L’anima, la politica e la chiesa (#Dante, Purgatorio, canto XVII, 97-114).
https://tieniinmanolaluce.files.wordpress.com/2017/05/download.jpeg?w=840 (immagine aggiunta)Fondata teologicamente l’affermazione della libertà dell’uomo, col racconto di come Dio ci fa (da padre, ed è per questo che ci vuole liberi), ed imperniata su questo concetto la responsabilità morale («se il mondo presente disvia, / in voi è la cagione, in voi si cheggia», vv. 82-83), il discorso di Marco Lombardo passa, senza alcuna soluzione di continuità, alla politica, com’è naturale in una concezione come quella dantesca che, a differenza della nostra, non la considera soltanto in funzione della polis, come il terreno di gestione degli interessi collettivi e di regolazione dei conflitti sociali, ma la vede come una dimensione essenziale per il bene spirituale della persona.
Questo legame tra il destino personale di ciascun individuo e l’ordinamento della città è una nozione fondamentale del pensiero dantesco, di cui noi abbiamo perso quasi completamente la memoria. L’uomo non può vivere bene, cioè in modo conforme al fine a cui è ordinata la sua esistenza, che è l’unione con Dio, in una società malgovernata. La cattiva politica, dunque, non danneggia soltanto l’assetto sociale, il benessere, l’efficienza dei servizi e la qualità delle relazioni collettive, come noi siamo portati a pensare: affligge l’anima, rendendo non impossibile ma certo più difficile vivere una vita buona.
È in questa prospettiva che si spiega il passaggio, che ci potrebbe altrimenti sembrare repentino e immotivato, dall’«anima semplicetta», che si inganna e va dietro al primo «picciol bene» di cui sente il sapore, al linguaggio non già della morale ma tout court della politica (il «rege […] che discernesse / de la vera cittade almen la torre», vv. 95-96). Dove il problema è subito posto, in termini squisitamente politici e non astrattamente giuridici, come problema del potere: «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?» (v. 97). Le sorprese non finiscono qui, perché in questa visione così compatta, dove mirabilmente tutto si tiene, Dante mette al centro non tanto l’imperatore, come ci aspetteremmo, quanto il ruolo della chiesa. Qual è infatti la causa principale della “cattiveria della politica”, cioè del cattivo esercizio del potere politico che contribuisce a rendere cattivi gli uomini (e di conseguenza, in un perverso circolo vizioso, a incattivire ulteriormente la politica)? «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? / Nullo, però che ‘l pastor che procede, / ragumar può, ma non ha l’unghie fesse» (vv. 97-99). Sembra un messaggio in codice, e in un certo senso lo è poiché usa deliberatamente un linguaggio da “addetti ai lavori”, indirizzato appositamente ai “professionisti del sacro”, al clero che sa (o dovrebbe sapere) a menadito la Scrittura: Il «pastor che procede» è ovviamente il papa, che sta davanti a tutti come guida che indica la strada; egli è sì in grado di «ragumar», cioè di ruminare la legge divina, ossia di meditare, comprendere e predicare la parola di Dio, ma poiché «non ha l’unghie fesse» degli animali ammessi dalle leggi alimentari dell’Antico Testamento, simbolicamente interpretate in esegesi allegorica come un riferimento al discernimento pratico richiesto dalla prassi politica, non spetta a lui governare.
Ecco dunque il punto di vista, sconcertante e diverso da quel che dicono tutti come sempre, con cui Dante ci chiede di confrontarci: la prima causa del disastro morale-politico per lui è una chiesa che ambisce a governare la società, quand’anche lo facesse con le migliori intenzioni (oggi sarebbero: promuovere la solidarietà, la giustizia sociale, l’ecologia eccetera eccetera). Perché? Perché «la gente, che sua guida vede / pur a quel ben fedire ond’ella è ghiotta, / di quel si pasce, e più oltre non chiede» (vv. 100-102). Parole che non commento neanche, tanto mi paiono definitive.
Come dovrebbero andare invece le cose, per andar meglio? «Soleva Roma, che ‘l buon mondo feo, / due soli aver, che l’una e l’altra strada / facean vedere, e del mondo e di Deo. // L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada / col pasturale, e l’un con l’altro insieme / per viva forza mal convien che vada; // però che, giunti, l’un l’altro non teme: / se non mi credi, pon mente a la spiga, / ch’ogn’erba si conosce per lo seme» (vv. 106-114). La faccenda dei due soli credono di conoscerla tutti, perché la si ripete da sempre in ogni aula di liceo, ma non sono sicuro che venga capita bene. La si prende infatti per una cosa molto medievale e quindi molto fuori uso. Invece, per come qui è spiegata (benissimo) è una cosa di perenne attualità. La chiesa non deve avere potere: quando ce l’ha finisce per usarlo male, perché la spada e il pastorale non si maneggiano insieme; ma il potere politico ha bisogno di avere la chiesa non come serva e nemmeno come alleata, bensì come forza critica, una sorta di permanente catechon che lo tiene a freno, lo richiama al suo limite, lo contesta, gli indica un orizzonte che lo trascende. Se sono uniti, la spada e il pastorale, l’un l’altro non teme e ne viene comunque un gran male.
Messa così, a me pare non solo attuale, ma urgente. La chiesa svolge oggi questa fondamentale funzione critica nei riguardi del potere mondano? Quanti pastorali si levano a trattenere le spade?
Posted by leonardolugaresi
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