato come nuovo presidente dai media. Che cosa succederà da qui al 20 gennaio? Al di là delle battaglie legali in corso, l’America è spaccata a metà tra due schieramenti politici, divenuti due visioni del mondo tra le quali sembra molto difficile trovare un terreno di compromesso. Il risultato elettorale ha probabilmente premiato Biden, ma Trump è apparso più solido e Biden più debole di quanto tutti si aspettassero. Il sistema politico degli Stati Uniti, considerato un modello da quando Alexis de Tocqueville descriveva nel 1831 La democrazia in America, mostra oggi tutta la sua fragilità e lo scenario di una guerra civile, più volte evocato dallo storico britannico Neil Ferguson, appare meno improbabile di quanto possa sembrare.
Ma la prospettiva di una guerra civile non risparmia l’Europa. Da Nizza a Vienna, le strade e le piazze d’Europa sono il teatro di un conflitto religioso che potrebbe improvvisamente coinvolgere le periferie delle grandi città, secondo il drammatico quadro dipinto dal giornalista
Laurent Obertone nel suo romanzo Guerilla : le temps des barbares (Ring, Paris 2019). Accanto alla guerra asimmetrica che potrebbe essere provocata da una improvvisa rivolta delle periferie urbane, gli analisti prevedono anche il ritorno di “conflitti simmetrici”, con la possibilità di guerre di Stati contro Stati. Il governo di Parigi, ad esempio, ha dei rapporti sempre più conflittuali con la Turchia di Erdogan, ma anche con la Cina, soprattutto dopo quanto è accaduto nella Nuova Caledonia, dove nel referendum secessionista del 4 ottobre, la popolazione ha votato di restare francese, rifiutando di entrare nell’orbita cinese. Ma la Cina comunista non rinuncia al suo espansionismo nel Pacifico, così come potrebbe approfittare della situazione di caos negli Stati Uniti per tentare di invadere, se non su tutto il territorio dell’isola di Taiwan, almeno alcune isole che dipendono da essa. Come risponderebbero Joe Biden o Donald Trump?
Ma il mondo è anche in guerra contro un nemico invisibile che ha fatto la sua apparizione all’inizio del 2020: una guerra biologica che si aggiunge a quella politica, culturale e psicologica già in corso. La pandemia del Coronavirus sta destabilizzando l’Occidente e potrebbe provocare il suo collasso sociale. D’altra parte papa Francesco invece di cercare di comprendere i disegni divini nella storia, sembra accelerare la catastrofe, con gli appelli ad un utopico mondo privo di identità religiosa e di radici nazionali, che segnerebbe l’annientamento della civiltà occidentale e cristiana.
La guerra totale è alle porte? E in questo campo di battaglia qual è il nostro posto? La risposta è semplice. Il nostro posto di combattimento è quello che la Divina Provvidenza attribuisce a ciascuno di noi nel momento presente. La nostra vita è fatta di innumerevoli istanti che si susseguono, ma noi combattiamo nel luogo e nel momento che di giorno in giorno la Provvidenza ci assegna. “Sufficit diei malitia sua” (Mt 6, 34): “a ogni giorno basta la sua pena”, perché ogni giorno esige una penosa lotta, contro noi stessi, demonio e il mondo, con l’aiuto della grazia di Dio che sempre ci assiste.
Combattere nel momento presente, significa quindi adempiere il proprio dovere e accettare virilmente le difficoltà di ogni giorno, nella concreta condizione storica in cui Dio ci vuole. La tentazione è di desiderare un posto di battaglia diverso da quello in cui troviamo e di ribellarci agli eventi, invece di vedere in essi la mano sapiente di Dio che tutto ordina a buon fine, anche il male che aggredisce noi e la società intera. Non facciamoci travolgere dal fiume precipitoso degli eventi, ma ancoriamoci alla roccia della divina Sapienza che giudica le cose del mondo alla luce dell’eternità, lasciando che le onde che si rincorrono furiosamente scompaiano, mentre Dio, che è la roccia eterna, mai muta e sempre sta. Dom Francesco Pollien dice: “Saper accettare quello che Dio fa, gli avvenimenti che dispone, quello che ti succede ogni giorno, convinto che tutto viene dalla sua mano, è una scienza dolce al cuore generoso, ed è una scienza chiusa al cuore egoista” (Cristianesimo vissuto, Edizioni Fiducia, Roma 2017, p. 115).
Manteniamo allora il nostro posto nel campo di battaglia e combattiamo generosamente, senza rabbia e senza rancore, immergendoci nell’infinita dolcezza della divina promessa di Fatima: “Infine il mio Cuore Immacolato trionferà”.
https://www.radioromalibera.org/il-nostro-posto-nel-campo-di-battaglia/
Gesù sapeva scrivere? (A proposito di un’intervista al cardinale Ravasi)
Cari amici di Duc in altum, Ettore Gotti Tedeschi mi ha inviato questo contributo che volentieri vi propongo. Buona lettura.
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Sul Corriere della sera di ieri, 10 novembre 2020, c’era una lunghissima e dottissima intervista (a cura di Walter Veltroni) al cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura. Il colloquio verte sulla solitudine conseguente al lockdown e sull’importanza della meditazione. Ma se la conclusione delle meditazioni fatte durante il lockdown da sua eminenza sono quelle conclusive, e cioè che probabilmente Gesù non sapeva scrivere e che, se oggi dovesse scrivere qualcosa, scriverebbe di amare il prossimo, ma anche la terra come se stesso, restiamo un po’ perplessi.
L’erudizione del cardinale e il piacere che prova a manifestarla sono noti. Stavolta per parlarci della scoperta della meditazione fa ben dieci citazioni, tutte, per carità, interessanti e pertinenti. Ma dieci!
Incomincia con una citazione da La peste dello scrittore francese ateo e anarchico Albert Camus, passa poi al filosofo neo-razionalista Norberto Bobbio, salta al sociologo e massimo esperto dell’impatto della comunicazione sulla società Marshall McLuhan, cita lo scrittore ed entomologo Vladimir Nabokov (autore di Lolita), parla poi del compositore brasiliano Vinicius de Moraes (citato da papa Bergoglio in Fratelli tutti) che amava così tanto la famiglia da sposarsi ben nove volte, cita l’immancabile Blaise Pascal e riferisce persino del filosofo americano John Searle, famoso sia per le sue critiche circa l’intelligenza artificiale sia per esser stato privato del titolo di professore emerito all’Università di Berkeley per molestie sessuali. Ma non basta. Sua eminenza continua citando Charles Peguy, scrittore francese convertitosi al cattolicesimo ma ostile all’autoritarismo della Chiesa, cita letture del grande filologo Giorgio Pasquali e parla della sua amicizia con il poeta Mario Luzi.
Siamo arrivati a dieci citazioni e abbiamo fatto fatica a seguirlo. Ma ecco che alla domanda finale, e cioè se Gesù ha mai scritto qualcosa (a parte le famose parole tracciate sulla sabbia nell’episodio dell’adultera), il cardinale risponde: «Noi non sappiamo neppure se Gesù sapesse scrivere, qualche esegeta ha immaginato che sulla sabbia abbia tracciato solo segni… Ma se Gesù tornasse scriverebbe “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Ama anche la terra come te stesso, potremmo aggiungere oggi».
Tutto qui?
Sentite che cosa disse invece in proposito un intellettuale cattolico come Nello Vian, la persona più vicina per tutta la vita a Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI. Vian, che fu responsabile della Biblioteca Vaticana per ventotto anni e poi segretario generale dell’Istituto Paolo VI, nel libro Il cardinale che sapeva leggere. Storie di libri e scrittori, scrisse (e apprezzate la ricchezza spirituale espressa in queste poche frasi): «Pur predicando, operando, disseminando i miracoli, Gesù avrebbe potuto affidare al papiro i punti essenziali della sua dottrina, lasciare una raccolta scritta dei suoi pensieri. Scrivere non è altro che una forma d’azione. Gesù non l’ha fatto: non ha scritto che una volta sola, ma sulla sabbia (e il senso del gesto, qualunque ne sia l’interpretazione, rimane chiaramente simbolico nel contesto del fatto: la traduzione davanti a lui della donna adultera). Si sarebbe quasi tentati di dire che il carattere della sua missione gl’interdiceva l’attività d’autore, perché egli fosse esclusivamente un’autorità. Cristo non ha voluto che gli uomini fossero conquistati più dalla sua opera scritta che dalla sua persona, come avviene per l’eredità letteraria lasciata da uno scrittore. L’opera di Platone importa più che Platone, ma di Socrate che non ha scritto attira unicamente la sua persona. Gesù non ha voluto che tra lui e i discepoli si ponesse lo schermo, anche trasparente, dell’opera scritta. Fedele al metodo dell’insegnamento orale tradizionale del suo popolo, e del quale anche Platone nel capitolo 61 del Fedro notava la superiorità, egli ha gettato il seme della sua dottrina non sulla carta, ma in spiriti e cuori vivi, dove il suo amore lo avrebbe fatto germogliare e fruttificare. Questa prima ragione non è la sola che possa fare intendere perché Gesù non ha scritto. Egli non era un filosofo che dopo anni di riflessione proponga una bella teoria: era la giustizia, la verità, la potenza viventi, “via, verità e vita”. Era il profeta, potente non solo in parole, ma anche, e più ancora, in opere: sulla materia e lo spirito, sui corpi che guariva e le anime che convertiva. Non si limitava a insegnare, poiché alle grandi lezioni univa gli atti portentosi. La sua vita era il dogma in atto. Ogni suo comportamento, il minimo dei suoi gesti era un segno, un simbolo del divino. Spettava ai discepoli testimoniare la gloria del Maestro, narrare le sue grandi opere, e a un tempo esprimere l’impressione che essi per primi ne avevano ricevuta. In altri termini, erano i discepoli che dovevano scrivere, consegnare alla carta questa storia».
Ecco, questa volta la citazione l’abbiamo fatta noi. E questa sì che sarebbe stata una meditazione per i nostri tempi di lockdown!
Ettore Gotti Tedeschi
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