Il Presidente Z
L’avvenimento più epocale di tutti i tempi, un punto di svolta nella nostra storia che sarà ricordato in eterno, si è tenuto oggi davanti a tutta la nazione festante. Oggi si è celebrato l’insediamento del nostro sempre amatissimo Presidente Z, che ha ufficialmente inaugurato il Suo ottantaquattresimo mandato.
Sarebbe inutile cercare di descrivere l’entusiasmo delle folle acclamanti, il delirio del popolo unanime per questo evento politico così importante. Per ragioni di sicurezza, solo i fortunati e gloriosi soldati dell’esercito preposti alla Sua incolumità hanno fatto da pubblico. Ma, virtualmente, gli occhi della nazione oggi erano tutti rivolti a Lui, il nostro Grande Presidente che, contornato dal corteo di indiscusse e geniali menti che sono i suoi consiglieri e gli alti esponenti del Partito, ha preso possesso della poltrona che per nostra fortuna è Sua per diritto di elezione da tanti anni.
Sebbene anche questa volta sia mancata l’abituale raduno oceanico a causa della perdurante pandemia, ciononostante occhi e cuore dei nostri cittadini erano tutti con Lui, rivolti virtualmente verso quel suo cuore sì fermo, ma che simbolicamente non smette di battere per il suo popolo. E come potrebbe essere diversamente? Anche questa volta le elezioni hanno segnato il Suo nuovo massimo di popolarità, arrivando al 99,994% delle preferenze, in progresso dello 0,001 sul record precedente. Non dubitiamo che presto anche i pochi stolti e ribelli residui che non sono ancora convinti della Sua magnanimità e grandezza saranno convertiti, se non dai fatti, dai funzionari appositamente stanziati a tale scopo.
Attorniato dagli sposin* presidenziali, il nostro Grande Presidente Z si è quindi diretto al podio preparato per la Sua proclamazione. La fame di spettacolo del popolo era già stata saziata dai comici, poeti e cantanti presidenziali, ma era questo ciò che tutti attendevano. Come un’anima sola tutti i media hanno inneggiato a Colui che ha saputo portare la nostra nazione a traguardi mai neanche sfiorati. Il suo discorso è stato trasmesso in diretta su ogni piattaforma, e le sue parole risuonavano in ogni fortunata casa del nostro paese. Ha ricordato gli impegni presi per il suo mandato: per primo, la lotta ai cambiamenti climatici, che se non combattuti renderanno entro vent’anni il nostro pianeta inabitabile. Ciò comporta ancora una volta il bando di ogni tecnologia inquinante, ma i sacrifici sono necessari per il bene del”umanità. Avremo poi la legalizzazione del matrimonio con i piccoli roditori e le piante ornamentali, essenziale nell’ottica di quelle conquiste civili che formano il progresso di ogni nazione; la promessa di difendere la democrazia di cui la nostra bella nazione è esempio fulgido in tutto il mondo, con qualsiasi mezzo. Promessa che ha già dimostrato di sapere mantenere, e che gli è fruttata il Nobel per la Pace per centoquarantotto anni consecutivi. Sul fronte dell’emergenza virus che da tanto tempo ci costringe nelle nostre abitazioni e ci vieta gli assembramenti, se la distribuzione dei vaccini mensili ha subito un rallentamento, ha asserito, è colpa delle forze a lui ostili, di esseri immondi che saranno identificati, processati e giustiziati quanto prima. Nessuna tregua ai nemici della nazione che mirano a sopprimere la libertà con i loro pensieri violenti e sediziosi.
Sì, siamo felici che ancora una volta la nostra democrazia abbia funzionato e sia stato rieletto. A che serve vivere se non si è grandi come Lui? L’invidia di coloro che respirano non lo tocca, perché lui non dà solo la vita per noi, ma anche la morte. Lunga vita al Presidente Zombie!*
Pubblicato da Berlicche
https://berlicche.wordpress.com/2021/01/21/il-presidente-z/
IL SURREALE GIURAMENTO DI JOE BIDEN – Fulvio Grimaldi #Byoblu24
Byoblu ha incontrato Fulvio Grimaldi per commentare il varo della nuova amministrazione americana. Mentre il nuovo presidente USA prestava giuramento sulla scalinata di Capitol Hill, Donald Trump lasciava la Casa Bianca con un consenso più solido che mai e un’immagine rafforzata di baluardo contro l’establishment globalista: “ha subito una persecuzione che lo ha quasi reso un martire, e i martiri hanno assunto spesso, nel corso della storia, il peso di guide morali. Al contrario, il neo presidente Joe Biden è una figura scadente, con tutti gli scandali che coprono lui e la sua famiglia. La sua cerimonia di inaugurazione ha assunto i contorni di una restaurazione, paragonabile a quella del 1815, quando le grandi potenze europee si riunirono per ristabilire il loro dominio sui popoli”.
Nel frattempo, a parte pochissime eccezioni, la stampa mondiale saluta l’insediamento di Biden come un “ritorno alla democrazia”. Se si vanno però a leggere i curricula delle figure chiave della nuova amministrazione la percezione che se ne ricava è tutt’altro che rassicurante. Il nuovo segretario di Stato, Antony Blinken, è stato un vigoroso sostenitore delle “Primavere Arabe”, come riporta lo stesso Barack Obama nella sua autobiografia, ed è stato anche a favore dell’intervento militare americano contro Bashar al-Assad, che poi Obama si rifiutò di compiere. Janet Yellen, segretaria al tesoro, ha invece incassato 7 milioni di euro solo negli ultimi mesi, grazie ai suoi interventi alle convention delle principali banche e fondi speculativi del mondo.
“Pur con tutti i suoi difetti, Donald Trump si è messo di traverso rispetto all’agenda del Grande Reset e del Nuovo Ordine Mondiale. Assistiamo a una divisione che ormai spacca in due non solo gli Stati Uniti ma il mondo intero. Con le forze della globalizzazione che vogliono arrivare a una riconfigurazione della società, a una omologazione indiscriminata e una de-identificazione dell’essere umano, secondo i desiderata degli oligarchi di Davos, della Trilateral e di altri organismi oscuri”, conclude Grimaldi.
https://guarda.davvero.tv/GrimaldiBiden
“L’assalto al Campidoglio? Colpa di Putin”: l’attacco di Clinton e Pelosi
Non è bastato il Russiagate. Con l’inizio della presidenza Biden, torna lo spauracchio delle ingerenze russe nella politica americana. In un tweet, l’ex Segretario di Stato Hillary Clinton, spiegando di essere d’accordo con la Speaker della Camera Nancy Pelosi, ha sottolineato che “il Congresso ha bisogno di istituire un organo investigativo come la Commissione sull’11 settembre al fine di determinare i legami di Trump con Putin in modo da poter riparare i danni alla nostra sicurezza nazionale e impedire che un fantoccio occupi mai più la presidenza”. Clinton e Pelosi erano sedute accanto durante la trasmissione podcast di Hillary Clinton, quando quest’ultima ha suggerito l’istituzione di una commissione per valutare le ingerenze di Vladimir Putin nell’amministrazione Trump. “Mi piacerebbe vedere i suoi tabulati telefonici (di Donald Trump, ndr) per vedere se stava parlando con Putin il giorno in cui gli insorti hanno invaso il nostro Campidoglio”, ha detto Clinton, chiedendo a Pelosi: “Pensi che abbiamo bisogno di una commissione del tipo 9/11 per spiegare cosa è successo?”.
Il delirio di Clinton e Pelosi. “C’è Putin dietro l’insurrezione a Capitol Hill”
“Non so cosa abbia Putin su di lui politicamente, finanziariamente o personalmente – ha risposto Nancy Pelosi – ma quello che è successo la scorsa settimana è stato un regalo a Putin. Perché Putin vuole minare la democrazia nel nostro paese e in tutto il mondo” ha osservato la speaker della Camera. “Queste persone, a loro insaputa, sono burattini di Putin. Stavano facendo gli affari di Putin quando [hanno preso d’assalto il Campidoglio], istigati dal presidente degli Stati Uniti. Quindi sì, dovremmo istituire una commissione speciale”. Il giornalista Glenn Greenwlad, fondatore The Intercept, ha replicato spiegando che Nancy Pelosi e Hillary Clinton sono le ultime persone al mondo che possono parlare di disinformazione: “Ricordate quando Robert Mueller spese 18 mesi e milioni di dollari con una squadra di pubblici ministeri appresso e pieno potere di citare in giudizio, e poi chiuse le sue indagini dopo aver arrestato zero americani per cospirazione con la Russia? Facciamolo ancora! Qualunque cosa per distrarre da quanto sia marcio il neoliberismo”.
Il Russiagate non è bastato?
Con l’addio di Trump e l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden, i democratici riarmano la retorica della “disinformazione russa”. Sposando, come nel caso di Clinton e Pelosi, delle vere e proprie congetture e teorie complottiste senza uno straccio di prova. Una riedizione del Russiagate, indagine che si è conclusa, nell’aprile 2019, con un nulla di fatto. L’allora Attorney general William Barr spiegò all’epoca che il Procuratore speciale Robert Mueller non aveva trovato prove di coordinamento fra la campagna di Donald Trump e Mosca e che non c’erano prove sufficienti per incriminare Trump per intralcio alla giustizia. Il Russiagate è sempre stato lo strumento degli oppositori del presidente Trump per colpire la sua leadership. Un cappio da stringere introno alla Casa Bianca per evitare che il leader repubblicano potesse svolgere la sua politica in modo libero. L’indagine, cavalcata da Barack Obama e Hillary Clinton e da tutti quei rivali del leader repubblicano, si è rivelata un fiasco.
Ma ora che Donald Trumè è fuori dai giochi, torna l’incubo russo sulla politica americana. Anche se i democratici devono temere la controinchiesta condotta dal Procuratore speciale John Durham: perché se – come dimostrato – il Russiagate è una bufala allora qualcuno ha fatto in modo di fabbricare false prove contro il tycoon. Come illustrato qualche settimana fa su InsideOver, l’indagine sulle origini del Russiagate condotta dal Procuratore John Durham è tutt’altro che finita nel dimenticatoio e nelle prossime settimane potrebbero esserci degli importanti sviluppi. Sì, il presidente Usa Donald Trump e molti repubblicani avrebbero voluto che le conclusioni della sua inchiesta emergessero prima delle elezioni del novembre scorso. Poi ci si è messo di mezzo il Covid-19, che ha rallentato tutto, prima che lo stesso Trump concedesse la grazia a George Papadopoulos, nome che fa tremare le mura di Palazzo Chigi e riaccendesse i riflettori su una vicenda tutt’altro che chiusa. Nei giorni scorsi, l’amministrazione Trump ha deciso di declassificare documenti top secret inerenti il Russiagate. Come riportato da Fox News, il presidente della commissione giudiziaria del Senato, il repubblicano Lindsey Graham, ha divulgato una serie di documenti declassificati definendo l’indagine Crossfire Hurricane “una delle indagini più incompetenti e corrotte del storia dell’Fbi e del Dipartimento di Giustizia”.
Roberto Vivaldelli 21 GENNAIO 2021
Biden vuole un nuovo Patriot Act contro il “terrorismo domestico”
“La democrazia è fragile ma ha prevalso”, ha sottolineato il presidente eletto Jo Biden parlando sulla gradinata di Capitol Hill, a due settimane dall’assalto al Campidoglio da parte dei supporter di Donald Trump. “Pensavano di poterci cacciare da questo suolo sacro, non è successo, non succederà né oggi né domani né mai”, ha aggiunto. “Sconfiggeremo l’estremismo politico, il suprematismo bianco, il terrorismo domestico”. Negli Stati Uniti, la storia si ripete: con la scusa di proteggere la nazione dal “terrorismo” – un tempo era islamista, ora è “domestico” ed è incarnato dai suprematisti bianchi, Proud Boys e dai seguaci di Qanon – Washington è pronta a rimettere in discussione le libertà civili e individuali.
I dem vogliono punire gli estremisti pro-Trump con un giro di vite
Dopo i fatti del 6 gennaio scorso, i democratici, come la deputata Elissa Slotkin e lo stesso Joe Biden, hanno espresso la volontà di introdurre nuove leggi sul terrorismo domestico. “L’era post 11 settembre è finita. La più grande minaccia alla sicurezza nazionale in questo momento è la nostra divisione interna. La minaccia del terrorismo interno. La polarizzazione che minaccia la nostra democrazia. Se non ricolleghiamo le nostre due Americhe, le minacce non dovranno venire dall’esterno” ha twittato Elissa Slotkin. Ma non bisogna farsi ingannare dalle parole concilianti e dagli appelli all’unità: il giro di vite è pronto e i dem vogliono metterlo in atto.
Come riporta Politico, esperti di sicurezza nazionale sostengono che Biden potrebbe affrontare la minaccia del “terrorismo domestico” in tre modi: ordinare al Dipartimento di Giustizia, all’FBI e al Consiglio di Sicurezza Nazionale di dare priorità al “terrorismo domestico”; approvare una nuova legislazione; o fare entrambe le cose mentre i democratici insistono nel chiedere alle piattaforme social di punire i “discorsi di odio e violenza”. Alcuni democratici hanno detto a Politico che Joe Biden dovrebbe parlare apertamente di una minaccia suprematista bianca, cioè che ha fatto durante la cerimonia inaugurale. Alcuni ex funzionari della sicurezza nazionale sostengono che il Biden debba enfatizzare ulteriormente la questione, con un ufficio distinto dedicato alla minaccia del terrorismo domestico. Naturalmente, i democratici ignorano totalmente le violenze commesse nei mesi scorsi da Antifa, Black Lives Matter e dalle altre organizzazioni della sinistra radicale nelle “zone occupate” in molte città americane a seguito della morte di George Floyd. Altro che “unità”: i democratici vogliono punire tutti gli estremisti pro-Trump, dai seguaci di Qanon ai Proud Boys con un durissimo giro di vite. Che rischia però di minare le libertà civili e individuali fondamentali.
Joe Biden e il Patriot Act
Come nota Foreign Policy, all’indomani dell’11 settembre, definito il peggior fallimento dell’intelligence nella storia americana moderna, venne introdotto il controverso Usa Patriot Act (Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Interccept and Obstruct Terrorism), legge firmata dal presidente George W. Bush il 26 ottobre 2001. Il disegno di legge fu presentato alla Camera dei rappresentanti il 26 ottobre 2001.
Tra i tanti democratici (e quasi tutti i repubblicani) che hanno votato a favore c’era l’allora senatore Joe Biden, che all’epoca era il presidente della Commissione per le relazioni estere del Senato. Biden non solo votò a favore, ma lo sostenne con ardore al punto che si è preso più volte il merito di molte delle idee alla base del disegno di legge. Secondo l’American Civil Liberties Union, si trattava di un disegno di legge che “trasforma i normali cittadini in sospetti”. “Quasi 20 anni dopo – nota Foreign Policy – gli Stati Uniti stanno per commettere di nuovo lo stesso errore: sacrificare la libertà in cerca di protezione”.
Il giornalista Gleen Greenwald sottolinea come il Patriot Act – che “ha ampliato radicalmente i poteri di sorveglianza del governo” – è stato emanato in sole sei settimane l’attentato dell’11 settembre, sulla base della promessa che sarebbe stato temporaneo e “tramontato” in quattro anni. Come le guerre generate dall’11 settembre, “è ancora in pieno vigore, praticamente mai più dibattuto e prevedibilmente si è espanso ben oltre di come era originariamente raffigurato”. La prima Guerra al Terrore finì per essere esercitata principalmente su suolo straniero: questa nuova Guerra al Terrore rischia di scagliarsi contro gli stessi americani.
Roberto Vivaldelli 21 GENNAIO 2021
Trump ha ridato fiducia agli Usa: l'eredità che Biden non può ignorare
Qualsiasi cosa si possa pensare di Trump, solo chi è accecato da pregiudizi ideologici può negare che la presidenza Trump sia stata una tra le più significative nella storia americana del secondo dopoguerra. Ha rassicurato una società disorientata e impaurita limitando gli eccessi del “politicamente corretto” e la “dittatura delle minoranze”, difendendo la famiglia tradizionale e schierandosi su posizioni decisamente pro life.
Negli Stati Uniti è cominciata ufficialmente l'era Biden: o sarebbe meglio dire l'era Biden/Harris/Obama/Clinton, visto che si tratta della nuova fase di un blocco di potere progressista ben consolidato da decenni, del quale l'ex-vicepresidente costituisce l'estremo rappresentante, e la Harris una tra i presumibili eredi.
Inizia, soprattutto, l'era post-Trump, e gli Stati Uniti voltano pagina – o almeno ci provano – rispetto a una delle presidenze più conflittuali degli ultimi decenni. Ma voltano pagina molto relativamente, in quanto la transizione tra le due leadership avviene nel segno di una perdurante contrapposizione radicale tra "due Americhe" quale non si era vista da molto tempo: da un lato l'America delle due coste, delle grandi metropoli, delle élites hi tech e cosmopolite, dall'altro tutto il resto dell'Unione, piccola e media impresa, terziario, agricoltura, ceti popolari.
Donald Trump ha perso di misura un'elezione la cui campagna ha avuto toni accesissimi, e i cui risultati sono stati intorbidati dall'enorme pasticcio del voto postale. Ha commesso la fatale leggerezza di continuare a rivendicare la vittoria e a denunciare brogli anche oltre ogni sede di giudizio ufficiale, esasperando la tensione politica a tal punto che un manipolo di suoi sostenitori estremisti ha assaltato il Campidoglio. Ma quell'atto, certo non da lui invocato, è stato immediatamente usato dai suoi avversari come una clava per criminalizzarlo e per tentare di escludere lui e chi lo sostiene da ogni agibilità democratica: dando avvio ad un “bando” senza precedenti da parte dei maggiori social media, che già più volte lo avevano censurato, mostrando evidentemente di parteggiare contro di lui, e hanno letteralmente cancellato tanto lui quanto molti tra i suoi sostenitori, spingendosi addirittura fino ad impedire il funzionamento di altri social, come Parler, che gli consentivano invece ancora libertà di espressione.
Un ostracismo senza precedenti, che ha posto in rilievo brutalmente quanto le aziende “big Tech”, padrone della comunicazione digitale globalizzata in Occidente, costituiscano oggi un vero e proprio “cartello” corporativo dal punto di vista economico, per giunta compattamente schierato in politica da una parte sola, e assolutamente intollerante verso la parte avversa. E ha posto gli Stati Uniti – e il mondo occidentale – davanti alla prospettiva inquietante, già affacciatasi più volte negli ultimi anni, di un'evoluzione della dialettica politica verso regimi che della democrazia liberale conservano soltanto il nome, mentre di fatto vedono la trasformazione dell'informazione in propaganda a senso unico, e aboliscono il pluralismo delle opinioni in favore di verità ufficiali costituite da “veline” ideologizzate sostenute dal blocco socio-economico dominante.
Con queste premesse, non è verosimile che il livello di conflittualità politica accumulato negli Stati Uniti negli ultimi anni ritorni molto presto ad un livello di normalità, né che il mandato presidenziale di Trump sia frettolosamente archiviabile come una parentesi da dimenticare. La rabbia, la frustrazione, il senso di separazione e di abbandono di (almeno) metà del paese rispetto alle dinamiche della globalizzazione e ad un establishment ostile - le cui punte più estreme hanno provocato la tentata insurrezione di Capitol Hill - restano, e chiedono ancora risposte. Quei sentimenti, che per decenni hanno nutrito un'insofferenza sempre più estesa per la classe politica nel suo complesso, avevano trovato in Trump, outsider di lusso rispetto ai due grandi partiti, un portavoce efficace ed energico.
Ma, soprattutto, il magnate newyorchese ha saputo interpretare il suo mandato con intelligenza, inserendo le rivendicazioni anti-establishment dei suoi elettori nell'alveo di un aggiornamento ragionato della politica economica ed estera della tradizione politica repubblicana. Qualsiasi cosa si possa pensare di lui, solo chi è accecato da pregiudizi ideologici può negare che la presidenza Trump sia stata una tra le più significative nella storia americana del secondo dopoguerra.
Trump ha incarnato pienamente la reazione degli Stati Uniti alla curvatura “asiatica” della globalizzazione e alla crescente centralità economica e politica mondiale della Cina: combattendo energicamente la concorrenza sleale cinese con le barriere tariffarie, richiamando molti capitali americani in patria con accordi fiscali, dando un potente impulso alla crescita economica con una politica fiscale molto favorevole alle imprese. Ha dato ascolto alla pressante richiesta di sicurezza dei ceti meno economicamente avvantaggiati contrastando con forza l'immigrazione illegale, ma al contempo conquistandosi simpatie tra gli immigrati stabilizzati e tra le minoranze etniche che hanno beneficiato degli effetti positivi della ripresa, tanto da cambiare significativamente la geografia elettorale del Grand Old Party, non più percepito come espressione delle élites Wasp.
Ha rassicurato una società disorientata e impaurita limitando, per quanto la cultura egemone glielo ha concesso, gli eccessi del “politicamente corretto” e la “dittatura delle minoranze”, difendendo la famiglia tradizionale e schierandosi su posizioni decisamente pro life. Ha, infine, rimesso radicalmente in discussione la proiezione globalista e interventista della politica estera statunitense, avvalorandosi così come interlocutore più affidabile per molti governi non occidentali, e contribuendo in modo significativo alla stabilizzazione di alcuni contesti conflittuali, a partire da quello mediorientale.
Lascia irrisolto il problema generale della collocazione degli Stati Uniti nel mondo globalizzato segnato dalla coabitazione tra civiltà e dal pluralismo di potenza, ed in particolare il rapporto tra le due sponde dell'Atlantico, tra Stati Uniti e paesi dell'Asia-Pacifico, tra Stati Uniti e Russia. Ma lascia, comunque, un'America più sicura di sé e fiduciosa nel futuro di quanto avessero saputo costruire le presidenze di Bush jr. e di Obama.
Eugenio Capozzi
https://lanuovabq.it/it/trump-ha-ridato-fiducia-agli-usa-leredita-che-biden-non-puo-ignorare
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