Lo «spirito del Concilio», s’intende il Vaticano II, perché di nessun altro concilio ecumenico, a mia conoscenza, è invocato insistentemente lo spirito, ha aleggiato sul contestato presepe allestito lo scorso dicembre in piazza S. Pietro a Roma. Come notato da Brian Flanagan su National Catholic Reporter, le reazioni suscitate dall’innovativa estetica del presepe, con una certa audacia considerato «parzialmente ispirato dal Concilio» e dalla sua eredità, sono sembrate ricordare quelle provocate fra i rigidi difensori della tesi dell’immutabilità dell’insegnamento della Chiesa e, appunto, i continuatori del genuino rinnovamento voluto dall’ultimo Concilio ecumenico e, non ultimo, dall’attuale pontefice.
Benché riguardante il contesto artistico, si è trattato solo dell’ultimo di una serie di riferimenti al Concilio e al dibattito sollevato dalla sua celebrazione che hanno affollato la seconda metà dell’anno appena trascorso. Ma come è stato possibile evocare lo «spirito» di un evento così influente, ma anche tanto remoto nel tempo, come quello del Concilio, anche nel caso del discusso presepe di piazza S. Pietro? forse che il Concilio si è occupato anche di estetica dei presepi? o basta evocare l’«aggiornamento» che il Concilio ha costituito per la Chiesa per giustificare scelte artistiche non in linea con la tradizione?
Se si vuole intendere esattamente che cosa sia questo «spirito del Concilio», non è tanto ai documenti ufficiali del Vaticano II che ci si deve volgere, quanto agli scritti e alle dichiarazioni dei suoi protagonisti: periti, padri conciliari, giornalisti e intellettuali vari, con l’implicita premessa, riecheggiante S. Paolo (2 Cor 3, 6), che lo «spirito» si deve intendere positivamente, rispetto alla rigidità della «lettera».
Ad esempio, Yves Congar riferisce un discorso del cardinale Paul-Émile Léger al Concilio il 3 dicembre 1962, in cui l’alto prelato «auspica che lo spirito di rinnovamento sia tutelato da una commissione che tuteli autorevolmente lo spirito del Concilio nel periodo intercorrente tra le due sessioni»: dunque lo «spirito del Concilio» è sinonimo di una delle parole chiave del Vaticano II, l’«aggiornamento»? così sembrerebbe, come è confermato da due passi, rispettivamente del discorso di papa Paolo VI nella cattedrale dello Spirito Santo in occasione del suo viaggio a Istanbul (25 luglio 1967): «Il recente Concilio Vaticano ci ha ricordato che questo progresso si basa prima di tutto sul rinnovamento della Chiesa e sulla conversione del cuore. Ciò significa che contribuirete a questo progresso verso l’unità nella misura in cui entrate nello spirito del Concilio. A ciascuno di noi è richiesto uno sforzo per rivedere i nostri modi consueti di pensare e agire per renderli più conformi al Vangelo e alle esigenze di una vera Fratellanza Cristiana», e del libro-intervista di Vittorio Messori, Il rapporto sulla fede (1985), in cui l’allora cardinale Joseph Ratzinger distingueva il vero spirito del Concilio dalle sue false interpretazioni, attribuendo le deluse speranze di rinnovamento a «coloro che sono andati ben oltre la lettera e lo spirito del Vaticano II».
Al di là di chi ne ha fatto poi autorevolmente uso, in realtà, «spirito del Concilio» è una espressione del gergo giornalistico, nata ovviamente durante la celebrazione del Vaticano II, ha un autore che attribuì ad essa un significato preciso e che, per la sua popolarità, come vediamo si diffuse ben oltre la cerchia dei mezzi di comunicazione che seguirono il ventunesimo Concilio ecumenico della Chiesa.
Sembra infatti che l’espressione «spirito del Concilio» sia apparsa per la prima volta sulla rivista Time dalla penna di Michael Novak (1933 – 2017), non nuovo, in verità, nel creare slogans eneologismi poi molto diffusi; proprio negli anni Sessanta, infatti, l’allora giovane Novak ispirò i discorsi di molti leaders del Partito democratico americano, suggerendo, ad esempio, niente meno che il famoso concetto di «nuova frontiera» a John F. Kennedy.
Si tratta, però, quasi di un’altra vita, rispetto a quella condotta precedentemente, anche se non meno importante. Novak, infatti, è noto in Italia al pubblico degli specialisti come il teorico del «capitalismo democratico», ovvero il nuovo nome assegnato, a partire dagli anni Ottanta, a quella particolare politica economica seguita dalle principali nazioni del mondo occidentale, basata sulle libertà politica ed economica sviluppatesi, secondo Novak, grazie all’impulso valoriale offerto dalle religioni ebraica e cristiana: si pensi a libri come Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo (1987) e L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo (1994) che, fin dall’efficace titolo, evocano, evidentemente per confutarlo,il celebre L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905) di Max Weber.
Non molti sanno, soprattutto in Italia, che Novak esordì come giornalista free-lance, soggiornando a Roma dal 1963 al 1964 per scrivere estesamente su importanti periodici liberal d’oltre oceano come Time, appunto (Novak e sua moglie Karen erano intimi di Clare Boothe Luce, moglie cattolica del fondatore di Time, Henry Luce, ed ex ambasciatrice degli Stati Uniti in Italia), oltre che su America, Commonweal e National Catholic Reporter proprio del Concilio, di cui si può ben dire, quindi, che fu spettatore partecipe e che, per la gran messe dei dati raccolti e per i giudizi espressi, meriterebbe studî specifici. Io mi limiterò a rispondere brevemente alla domanda capitale: Che cosa è stato il Vaticano II secondo Novak?, per passare a quella principale: Che cosa intendeva con «spirito del Concilio»?
La risposta di Novak alla prima domanda può sembrare deludente, perché non contrappone i due consueti schieramenti (quello vincente dei «progressisti» e quello dei «conservatori» fin lì detentori delle leve del potere nella Chiesa), seguendo uno schema interpretativo assai diffuso fra i suoi connazionali, ma poco consono alla storiografia italiana. Secondo Novak, infatti, si tratta di categorie elaborate dalla recente storia politica, niente affatto appartenenti alla storia del cristianesimo, che pure ha conosciuto sì diverse sensibilità, ma dietro le quali nessun teologo cattolico ha mai militato al punto tale da mettere in dubbio la Parola affidata alla Chiesa, spendendosi piuttosto per approfondirla e difenderla sinceramente, per poi trasmetterla nel modo più veritiero ed efficace possibile alle nuove generazioni.
È come ciò dovesse avvenire che animò il dibattito intellettuale, ma non fra «progressisti» e «conservatori» quanto, secondo Novak, fra due diverse scuole di teologia: una, detta «della ortodossia non storica», che concepisce la Chiesa come una istituzione sempre fedele a sé stessa, capace di elaborare mirabili sintesi di fede e di pensiero (si pensi a quella tomista), ma che appare all’esterno come una realtà immobile e poco permeabile alle novità, soprattutto quelle del progresso scientifico che incidono sul costume; un’altra, detta «della neodossia» che, all’opposto, concepisce la Chiesa come dotata di una permanente coscienza di sé, storicamente individuata, ma in grado di crescere e, se le circostanze lo esigono, suscettibile di modifiche e persino di superamento.
Se non fosse stato per l’abilità di Novak nella scelta delle etichette delle due scuole teologiche, che poi si sono imposte nel dibattito sul Vaticano II all’estero, non ci sarebbe niente di nuovo sotto il sole: anche il teologo del dissenso Charles Curran, ad esempio, riconosceva l’esistenza di due scuole teologiche ma preferiva riferirsi ad esse chiamandole rispettivamente «classica», nel senso di fedele a verità eterne, immutabili, che non contemplano il minimo cambiamento né tanto meno ripensamenti, e «della coscienza storica», al contrario più disponibile ad ammettere che il soggetto umano fosse inserito in una storia e in una cultura che influenzano le vie in cui ciascuno pensa ed agisce, rendendolo contemporaneamente sia permeabile nei confronti dell’eredità del passato, sia aperto verso le sfide dell’avvenire.
Ad un certo punto però, e qui sta l’interesse delle corrispondenze romane di Novak, si prese ad andare oltre, molto oltre l’equilibrio faticosamente raggiunto dalle due scuole nei sedici documenti ufficiali del Vaticano II «sotto l’influenza dello spirito del Concilio», definito in modo apparentemente pacifico come l’«amare il passato per aiutare a trovare forme nuove ma sempre rispettose della tradizione»; quasi che la Chiesa fosse però una entità disincarnata, staccata dalla sua storia, anche quella più dolorosa, e da una tradizione così pazientemente messa a punto, identificate principalmente in Roma e nel Vaticano, sganciata da qualsiasi disciplina e autorità, compresa quella locale, sicché ciascuno, cattolico in quanto «sotto l’influenza dello spirito del Concilio» e non più per il credo di verità oggettive tramandate alla fine poteva vivere come meglio gli pareva, senza più doversi giustificare.
Non sembri un eccesso: si pensi a certe sperimentazioni nel campo della liturgia o ai casi di aperto dissenso da parte di autorevoli conferenze episcopali e teologi di punta nei confronti del magistero, o si rilegga, nel caso di Novak, la sua inchiesta sulle «nuove suore» per The Saturday Evening Post, tutta inneggiante sperticate lodi a quelle religiose che, sfidando apertamente le regole millenarie che avevano giurato di seguire per tutta la vita, «sotto l’influenza dello spirito del Concilio» presero ad accorciare le gonne sopra il ginocchio, a togliersi il velo e a vivere per conto proprio.
Per l’audacia e l’irriverenza con cui descrisse, invece, la supposta arretratezza delle suore fedeli ai voti professati, successivamente Novak dovette fare pubblica ammenda, constatando amaramente che alla fine il bilancio degli anni vissuti dalle «nuove suore» si era concluso negativamente: infatti, se quando il Vaticano II si chiuse (1965), si potevano contare oltre 104 mila sorelle che insegnavano nelle scuole cattoliche degli Stati Uniti, trent’anni dopo (1995), quel numero crollò drasticamente, scendendo a sole 13 mila religiose insegnanti.
Qualche anno dopo, lo stesso S. Paolo VI dovette ammettere, in una omelia che fece epoca (29 giugno 1972), che non tutto era andato nel verso giusto durante il Vaticano II: il papa, infatti, aveva la netta sensazione che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». Parole su cui vale la pena soffermarsi, soprattutto in tempi di pandemia: «È entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. Dalla scienza, che è fatta per darci delle verità che non distaccano da Dio ma ce lo fanno cercare ancora di più e celebrare con maggiore intensità, è venuta invece la critica, è venuto il dubbio. Gli scienziati sono coloro che più pensosamente e più dolorosamente curvano la fronte. E finiscono per insegnare: “Non so, non sappiamo, non possiamo sapere”. La scuola diventa palestra di confusione e di contraddizioni talvolta assurde. Si celebra il progresso per poterlo poi demolire con le rivoluzioni più strane e più radicali, per negare tutto ciò che si è conquistato, per ritornare primitivi dopo aver tanto esaltato i progressi del mondo moderno. (…) Anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza».
Anche Novak, molti anni dopo, riprese l’immagine del «fumo di Satana», arrivando a sostenere che aveva ammorbato a tal punto il Concilio da identificarsi con il suo «spirito», favorendo il superamento della lettera di ciò che lo Spirito Santo aveva ispirato: uno spirito che si riempì di radicalismo individualistico e si gonfiò di odio per il modo in cui spazzò via una comunità religiosa dopo l’altra, colleges e università, preti e laici.
Per ironia della sorte, Novak, la cui famiglia era di origine slava (slovacca, per l’esattezza), non incontrò mai, fra i padri conciliari che pure si distinsero per la qualità degli interventi, l’allora giovane arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla, se non molti anni dopo, quando divenne papa: un frutto straordinario di quell’«aggiornamento», con la sua apertura ai vescovi delle diocesi più remote dell’est e l’incontro con i vescovi di quelle occidentali, perseguito così tenacemente dalla Chiesa che, forse, non sarebbe altrimenti mai maturato.
Data la sua conoscenza ed esperienza del Concilio, fu S. Giovanni Paolo II, secondo Novak, a salvare il Vaticano II e a far sopravvivere la Chiesa «sotto l’influenza dello spirito del Concilio» conferendole nuova centralità nel mondo;, dopo aver considerato esaurita l’ispirazione delle ideologie e delle correnti principali della modernità, il papa venuto dall’est insegnò di nuovo a concentrarsi dove si era sempre concentrato il suo magistero e cioé su Gesù Cristo: non è un caso che le parole iniziali del suo primo saluto e della sua prima benedizione furono: «Sia lodato Gesù Cristo»! (16 ottobre 1978).
In una delle tante decisioni prese «sotto l’influenza dello spirito del Concilio», i liturgisti re-immaginarono la S. Messa come una sorta di cena comune, in cui il celebrante è il punto focale dell’assemblea, sta di fronte ad essa e ad una tavola, così che celebrante e assemblea sembra quasi che si concentrino l’uno sull’altro. Prima del Concilio, invece, gli occhi del celebrante e dell’assemblea erano rivolti verso est, verso Gerusalemme, terra di benedizione dove Dio e l’uomo avevano stretto il loro patto e, quindi, della nostra salvezza, in definitiva verso la stessa direzione: Dio.
di Nicola Lorenzo Barile
Ettore Gotti Tedeschi: la Scomparsa dei Matrimoni Religiosi in Italia.
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, il prof. Ettore Gotti Tedeschi ha scritto per La Verità, che ringraziamo, questa riflessione estremamente interessante sul crollo, in termini numerici, dei matrimoni religiosi. Buona lettura.
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La scomparsa dei matrimoni religiosi.
Un fenomeno a dir poco inquietante, almeno quanto quello del crollo della natalità, consiste nella quasi scomparsa dei matrimoni religiosi. Venerdi scorso ho partecipato con il prof GianCarlo Blangiardo, Presidente Istat, ad un convegno dibattito patrocinato dal Senato della Repubblica e organizzato dalla senatrice Tiziana Drago per New Generation Italy. In questo Convegno <Incremento demografico e sviluppo economico- (effetto Covid sulla natalità)>,il prof. Blangiardo, ha illustrato alcuni dati, ancora provvisori, sui matrimoni celebrati in Italia nel periodo osservato: gennaio-luglio 2020.Questi dati meritano particolare attenzione. Tra gennaio e luglio 2020 il numero assoluto di matrimoni celebrati in Italia è stato di 34.059, verso 101.461 per lo stesso periodo nel 2019 e i 107.990 nel 2018. Ma il fenomeno più sorprendente e inquietante sta nella scomparsa dei matrimoni religiosi che, sempre tra gennaio e luglio 2020, son stati 4.141 verso i 47.025 del 2019. In pratica nel periodo considerato del 2019 i matrimoni religiosi hanno rappresentato quasi la metà (il 46.5%) dei matrimoni totali, mentre nel 2020 solamente il 12%.
Effetto chiese chiuse e municipi aperti? Effetto rinvio a tempi migliori del matrimonio religioso? Effetto scoraggiamento del valore del Sacramento del matrimonio? Sarà interessante leggere i commenti degli “esperti” in un eventuale dibattito in proposito, ma dobbiamo intanto riconoscere la gravità del fenomeno e le sue conseguenze, non solo sulla formazione di famiglie, quanto sul problema conseguente nascite, che vedremo solo nel 2021 e anni successivi. Sentiremo presto il lamento per un ulteriore crollo delle nascite, leggeremo dotti commenti sull’inverno demografico, ascolteremo il pianto dei produttori di pannolini per neonati e soprattutto leggeremo il compiacimento per gli ulteriori sbarchi, sempre più necessari, di migranti destinati a colmare il gap di popolazione.
Ma mentre da una parte sentiamo il sussurro di chi lamenta il crollo natalità, da altra parte intendiamo il grido di esultazione per lo stesso crollo natalità, che permette di salvaguardare meglio il pianeta grazie a meno bocche da sfamare che pretendono lo sfruttamento dell’ambiente da parte dell’avida creatura umana. Ecco, questa contraddizione tra chi lamenta le non nascite e chi esulta per le non nascite, è preoccupante. Non nascite, prescindendo da valutazioni morali, significa decrescita economica, ma significa anche (per i maltusiano ambientalisti) tutela dell’ambiente. Contraddizione irrazionale, quanto pericolosa, per le soluzioni che conseguentemente non verranno mai adottate.
Riguardo questa “contraddizione” vediamo coesistere previsioni anche fantasiose, ma opposte nella conclusione.
Per esempio quelle malthusiano-ambientaliste, catastrofiche ed allarmanti, che dicono che nel 2100 saremo più di 10miliardi, ed è intollerabile perchè Greta ne soffrirebbe troppo. Queste previsioni si scontrano con quelle, molto meno fantasiose, che dicono che sempre nel 2100, ben 20 paesi (tra cui l’Italia e il Giappone) vedranno ridursi la popolazione del 50%, e sarà la loro fine, ma Greta non andrà al loro funerale. Si tratta dello stesso modello di terrorismo demografico usato da Malthus e più recentemente dal capostipite del neomalthusianesimo, Paul Erlich dell’Università di Stanford (colui che scrisse il famoso libro “ The population bomb” nel 1968), che previde centinaia di milioni di morti per fame in Asia -Cina, prima del 2000, grazie alla crescita della popolazione.
Come sta succedendo oggi per il Covid e vaccini, io non ho mai assistito ad un confronto pubblico ed adeguato tra sostenitori di tesi opposte sul tema natalità-ambiente. Anche io non riuscii mai ad ottenere un confronto con il grande prof. Giovanni Sartori sul tema natalità, che sembrava interessarlo molto anche se con visione opposta alla mia. Non son mai riuscito ad assistere neppure ad un confronto sull’analisi della evoluzione economica mondiale, innestata con il crollo nascite nel mondo occidentale dagli anni ’7O, che ci ha regalato questi ultimi 50anni che hanno cambiato il mondo intero. Forse perchè le cause sono state di ordine morale e di morale non si deve mai discutere?
Ma ancora, come possono illudersi i nostri governanti di sapere realizzare e proporre ai partner europei un Recovery Plan credibile e realizzabile, se non sono chiari quei “driver” di crescita economica che si fondano su matrimoni e nascite nella situazione attuale? Quali nuove utopie dobbiamo aspettarci?
Marco Tosatti
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