ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 15 aprile 2021

Una Chiesa in uscita che non sa dove andare

La comunione dei beni dei primi credenti fallita, la cruna dell’ago e la banalità sociologica della (facile) condanna del denaro come lo “sterco del diavolo”


“Il denaro è lo sterco del diavolo” è un aforisma attribuito a San Basilio Magno (330-370). Di tanto in tanto, nel corso della storia, personaggi illustri lo ripropongono all’attenzione del popolo. Per citarne alcuni: lo ha fatto Dante nella sua “Divina Commedia”; Martin Lutero nelle sue opere; Papa Francesco all’Angelus domenicale del 22 settembre 2019 in Piazza San Pietro: «La “ricchezza disonesta” è il denaro – detto anche “sterco del diavolo” – e in generale i beni materiali». In questi giorni fanno discutere due frasi che Papa Francesco ha infilato nella sua omelia per la Santa Messa della Divina Misericordia, celebrata nella Chiesa di Santo Spirito in Sassia, la II Domenica di Pasqua (o della Divina Misericordia), l’11 aprile 2021: «Gli Atti degli Apostoli raccontano che “nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune” (4,32). Non è comunismo, è cristianesimo allo stato puro».

Riportiamo di seguito due interventi sul tema – per dire il vero – non nuovo all’Uomo che Veste di Bianco, nonché monarca assoluto dello Stato della Città del Vaticano e quindi proprietario di tutti gli ingenti beni dello Stato e della Santa Sede.

Il primo intervento del 12 aprile 2021 è tratto dal blog Stilum Curiae di Marco Tosatti a firma di Mons. Ics, che conclude: “Allora è semplice, Bergoglio vuole solo confondere e far considerare il Papato una istituzione da discreditare. Con una aggiunta riferita specificamente alla questione della proprietà. Vuole arrivare a sentirsi chiedere di cominciar lui a condividere i suoi beni (quelli della Chiesa, naturalmente), non vede l’ora che lo provochino su questo punto, per potere svendere tutto e chiudere bottega. Siamo agli ultimi giorni”.

Il secondo intervento di ieri, 14 aprile 2021 è tratto di Libero Quotidiano a firma di Antonio Socci, che conclude: “Parla più come un politico, con conoscenza superficiale dei problemi, che come un pastore d’anime. Questa è una Chiesa in uscita che non sa dove andare e non aiuta né le anime, né i corpi”.

Iniziamo con leggere cosa dice al riguardo dei “beni di questo mondo” il Nuovo Testamento. Vale la pena di ricordare che San Francesco di Assisi – di cui il Papa regnante ha preso il nome – in riferimento al “sterco del diavolo” affermò, che dobbiamo pregare per i nostri Signori [coloro che governano, i ricchi]: prima perché sono i nostri Signori; poi affinché si ravvedessero e usassero i loro beni per aiutare i poveri. Quindi, nel pensiero francescano, senza ridursi essi stessi in povertà e non essere più in grado di assistere i bisognosi.

1Giovanni 3,16-19
16 Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli. 17 Ma se qualcuno possiede dei beni di questo mondo e vede suo fratello nel bisogno e non ha pietà di lui, come potrebbe l’amore di Dio essere in lui? 18 Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e in verità. 19 Da questo conosceremo che siamo della verità e renderemo sicuri i nostri cuori davanti a lui.

Luca 12,33
33 Vendete i vostri beni, e dateli in elemosina; fatevi delle borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nel cielo, dove ladro non si avvicina e tignola non rode.

2Corinzi 8,13-15
13 Qui non si tratta infatti di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza. 14 Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: 15 Colui che raccolse molto non abbondò, e colui che raccolse poco non ebbe di meno.

2Corinzi 9,9
9 come sta scritto: ha largheggiato, ha dato ai poveri; la sua giustizia dura in eterno.

Atti degli Apostoli 2,44-47
44 Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; 45 vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. 46 E ogni giorno andavano assidui e concordi al tempio, rompevano il pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme, con gioia e semplicità di cuore, 47 lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che venivano salvati.

Atti degli Apostoli 4,32-37
32 La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. 33 Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. 34 Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto 35 e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno. 36 Così Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba, che significa «figlio dell’esortazione», un levita originario di Cipro, 37 che era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l’importo deponendolo ai piedi degli apostoli.

Poi, nei tre Vangeli sinottici (Mt19,16-30; Mc10,17-27: Lc18,18-30) è riportato l’incontro di Gesù con il giovane ricco. Tutti e tre i vangeli riportano che l’uomo era ricco ma solo il Vangelo di Matteo dice che era giovane, mentre il Vangelo di Luca riporta che era un notabile (quindi non un giovane) e il Vangelo di Marco non dice nulla in proposito, aggiungendo un ulteriore comandamento: “Non frodare”. Con questo episodio Gesù vuole sottolineare che non si entra nel Regno dei Cieli compiendo qualcosa e acquistando meriti personali, ma entrando in relazione con Dio attraverso lo stesso Gesù, cosa che porta a donarsi agli altri. Il giovane se ne va perché il suo cuore era prigioniero dei beni materiali e non ha il coraggio di staccarsene. La metafora della “cruna dell’ago” usata da Gesù vuole indicare l’impossibilità di entrare nel regno di Dio per chi è attaccato alla ricchezza. L’uomo cerca la sicurezza nelle proprie azioni e nei propri beni, mentre la logica di Dio è quella del dono gratuito. Se si segue Gesù e si vive per Dio non si perde nulla: chi vive mettendo generosamente la propria vita al servizio degli altri è spiritualmente ricco già in questo mondo.

Mons. Ics: Siamo agli Ultimi Giorni…Il Papa vuole chiudere bottega
di Marco Tosatti
Stilum Curiae, 12 aprile 2021


Mons. Ics – che continua a leggere Repubblica! e forse fa bene, perché così ci tiene informati… ci offre queste riflessioni su un paio di perle scovate proprio lì, e su Vatican News…

Caro Tosatti, vorrei evidenziare due fatti gravissimi, che probabilmente son passati inosservati o quasi.

Vorrei pregare i lettori di Stilum Curiae di leggere Repubblica di oggi Lunedi 12 aprile, pagina 17. “La sfida di Bergoglio al capitalismo – Condividere (la proprietà) è cristiano, non comunista”.

Farò due osservazioni: la prima osservazione è su quanto ha dichiarato in proposito il prof. Stefano Zamagni a Vatican News, riportato integralmente a fine articolo citato di Repubblica. La seconda è sul significato misterioso di questa osservazione del Papa. L’articolo è di Paolo Rodari, vaticanista di Repubblica.

– Prima osservazione.
Riprendo per intero la conclusione dell’articolo di Repubblica perché è a dir poco scandaloso e vergognoso quello che si legge: “Le parole del Papa, secondo quanto dichiarato dall’economista Stefano Zamagni a Vatican news, hanno un aggancio con la Costituzione italiana. Nell’articolo 43 si parla infatti di proprietà comune: <La proprietà privata non basta. Bisogna renderla compatibile con forme di proprietà pubblica ma, soprattutto, con forme di proprietà comune>”.

Riporto ora l’articolo 43 della Costituzione, copiato dal sito ufficiale dello Stato Italiano. Prego leggerlo con attenzione e confrontarlo con quanto scrive Zamagni:

COSTITUZIONE ITALIANA
Articolo 43
A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.

Stravolto completamente lo spirito dell’art.43 della Costituzione, ad uso menzognero e subdolo. Ma Zamagni non è il solito professorino “pierinesco” e supponente, è il Presidente della Pontificia Accademia delle scienze sociali, è colui che ha organizzato l’evento ad Assisi Economy of Francesco,è colui che lascia intendere di aver ispirato e scritto l’Enciclica Fratelli Tutti. Il valore reale di Zamagni lo si può dedurre nell’ utilizzo che fa dell’art. 43 della Costituzione. Ma è l’economista del Papa, cioè, di questo papa…

– Seconda osservazione.
L’ osservazione del Papa: “Condividere la proprietà è cristiano, non comunista”, non è confondente, è misteriosa e va interpretata nel contesto del pensiero di Bergoglio secondo la sua “morale di situazione” così tanto spesso affermata. Sarebbe una considerazione “comunista” se esprimesse odio verso chi ha proprietà, verso il capitalismo. Ma Bergoglio, mentre li maledice da una parte, dall’altra ci va a braccetto con i tycoon malthusiano-ambientalisti americani. Ci scrive le Encicliche, con i potenti miliardari americani malthusiano-ambientalisti.

Allora? Allora è semplice, Bergoglio vuole solo confondere e far considerare il Papato una istituzione da discreditare. Con una aggiunta riferita specificamente alla questione della proprietà. Vuole arrivare a sentirsi chiedere di cominciar lui a condividere i suoi beni (quelli della Chiesa, naturalmente), non vede l’ora che lo provochino su questo punto, per potere svendere tutto e chiudere bottega.

Siamo agli ultimi giorni, caro Tosatti…

MonsICS

Papa Francesco, Antonio Socci: l’ipocrisia del Pontefice sulla proprietà privata
di Antonio Socci
Libero, 14 aprile 2021


Papa Bergoglio è tornato a mettere in discussione la proprietà privata (che «non è intoccabile») e a parlare di comunismo. La prima lettura della messa di domenica gliene ha offerto l’occasione e lui ha commentato: «Gli Atti degli Apostoli raccontano che “nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune”. Non è comunismo, è cristianesimo allo stato puro». In effetti, condividere i propri beni non è affatto comunismo. Quando hanno preso il potere, i comunisti hanno condiviso i beni altrui, anzi hanno preteso di abolire la proprietà privata in nome della proprietà statale. Che poi è il dominio del Partito. Tuttavia è assai discutibile che quella pagina degli “Atti degli apostoli” sia “cristianesimo puro”. Inoltre usare quel passo per discettare di economia e di politica, come fa Bergoglio, è storicamente infondato. Repubblica considera le sue parole «una sfida al capitalismo» e Stefano Zamagni, presidente della Pontificia Accademia delle scienze sociali (cioè l’economista di Bergoglio), le connette all’articolo 43 della Costituzione. Tutto assurdo. Intanto perché gli Atti parlano di una scelta libera e volontaria dei fedeli, non di costrizione o legge. Inoltre è una comunità religiosa, non lo Stato: guai a sovrapporre le due cose. Lo fanno gli islamici con la Sharia, ma il Vangelo invita a distinguere fra Cesare e Dio.

DISSIDI E RISENTIMENTI

In secondo luogo, gli Atti dicono che «quanti possedevano campi o case li vendevano» e deponevano il ricavato «ai piedi degli apostoli» perché fosse distribuito. Quindi non c’era la “Chiesa povera” vagheggiata da Bergoglio, ma il contrario. E, com’è noto, quella redistribuzione dei beni produsse dissidi e risentimenti nella comunità cristiana: un esito moralmente fallimentare. Ma chi conosce il Nuovo Testamento sa che quell’esperimento di (presunto) “comunismo cristiano” fu anche un disastro economico (la Chiesa ha sempre evitato di imitarlo), come, in seguito, il comunismo ateo. Infatti, prima i cristiani di Antiochia (At 11,29) e poi san Paolo stesso (2 Cor) dovranno fare delle collette per quei fratelli “comunisti” che erano finiti in gravi difficoltà (Romani 15,26-27). La tanto decantata comunione dei beni di cui si vantava la comunità di Gerusalemme, dicendo che «nessuno tra loro era bisognoso» (At 4,34), era fallita.

Se «quanti possedevano campi o case», invece di venderli e donare il ricavato alla comunità per i poveri, li avessero messi a reddito, poi avrebbero potuto aiutare i bisognosi in modo continuativo e senza ridursi essi stessi in povertà. Questa è la lezione che i cristiani hanno imparato, per i secoli seguenti (non puoi distribuire ricchezza se non la produci). Ma il riferimento papale a quel passo degli Atti, per attaccare la proprietà privata, è anche controproducente. La Chiesa oggi ha un patrimonio immobiliare enorme. Il Mondo, anni fa, scriveva che «un quarto di Roma, a spanne, è della Curia». Donarlo e metterlo in comune non sarebbe sensato né giusto, perché la Chiesa ha le sue necessità. Tuttavia qualcuno – ascoltando le parole del papa – potrebbe anche chiedersi perché lui, che ha un potere totale, non applica le sue idee a queste proprietà. C’è chi ha scritto che Bergoglio «non vede l’ora che lo provochino su questo punto, per potere svende Nel 25 d.C. a Roma, alla presenza silenziosa dell’imperatore Tiberio, il Senato processa uno dei suoi membri, Aulo Cremuzio Cordo, accusato da due scherani del potentissimo prefetto del pretorio Seiano di lesa maestà.

Cioè, come ci racconta Tacito in due celebri capitoli del libro IV degli Annali, di un reato d’opinione: aver elogiato nella sua opera storica i cesaricidi Bruto e Cassio, gettando così un’ombra sinistra sul principato di Augusto e del suo successore. La sentenza, nonostante un’appassionata autodifesa dell’imputato, decreta la messa al rogo del testo, mentre l’autore, ormai anziano, si lascia morire di fame. Eppure, le fiamme non bastano a cancellare il ricordo della vicenda, anzi. Grazie a Caligola alcune copie dell’opera incriminata, miracolosamente salvatesi, tornano a circolare, pur se re tutto e chiudere bottega». Ne dubito. Del resto, oltre ai beni ecclesiastici, ci sono quelli personali. Di recente è apparso su Repubblica questo titolo: «Il sacco del Vaticano: “Svuotato anche il conto del Papa”». Sottotitolo: “Prelevati perfino 20 milioni di sterline dal deposito riservato di Francesco”.

Un vaticanista autorevole come Aldo Maria Valli ha scritto: «Mi occupo di Vaticano da anni, ma non avevo mai sentito parlare di conprive delle parti più pericolose, assieme agli scritti di due altri dissidenti, Tito Labieno e Cassio Severo. Fino a Svetonio, l’ultimo a citarle, le pagine dello storico dalla schiena dritta vengono insomma lette. Poi, il buio. Ma qualcosina si è salvato ancora. Quanto leggiamo nel volumetto Gli Annali. Testimonianze e frammenti (La Vita Felice, pp. 144, euro 11, con testo latino a fronte) curato da Mario Lentano. Il quale vi aggiunge anche due frammenti dubbi, tramandati da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia e concernenti temi mitologici, di certo non appartenenti agli Annali del nostro Cremuzio e probabilmente da attribuire a un omonimo, e altrimenti ignoto, autore di mirabilia mito-geografici ti riservati intestati ai papi». Oltretutto un conto di grande entità, sorprendente per un papa che parla sempre male del denaro e in un’omelia affermò: «San Pietro non aveva un conto in banca» (11 giugno 2013).

CONTO CORRENTE

Chi siamo noi per discutere del conto corrente del papa? Nessuno. Però è doveroso dibattere delle sue parole sulla proprietà privata altrui, perché questo è un tema che riguarda i nostri portafogli. Un’intellettuale laica come Barbara Spinelli, anni fa, metteva in guardia gli intellettuali e la Chiesa dalla (facile) condanna del denaro come sterco del demonio. E indicava come esempio positivo il card. Giuseppe Siri che era ben lungi dalla demonizzazione della proprietà e del denaro e dall’idealizzazione della povertà, sapendo che la miseria è una disgrazia, non un valore positivo. Scriveva la Spinelli: «Il cardinale Siri, che era un conservatore, coltivava una vicinanza ai poveri che spesso è coltivata dai veri conservatori. Usava ripetere il proverbio: Homo sine pecunia imago mortis… Anche queste antiche saggezze sono realistiche L’assenza di pecunia è assenza di cibo, di vita, di fede nell’altro. Gli accenni di Siri al denaro fanno pensare a una Chiesa che non si occupa solo dei primi nove mesi di vita e delle ultime ore dell’uomo, ma anche di quello che c’è in mezzo: un corto tragitto mortale, ma non sprezzabile».

Immagino che papa Bergoglio condividerebbe questa preoccupazione, ma il suo armamentario ideologico – opposto a quello di Siri – appare confuso e contraddittorio. È un pensiero populista e astruso. Lo dimostra anche uno degli astri nascenti del firmamento bergogliano, il vescovo di Siena Augusto Paolo Lojudice, appena creato cardinale perché – stando alle voci – è il nuovo candidato di Bergoglio alla presidenza della Cei quando, fra pochi mesi, il card. Bassetti passerà la mano (le quotazioni del card. Zuppi sarebbero in crollo verticale). Nei giorni scorsi Lojudice ha rilasciato una lunga intervista a Repubblica (edizione toscana) sulla crisi che viviamo a causa del Covid e in un’intera pagina – dove nomina papa Bergoglio – non parla mai, neanche una volta di sfuggita, di Dio, di Gesù Cristo, di preghiera o sacramenti, né di morte o vita eterna. Solo banalità sociologiche. Parla più come un politico, con conoscenza superficiale dei problemi, che come un pastore d’anime. Questa è una Chiesa in uscita che non sa dove andare e non aiuta né le anime, né i corpi.


15 Aprile 2021
   Blog dell'Editore

di Vik van Brantegem

http://www.korazym.org/59526/la-comunione-dei-beni-dei-primi-credenti-fallita-la-cruna-dellago-e-la-banalita-sociologica-della-facile-condanna-del-denaro-come-lo-sterco-del-diavolo/

“Non c’è nulla che porti al fallimento come il successo!”. Su Kwasniewski e la disputa tra Distributisti e Capitalisti. Di Trevisan

Il Blog Stilum Curiae di Marco Tosatti ha pubblicato un saggio di Peter Kwasniewski sulla disputa tra Distributisti e Capitalisti [vedi QUI]. Il tema interessa direttamente la Dottrina sociale della Chiesa e Fabio Trevisan riprende l’argomento e le valutazioni di Kwasniewski discutendole.

Sul Distributismo ricordiamo il nostro fascicolo monografico dal titolo: ATTUALITÀ DEL DISTRIBUTISMO: PROPRIETÀ, FAMIGLIA E CORPI INTERMEDI. Vedi QUI  l’indice. Il fascicolo può essere acquistato (euro 8 senza spese di spedizione) scrivendo a:  abbonamenti_acquisti@vanthuanobservatory.org

 

Peter Kwasniewski, esimio docente statunitense di Dottrina sociale della Chiesa, ha affrontato recentemente anche il tema del disaccordo tra distributisti e capitalisti, offrendo una serie di spunti di riflessione di estremo interesse . Per accostare in modo corretto quanto esposto da Kwasnieswski, ritengo opportuno evidenziare almeno due premesse necessarie: 1) il panorama statunitense, diverso da quello italiano, entro cui collocare il dibattito tra liberal-capitalismo e proposta distributista; 2) la peculiarità del sorgere del distributismo classico (in particolare le opere di Gilbert Keith Chesterton, Hilaire Belloc e Padre Vincent McNabb) in seno alla società industriale inglese di fine XIX secolo e di inizi ‘900 e la ricezione da parte dei cattolici inglesi dell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII del 1891. In Inghilterra e negli Stati Uniti si è accesa una grossa disputa, in quanto si sono riscontrati maggiormente i conflitti e le lacerazioni politiche, sociali, morali ed economiche determinati dal capitalismo e dall’ideologia liberal-illuministica di riferimento. Kwasnieswski cita autori contemporanei come Thomas Storck (dall’Osservatorio intervistato e pubblicato nel Bollettino Attualità del distributismo) e John Medaille, docente presso l’Università di Dallas e manager di grandi corporation e piccole aziende per più di 30 anni.

In particolare Medaille ha contrastato una delle accuse che il capitalismo ha sempre rivolto ai distributisti, ossia la mancanza di “scienza economica” e la conseguente caduta della proposta distributista nel regno dell’utopia e dell’astrattezza. Accuse rivolte fin dagli albori del distributismo, a cui Medaille ha efficacemente controbattuto, ribadendo come l’ordine economico proposto dal distributismo sia fondato sull’equità e sull’equilibrio, ponendosi come alternativa reale e pratica all’assenza di equità del capitalismo, che ha reso l’equilibrio impossibile e l’inefficienza inevitabile. Pertanto le origini del distributismo sono tutt’altro che campate in aria, ma affondano invece nella riscoperta delle radici dell’ordine economico, per renderlo operativo e applicabile anche alle situazioni nuove e reali. Contrastando il liberismo del laissez-faire come principio autoregolatore del mercato, Medaille ha evidenziato il differente modello economico che vede la famiglia protagonista, che aggiunge veramente ricchezza all’economia.

Medaille ha difeso il “capitale” dall’aggressione ideologica capitalistica, dimostrando come, ad esempio, un contadino che desideri avere un raccolto il prossimo anno, abbisogni di salvare qualcosa di quello che ha prodotto (il “capitale”). Questo sano concetto di “capitale” che proviene dal lavoro contrasta con il sistema dell’usura capitalistica moderna che è basato sulla ricchezza senza lavoro. Anche un sistema bancario, ha denunciato Medaille, che avvantaggi l’avarizia e perda la fonte originaria del lavoro umano, inverte l’ordine naturale producendo quei mostri finanziari che sovvertono a loro volta un proprio ordine, diventando padroni della produzione anziché aiuti all’economia reale.

Citando il volume di Hilaire Belloc: “La restaurazione della proprietà”, Medaille ha sottolineato gli errori che si possono compiere nel trasferire potere d’acquisto da un gruppo (pochi capitalisti) ad un altro (molti indigenti). Gli sbagli possono essere sintetizzati in tre punti: 1) la carità (soprattutto nella forma assistenzialistica); 2) la spesa statale; 3) il credito al consumatore (o usura).

Questi falsi rimedi alle disfunzioni del capitalismo hanno portato ad un’economia di plastica, basata su aperture di credito e sintetizzata dal proliferare delle carte di credito, costituendo un castello di carte instabile e fluttuante.

L’instabilità, appunto, e l’iniquità profonda del capitalismo sono sempre stati i bersagli critici da parte dei distributisti, sia quelli classici sia quelli contemporanei. La tutela della piccola proprietà largamente diffusa invitava alla responsabilità e all’assunzione di diritti e di doveri finalizzati al bene comune. Giustamente Kwasniewski ha difeso il sistema delle gilde e delle corporazioni medievali, a cui faceva riferimento il lamento accorato di Leone XIII nell’introduzione alla Rerum novarum o che, come Chesterton, mirabilmente esplicava nel manifesto distributista Il profilo della ragionevolezza del 1926: “Il principio dell’arco è umano, applicabile a tutta l’umanità e da essa utilizzabile. Lo stesso vale per la corretta distribuzione della proprietà privata. Qual è il principio dell’arco? Secondo il principio dell’arco, unendo in un certo modo delle pietre di forma particolare, la loro stessa tendenza a cadere impedirà che cadano. A sorreggere l’arco è l’uguaglianza della pressione che le singole pietre esercitano l’una sull’altra. L’uguaglianza è al tempo stesso mutuo soccorso e mutuo impedimento. Non è difficile dimostrare che in una società sana la pressione morale di diverse proprietà private agisce esattamente allo stesso modo”.

Quello che l’uomo moderno fatica oggi a capire delle corporazioni di arti e mestieri è il contesto cattolico, eucaristico e mariano menzionato da Kwasniewski, che in una cultura individualistica e liberal-capitalista diventa incomprensibile, tutt’al più da rinchiudersi in categorie denominate “astratte, cripto-socialiste o addirittura stataliste”. Pur non idealizzandole o vagheggiandole utopisticamente, le corporazioni medievali erano tuttavia rinvenibili all’interno di una società cristiana, come afferma Kwasnieswski: “Erano realtà genuinamente cattoliche, intrinsecamente sociali e di successo modesto…”. Quest’ultima considerazione mi ha fatto ricordare una delle frasi paradossali di Chesterton, che contrastava efficacemente il significato della competitività e del successo nel sistema capitalistico: “Non c’è nulla che porti al fallimento come il successo!”. I distributisti hanno da sempre visto e proclamato il fallimento del sistema liberal-capitalistico, così come quello social-comunista, come attestano queste parole di Chesterton molto attuali: “E all’ultimo minuto, quando il futuro sarà più cupo e più chiara apparirà la fine, la maggioranza degli uomini forse capirà d’un tratto in che vicolo cieco il vostro progresso li ha condotti”.

La parte finale delle riflessioni di Kwasniewski, che riguarda l’opposizione tra l’Amore di Dio e l’amore del mondo, lo spirito di possessività, fino alla proposta di un esame di coscienza fondato sull’elaborazione della prima delle Beatitudini annunciate da Nostro Signore: “Beati i poveri in spirito: perché di essi è il regno dei cieli”, si può collegare alla missione evangelico-distributista di Padre McNabb, frate domenicano, padre spirituale degli stessi Belloc e Chesterton. Come Kwasnieswski ha elaborato otto suggerimenti, alla stregua delle otto beatitudini di Cristo, così Padre McNabb ha enunciato nel suo La Chiesa e la terra del 1925 il Credo distributista cristiano. Kwasnieswki ha citato il Card. Ratzinger, che ne Il sale della terra scriveva: “Noi cristiani dovremmo sforzarci di uscire da questo mondo sovra-arredato e stipato per raggiungere una autentica e vigile libertà interiore”. Il distacco dalla possessività dei beni materiali comporta non solo una critica alla società opulenta e consumistica, ma un ordinare lo spirito ai beni interiori e spirituali, alla presenza di Dio anche sociale: “Il nostro sforzo dev’essere, costantemente, quello di non addomesticarci, e possiamo far ciò rendendo più semplice l’ambiente che ci circonda, stando sempre attenti a evitare l’accumulo di beni e comfort eccessivi”. Allo stesso modo, circa un secolo precedente, Padre McNabb scriveva nel suo Credo: “Credo che nel nostro mondo economico “il desiderio di denaro è la radice di ogni male” e che la vita umana, essendo un dono divino, non è adeguatamente ripagata da nessun dividendo umano, ma solo dalla retribuzione divina”. Si può rimanere perplessi sulle indicazioni etico-spirituali rilanciate da Kwasnieswski sulla scia di Padre McNabb, ma esse hanno a che fare, volenti o nolenti, con la proposta distributista, laddove entra in gioco la “povertà in spirito”. Kwasnieswski annuncia questo pensiero distributista profondamente cristiano chiamandolo “incarnazionalismo economico” o “economia dell’Incarnazione”. Riguardo a questo sano realismo cristiano che si può rilevare nella proposta distributista, così scriveva Chesterton nel saggio Ciò che non va nel mondo del 1910: “Ogni anima umana deve compiere quel gigantesco atto di umiltà che è l’Incarnazione. Ogni uomo deve farsi carne per incontrare i suoi simili…nessun uomo deve essere superiore a ciò che gli uomini hanno in comune. Non soltanto siamo tutti nella stessa barca, ma abbiamo tutti il mal di mare”. Nel distributismo quindi sono inseparabili i diversi aspetti della vita dell’uomo e della società, siano essi morali, economici, spirituali. Entrano in gioco le virtù, i beni naturali e soprannaturali, i dogmi (quello del peccato originale adombrato nel abbiamo tutti il mal di mare), il realismo dell’Incarnazione. La proposta distributista riguarda ancora la proprietà e il suo corretto uso, la famiglia e il bene comune. Si tratta di una visione organica, equilibrata e armonica, la cui origine rimane cattolica, centrata sull’insegnamento della Dottrina sociale della Chiesa, che Kwanieswski ha ribadito.

Fabio Trevisan

https://www.vanthuanobservatory.org/non-ce-nulla-che-porti-al-fallimento-come-il-successo-su-kwasniewski-e-la-disputa-tra-distributisti-e-capitalisti-di-trevisan/

MADOFF E IL LAVORO DI DIO

    Quelli che fanno il lavoro di Dio. Creo il denaro e quindi faccio il lavoro di Dio? La fine di Madoff è l’occasione per una riflessione su alcuni aspetti della finanza e sui suoi protagonisti, quelli che “fanno il lavoro di Dio”                                                   di Roberto Pecchioli  

 

0 miliardari 970

  

E’ morto in carcere Bernie Madoff, il finanziere truffatore che causò perdite per almeno 65 miliardi di dollari a migliaia di investitori di ogni paese. Tra loro attori, stelle dello spettacolo e non poche entità caritatevoli, anche appartenenti alla comunità ebraica di cui era membro lo stesso Madoff. Fondatore del mercato azionario Nasdaq, offriva rendimenti eccezionali: un vero e proprio mago. Il trucco, non nuovo, una variante del vecchio schema Ponzi, aggiornata al tempo dei derivati e dei “prodotti finanziari”, consisteva nel pagare gli elevati interessi ai vecchi investitori con il denaro fresco dei nuovi. Per anni, le “autorità finanziarie” e gli organi di controllo non videro o finsero di non vedere, quindi il castello di carte crollò nel 2006 in coincidenza con l’inizio della crisi che travolse poi Lehman Brothers.

La fine di Madoff è l’occasione per una riflessione su alcuni aspetti della finanza e sui suoi protagonisti, quelli che “fanno il lavoro di Dio”. Così disse di se stesso un banchiere di primo piano, già presidente della banca di investimenti Goldman Sachs (la stessa in cui hanno lavorato Mario Draghi e Romano Prodi), Lloyd Biankfein. Creo il denaro, affermò, quindi faccio il lavoro di Dio. Il potente finanziere non aveva tutti i torti, tipico esponente di una casta liberal e libertaria sui temi etici, ultra conservatrice quando si tratta del portafogli.

Anche Mario Draghi ha fatto per anni il lavoro di Dio: ha creato denaro dal nulla con il quantitative easing, ovvero il clic sui server delle istituzioni bancarie con cui si creavano grandi quantità di euro inesistenti. Attraverso questa operazione, Mandrake ha salvato l’euro, o meglio il sistema bancario sottostante. L’ex allievo dei gesuiti e il suo omologo americano Ben Bernanke ricevono plauso e gloria. Passano per salvatori: cambiano i tempi.

Il loro precursore più noto non ebbe la medesima fortuna. Si chiamava John Law, era scozzese e nacque verso la fine del XVII secolo, al tempo della “gloriosa rivoluzione “inglese, la grande vittoria politica dei signori del denaro, una delle cui conseguenze fu la nascita della Banca d’Inghilterra, geniale invenzione di un altro scozzese, il banchiere William Paterson. La casa di Orange, vincitrice della guerra civile, era indebitata fino al collo. Paterson si offrì di comprare il debito reale di 700.000 sterline oro, richiedendo il diritto di emettere biglietti a corso legale, non più semplici lettere di credito, con l’effigie del sovrano e la dicitura Banca d’Inghilterra, per 1.200.000 sterline (notes of bank). Quel giorno nacque l’economia del debito in cui siamo oggi immersi, e si cominciarono a creare i presupposti per il predominio della finanza sull’economia, cioè sulla produzione di beni e servizi reali.     

Paterson è passato alla storia come un genio, e lo stesso sta accadendo con Draghi, Bernanke e gli altri creatori di moneta fiat, dal nulla. Law resta un truffatore. Qual è la differenza? John Law fu un personaggio da romanzi d’avventura. Figlio di un banchiere, giocatore incallito, di grande attrattiva fisica, uccise in duello il marito della sua amante. Dovette fuggire ad Amsterdam, allora capitale dell'innovazione economica, la prima piazza finanziaria “globale”. Già da un secolo la città olandese conosceva le “società per azioni a responsabilità limitata”, inventate affinché i mercanti potessero finanziare - senza rinunciare alla gestione – l’armamento e l’equipaggiamento delle navi destinate ai lunghi e pericolosi viaggi verso le Indie. Le spese erano enormi e il rischio immenso. Ricordiamo Il Mercante di Venezia, Antonio, il cui patrimonio è interamente investito nei viaggi marittimi e la scommessa con Shylock.

Con quello che imparò ad Amsterdam (perché limitare il numero di azioni in vendita, perché non creare una banca pubblica che emette i soldi necessari?) John Law passò in Francia dove divenne il dominus del regno. La Francia era stata lasciata in pessime condizioni finanziarie da Luigi XIV, il Re Sole. Le idee di John Law cambiarono il corso della storia economica e finanziaria, ma fecero di lui un latitante fuggitivo che finì i suoi giorni a Venezia. Sulla sua tomba si legge: “In onore e memoria di John Law di Edimburgo, il più illustre tesoriere dei re di Francia”.

Perché fu un personaggio così controverso? In un suo scritto, Moneta e commercio; una proposta per provvedere di denaro la nazione, anticipava una delle idee più discusse nell'intera storia del pensiero economico: la convenienza di aumentare la circolazione monetaria per stimolare l'attività economica. La sua fama è legata alla prima grande bolla finanziaria della storia. Nel soggiorno olandese, dovette certo conoscere di prima mano i risvolti della “tulipomania”, l’incredibile vicenda del prezzo dei tulipani nella prima parte del secolo XVII. La coltivazione iniziò pochi anni prima e scatenò una sconcertante gara per assicurarsi i preziosi fiori. Il prezzo aumentava costantemente, si cominciò a scommettere sul prezzo di bulbi non ancora piantati, i futures su tulipani inesistenti… Nacque persino una “finanza ombra”, quella che oggi chiameremmo “over –the-counter”, al di fuori dei normali canali: anche le taverne erano luoghi di scambio di diritti sui tulipani, con tanto di commissioni e vendite allo scoperto. Quando i commercianti di tulipani cominciarono a vendere, il gioco si scoprì e si diffuse il panico. A migliaia andarono in rovina e i tribunali considerarono i contratti alla stregua del gioco d’azzardo: obbligazioni non esigibili attraverso la legge.

Non è molto diversa la realtà presente, se non l’estensione globale dei fenomeni e la loro rapidità fulminea. Forte delle esperienze olandesi e della conoscenza dei meccanismi bancari britannici, John Law fu il teorico e precursore della moneta fiduciaria in forma cartacea, basata cioè sulla fiducia nei confronti del portatore –emittente, dematerializzata rispetto al valore intrinseco delle monete in metallo prezioso. La cosa normale al tempo era pagare con monete d'oro o d'argento, gioielli o titoli di proprietà, che, secondo lui, rallentavano gli scambi commerciali. In Francia, la Corona e i sudditi erano così indebitati e privi di metalli preziosi che non si coniavano monete e il capitale era immobilizzato. La conseguenza era una grave deflazione che paralizzava la nazione intera. Occorreva far muovere il denaro. Con questi argomenti, Law convinse il reggente del trono di Francia, Filippo di Orléans spinto dalla necessità di alleggerire il peso del debito pubblico - che lo autorizzò nel 1716 ad attivare una banca privata, emettitrice di biglietti (banconote) convertibili al portatore. La lezione di Paterson era stata bene appresa da un altro scozzese.

Nominato direttore generale delle finanze, Law controllava il flusso delle imposte di tutta la Francia, il debito pubblico, l’emissione di denaro e la Compagnia delle Indie, potentissimo strumento politico –finanziario dell’epoca coloniale, fondata nel 1717 per sfruttare attività come il commercio con la Louisiana- colonia americana della Francia -, la riscossione delle tasse reali e il conio della moneta. Law ridusse il debito pubblico pagando i creditori della monarchia con azioni della Compagnia e della banca, nazionalizzata nel 1718 e trasformata in Banca della Corona.

Law divenne ministro delle finanze, legando la politica monetaria francese al corso delle azioni di una grande impresa. La Compagnia delle Indie a sua volta controllava in regime di monopolio l’importazione di tabacco, il commercio con Africa, Asia e Louisiana Fiducioso nel successo continuo di un sistema di cui apparentemente controllava tutto, Law- che sulle orme del Re Sole (“lo Stato sono io”) affermava orgogliosamente “l’economia sono io “– aumentò la circolazione dei biglietti molto al di là di quanto permettessero le risorse reali della banca. Sino ad allora, si intendevano per denaro le monete d’oro e d’argento. La grande innovazione di Law fu far circolare banconote il cui valore era fiduciario, ossia risiedeva nella loro convertibilità in moneta metallica. Poiché il portatore poteva recarsi in banca e pretendere la conversione in oro o in argento della somma scritta sulla banconota, emettere fogli di carta senza la riserva in metalli preziosi era una truffa. Questo nel XVIII secolo: oggi siamo abituati a considerare il denaro – nella prevalente forma di moneta bancaria virtuale-  un atto di fede nell’emittente, una banca privata dietro la quale ci hanno abituato a credere ci sia uno Stato, o un’unione di Stati nel caso dell’euro.

Nella Francia di John Law un’attiva propaganda e voci fantasiose sulla ricchezza della Louisiana fecero salire alle stelle il prezzo delle azioni della Compagnia in mezzo a una diffusa febbre speculativa. Quanto più salivano, tanto più ci si precipitava ad acquistarle. Quando le azioni della Compagnia iniziarono ad essere vendute a dieci volte il loro valore di emissione, Law fece emettere tre nuove serie, inaugurando gli aumenti di capitale. Nel novembre 1719, le azioni venivano scambiate a 36 volte il loro valore di emissione. Folle di investitori, speculatori e intermediari si precipitavano a Parigi, tanto che si vendevano con largo anticipo i posti delle carrozze destinate alla capitale. Non è nemmeno il caso di evidenziare le straordinarie similitudini con l’attualità, ma le coincidenze non finiscono qui. 

I problemi nacquero, come accade con lo schema Ponzi (o Madoff…) dall'assurda generosità del dividendo. Quando fu pagato alla fine del 1719, molti azionisti pretesero di incassarlo in oro anziché in banconote o azioni. Affinché ciò non accadesse –non esistevano sufficienti riserve- all'inizio del 1720 venne limitata la quantità di oro e gioielli che si potevano detenere privatamente. Il messaggio fu controproducente: tutti compresero che se l'accumulo di oro e gioielli era proibito, era perché la ricchezza stava nel possederli. A ciò si aggiunse che l’intera operazione era basata sulla presunta enorme fertilità delle terre della Louisiana, ma bastò il ritorno di alcuni emigranti per scoprire che era una terra di stagni e paludi ed iniziasse un'acuta crisi di fiducia.

Per evitare che il castello di carte crollasse, John Law decise di fondere la Compagnia e la banca. Gli azionisti avevano il diritto di scambiare le loro azioni con biglietti, a un prezzo ancora notevole. Per riscattare le azioni, dovette emettere (senza alcun “sottostante”, diremmo oggi) una quantità di banconote tale da raddoppiare l'offerta di moneta. La conseguenza fu che l'inflazione si impennò nel mese nel gennaio 1720 e il prezzo delle azioni precipitò, mentre sempre più persone chiedevano alla banca di convertire le loro banconote in oro e argento. La carta moneta e le azioni, che solo pochi giorni prima tutti volevano possedere, furono apertamente rifiutate. Per calmare le acque, il reggente Filippo annunciò che erano state scoperte miniere d'oro in America e fece sfilare a Parigi seimila vagabondi vestiti da minatori. Con questo stratagemma truffaldino guadagnò tempo, riuscì a piazzare alcune azioni della Compagnia delle Indie e a stampare altra cartamoneta.

Si formarono file interminabili agli sportelli per scambiare biglietti e azioni in moneta sonante, senza successo. Il 17 luglio 1720 ci fu un grande tumulto con almeno quindici vittime. Fu la prima grande bolla di borsa e fu accompagnata da una forte crisi finanziaria. Il disastro ebbe un alto costo sociale. Gli investitori chiesero senza successo il rimborso delle azioni. Ancora peggio andò ai salariati, lasciati alla fame in quanto pagati in “bollette”, carta straccia emessa da una banca insolvente. Law dovette fuggire e la Francia tornò alla bancarotta in cui l'aveva lasciata Luigi XIVaggravata dalla rovina di molti risparmiatori privati. Tuttavia, c’è anche chi difende John Law, come lo scrittore e sceneggiatore svizzero Claude Cueni. “Il problema è sorto dall’impossibilità di frenare i nobili e i ricchi. Obbligarono a emettere carta per finanziare le loro stravaganze “. C’è del vero: la truffa si sostiene sempre sulla cupidigia del truffato, sul desiderio di facile ricchezza. I banchieri fanno il lavoro di Dio perché conoscono assai bene gli uomini e le loro debolezze.

Simbolo del momento di auge del sistema Law fu l’acquisto, da parte di Filippo d’Orlèans, del più grande diamante del mondo, un gioiello di centoquaranta carati, esposto al museo del Louvre, testimone muto di quell’epoca di spreco, euforia e follia. Forse a qualcuno ricorderà gli aiuti – reali o virtuali – dell’UE, utilizzati dai governi per comprare voti presso le loro clientele economiche e politiche, con la conseguenza di ulteriore indebitamento.

John Law sopravvisse nove anni al disastro. Quando arrivò la notizia della sua morte, una gazzetta gli dedicò questo strano epitaffio: “è morto un celebre scozzese, un calcolatore senza eguale, che con le regole dell’algebra portò la Francia all’ospedale “. Il suo sistema, che funzionò in gran parte per l’ambizione diffusa di facili guadagni speculativi, seminò nell’opinione pubblica francese una duratura sfiducia verso la carta moneta, le banche centrali e i meccanismi della finanza. Alcuni sostengono che quell’esperienza- e la povertà che determinò-  sia tra le cause degli avvenimenti e delle idee che portarono alla Rivoluzione del 1789.

Noi pensiamo alle formidabili coincidenze con il presente e il passato prossimo. Alan Greenspan, presidente per quasi vent’anni della Federal Reserve, la banca centrale americana, uno che ha fatto a lungo il lavoro di Dio, sostenne sempre l’importanza di una borsa rialzista (il mitico “toro”) per l’andamento dell’economia, facendo prevalere di fatto il virtuale sul reale. Le stesse banche centrali – Draghi e la sua creazione pressoché illimitata di moneta “whatever it takes”, ovvero costi quel che costi - hanno collaborato a creare bolle. Nel sistema del debito sovrano, la solvibilità degli Stati è legata a quella delle maggiori banche, da cui l’espressione “troppo grandi per fallire”, giustificazione per il salvataggio della finanza privata con denaro pubblico.

Intanto, la concentrazione finanziaria in pochi colossi prosegue. In fondo, la politica delle banche centrali nel secolo XXI non è troppo diversa da quella dello scaltro scozzese di tre secoli fa. Si emette, anzi si crea moneta senza alcun “sottostante” con le stesse giustificazioni di allora (evitare la deflazione, alimentare la circolazione del denaro e simili). Draghi e Bernanke sono gli eroi del nostro tempo. Perché John Law era un truffatore?  Perché, visto da una prospettiva storica, il sistema da lui creato non è sostenibile e invece confidiamo in quello attuale? Per quanto tempo ancora i banchieri e i finanzieri continueranno a fare “il lavoro di Dio?” 

 

Quelli che fanno il lavoro di Dio  

di Roberto Pecchioli

  

Del 15 Aprile 2021

 

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