La Patria finisce. Ecco quel che resta
Il titolo di questi pensieri in libertà prende spunto da un’opera che Prezzolini scrisse nel 1948 per spiegare agli americani perché questa nostra terra di Poeti, Santi, Eroi, Navigatori & Affini era quel che era: L’Italia finisce, ecco quel che resta. Come aveva intuito a suo tempo Totò, restavano solo gli Affini, che d’altra parte nella storia italica hanno sempre avuto magna parte: nel senso della vastità del fenomeno e nel senso della voracità degli appetiti.
Caduto il fascismo, secondo la limpida lezione di Prezzolini, il Belpaese si mostrava finalmente per quel covo si cialtroni che era sempre stato, fin dalle prima luci del risorgimento e da molto prima ancora. Ma la catastrofe di una guerra mondiale persa pur tentando di passare per vincitori dava alla questione almeno un’allure da grande scenario su cui versare una lacrima prima di prendere impietosamente in considerazione quel che rimaneva.
Oggi che finisce anche l’idea di Patria, non si riesce neppure a provare un fugace fremito di grandezza nel narrarne l’epilogo. Altri tramonti, altri tempi, altre patrie, che risulta difficile scrivere con “P” maiuscola. E non solo in Italia, ma in tutto questo occidente fetido e maleolente che ha volentieri assunto come missione quella di ingannare e fagocitare i suoi figli, chiamati opportunamente cittadini: robaccia buona in qualsiasi angolo del mondo, gentaglia uguale ovunque, in ogni momento del giorno e della notte, senza ieri e senza domani, rimpinzata degli stessi desideri e svuotati degli stessi principi.
Ma nel tramonto dell’occidente, lucidamente profetizzato da Spengler, l’Italia ha qualcosa da insegnare alle altre genti. Prima di tutti e con retorica ineguagliabile, gli italioti hanno fatto degli Affini tanto cari al Principe della risata i nuovi Eroi, i nuovi Santi, i nuovi Poeti e i nuovi Navigatori. Nessun genio è abile come quello italico in simili operazioni e per questo i pedatori Azzurri, una rappresentativa di uno stato repubblicano che gioca con i colori della vecchia monarchia battuta in un referendum dal dubbio svolgimento, dovevano senza fallo vincere gli europei di calcio. Nessun genio è capace come quello italico di trasformare in epica la cronaca di un torneo di calcio che del calcio, quello vero, non sa più che farsene. E per questo gli Azzurri, una rappresentativa di uno stato repubblicano che gioca con i colori della vecchia monarchia battuta in un referendum dal dubbio svolgimento, dovranno vincere anche i mondiali del prossimo anno.
Non c’è nulla di più funzionale al globalismo senza volto e senza cuore del fregolismo italiota capace di trasformare in Patria, con una finta “P” maiuscola, tutto quanto è gradito al potere. Nel tricolore si può avvolgere di tutto e ci si possono avvolgere tutti, persino il capo di coloro che un tempo gli davano fuoco e poi lo spegnevano pisciandoci sopra.
Ma i conti della serva tipici della politica sono ancora niente. Certi eventi vanno valutati al netto dei discorsi di bottega dei capipartito che tentano di diversificarsi attingendo tutti alla stessa fonte, viva l’Italia e così sia. E neppure bisogna mettere conto di stupirsi davanti alla calata in campo delle cariche istituzionali. Tutto fa brodo per tenere su la baracca, compresa la celebrazione del tennista Matteo Berttettini, portato sugli scudi per aver perso la finale di Wimbledon: segno che l’italico istinto di celebrare le sconfitte non passa mai di moda e, anzi, piace molto a chi ama i servi e il servilismo. Da notare, inoltre, che pochissimi hanno eccepito sul particolare, forse non così insignificante, che il signor Berrettini Matteo, celebrato in veste di sconfitto al Quirinale con tutti gli onori del caso, si guarda bene dal pagare le tasse in Italia e lo fa a Montecarlo, dove qualche eurino riesce a risparmiarlo. Ma che cosa conta? Quando è comparso in tribuna Wembley nel secondo tempo di Inghilterra-Italia, il presidente Mattarella gli è andato incontro come se avesse visto Scipione l’Africano di ritorno da Zama.
Eppure, questa è tutta robetta che dietro le quinte della baracca da burattini globalista conta poco o niente. Un evento come gli europei di calcio può rendere molto di più al mercato del pensiero unico. Intanto serve, come insegnano telecronisti e commentatori, ad “abbattere le barriere”. Sembrerebbe strano per un torneo sportivo nel quale scendono in campo rappresentative nazionali di cui vengono persino eseguiti gli inni e dove, alla fine, una nazione ha la meglio su un’altra, come in guerra. Sembrerebbe strano, ma non lo è. Perché le barriere nazionali vere, i confini tra ciò che una volta erano le Patrie, sono ormai poveri simulacri di qualcosa che non esiste più.
Non è un caso se, da quando è in atto l’assalto finale al principio di identità dei popoli e al diritto di praticarlo, si è predicato che le manifestazioni sportive sono palestre di tolleranza, luoghi franchi in cui colore della pelle, razza, religione non hanno valore perché tutti sono uguali e sono la stessa cosa. Ma questa era solo la premessa maggiore di un perverso sillogismo, la cui minore asserisce che pure le diversità sessuali sono prive di qualsiasi significato e per nulla portatrici di differenze. Da cui si conclude, più o meno maldestramente, che lo sport deve ora essere veicolo della diffusione di omosessualismo e genderismo. Ecco così i campionati europei di calcio colorati si arcobaleno dentro e fuori gli stadi, con tanto di arcobalenazione di edifici pubblici e relativa messa al bando dei cattivi ungheresi, rei di avere approvato una legge per nulla gradita alla mente Lgbt e non so cos’altro ancora che governa questo brutto mondo.
Da dentro l’evento, salvo le solite lodevoli eccezioni maturate nei paesi dell’Est, non è uscita una voce almeno timidamente dissidente che fosse una. Niente. Tutti i soldatini in campo si sono comportati allo stesso modo, come fossero di un solo esercito. Per quello che molti continuano a chiamare Occidente con una finta “O” maiuscola quando invece non è più nulla, tutto è compiuto. Il vigile occhio globale consente ancora di mantenere i confini nazionali da esibire nelle parate in cui si esibiscono i fucili a turacciolo, ma niente di più. Nella realtà vera, tutti devono essere uguali, ciascuno deve essere sponsorizzato dalle stesse agenzie di pensiero e ognuno deve essere testimonial degli stessi valori.
Non si gioca “nell’Italia”, ma “per l’Italia”. E non chiesto di farlo perché si è italiani per destino o, per clemente concessione, perché si è nati in questa terra, basta soltanto un abile incastro di cambiamenti di cittadinanza e di variazione di tesseramenti. Non a caso, l’apprezzamento più sostanziale con cui è stato gratificato il ct Azzurro Roberto Mancini è stato il riconoscimento di aver fatto della nazionale italiana una squadra di club: in altre parole, un banda di mercenari disposti a cambiare divisa a suon di milioni di euro. D’altra parte, le Patrie, le nazioni, non esistono più e quindi non esistono più neppure le nazionali che avevamo amato e tifato fino a qualche annetto fa. E viene da piangere pensando a quei ragazzi che hanno festeggiato la vittoria agli europei perché credono ancora nel calcio e, anche inconsapevolmente, pensano che la Patria sia la terra dei loro padri.
Soprattutto a beneficio di questi innocenti, giunti qui, è necessario aprire il pessimo capitolo Donnarumma, simbolo perfetto della decadenza del calcio, dei suoi principi e dei suoi valori. Confesso che questo ragazzotto mi sta sui cosiddetti da quando l’ho visto la prima volta in campo, e non perché giocasse nel Milan mentre io sono interista fino nel midollo. Aveva solo 16 anni quando esordì in serie A e divenne subito un intoccabile, un Predestinato, con la “P” maiuscola, come ci hanno spiegato e ancora ci spiegheranno nei giorni a venire. Donnarumma è sempre qualcosa di diverso dagli altri calciatori, tanto che è vietato chiamarlo Ginaluigi, il suo nome di battesimo, ma bisogna chiamarlo “Gigio”, come ha fatto anche la prima carica della repubblica italiana. È vietato dire che prende gol sul suo palo, che esce a vuoto, che non sempre è nella posizione giusta e si fa spiazzare perché “Gigio”, a soli 22 anni, è il miglior-portiere-del-mondo. Non c’è commentatore che eccepisca. È persino vietato fischiarlo ai tifosi che non gradiscono il trattamento che “Gigio” ha riservato al Milan, la squadra che lo messo in campo ragazzino e gli ha dato fiducia fino a oggi, anzi fino ieri. Non fa niente se “Gigio” ha pensato bene di mollare quella che ha sempre detto essere la sua squadra del cuore e andarsene in Francia per qualche milione di euro in più. I tifosi rossoneri che non l’hanno presa bene e lo ritengono un traditore, genere per il quale preferisco usare la “t” minuscola, non possono pubblicamente dirlo, e forse neanche privatamente pensarlo. Qualche coraggioso fischio si è sentito durante una partita degli europei a Roma, ma la “Gazzetta dello Sport” si è subito affrettata ad argomentare così: la notizia cattiva è che “Gigio” è stato fischiato, la notizia buona è che i fischi erano pochi. Insomma, l’onore, se così si può chiamare, è salvo e non è un caso se “Gigio” è stato premiato come miglior giocatore degli europei in barba alle quote etniche.
Finisce la Patria, dunque, e in suo luogo resta una “patrigna” che non ha alcun amore per i suo figliastri: la soddisfa soltanto il fatto che siano spurii perché emerga con maggiore evidenza che, nonostante questo, sono tutti uguali. Una “patrigna” che ha messo su una perfetta macchina del consenso e un’ancora più perfetta macchina della repressione e della cancellazione di ogni opinione difforme. Durante gli europei sono andati in onda fiumi, laghi, mari e oceani di retorica tra i cui flutti non si è tollerata l’opinione di chi sostiene che gli Azzurri sono arrivati fino in fondo giocando con squadre mediocri e che di fenomeni non se ne sono visti. Soprattutto, vietato dire che l’Italia, alla fine, vince quando gioca all’italiana. Non esiste più il catenaccio all’italiana, perché ricorda ancora qualcosa della vecchia Patria: ora l’Italia, finalmente, gioca in modo europeo certificato bollino UE. La “patrigna” non ammette nulla che le ricordi il passato e soprattutto le differenze che un tempo vigevano tra popolo e popolo, tra nazione e nazione, tra campanile campanile. Al massimo si può parlare di “eccellenze” del territorio, come per il gorgonzola, la sopressa o i pistacchi, tutti riconosciuti e regolamentati dalla UE.
Per concludere, una breve nota sulla retorica da Covid 19 e da relativo vaccino. Da bergamasco, sorvolo sulle immagine dei festeggiamenti in scena Bergamo mandati in onda da Sky appena terminata la finale e sul commento del signor Fabio Caressa, il quale ricordava con le lacrime fin dentro il microfono il dramma di chi apriva i giornali trovandovi solo necrologi e vedeva passare sotto casa i camion strabordanti di bare. Il senso del limite, se uno non ce l’ha, non se lo può dare e la tentazione dell’iperbole è più insidiosa quando si tiene in mano un microfono invece che la penna.
Ma poi eccolì lì gli Eroi Azzurri, subito dopo il rientro in “patrigna” in fila come un papafrancesco qualsiasi per farsi dare la seconda dose di vaccino: perché gli Eroi, e magari anche un po’ Santi, devono dare esempio di senso civico di cittadinanza attiva. E perché, come ha spiegato il generale Figliuolo, “l’Italia vince quando fa squadra”. Questa, in realtà, l’avevamo già sentita ai tempi di Ferruccio Valcareggi. Ma non vorremmo che fossero quelli di Edmondo Fabbri.
Prezzolini ci aveva spiegato con oltre settant’anni di anticipo che questa non è più l’Italia, ma solo quel che resta. E oggi è chiaro con non è più neanche la Patria, ma solo il suo simulacro, una “patrigna”, appunto. Un contenitore in cui vengono versati dall’alto tutti i cascami di un occidente morto e putrefatto. Gli stessi che vanno a riempire le altre “patrigne”, cosicché ne esce una gran torta arcobaleno in cui vengono ritagliate tante fette tutte uguali e dello stesso gusto e vengono servite in luogo di quelle che un tempo erano le nazioni e, prima ancora, le Patrie. Ai goliardi che vogliono ancora divertirsi pensando di tifare per qualcosa di diverso viene concesso il tempo di uno sfottò, purché sia politicamente, socialmente, razzialmente, sessualmente e teologicamente corretto. Agli italioti, per esempio, in occasione della vittoria è stato concesso di prendere per il culo gli inglesi e, nel contempo, di lamentarsi per il tramonto dell’antico british style.
Ecco, se vi va di esultare per tutto questo con tanto di maglietta azzurra e avvolti nel tricolore, fatelo pure. Ma sappiate che vi stanno fottendo. Anzi, vi hanno già fottuti.
Alessandro Gnocchi Luglio 15, 2021
https://www.ricognizioni.it/la-patria-finisce-ecco-quel-che-resta/
Il manifesto della destra arlecchino
La lettura della cosiddetta carta dei valori delle destre europee è una cocente delusione, almeno per chi si illudeva di rintracciarvi novità, speranza per il futuro, una visione e un progetto alternativi a quelli dominanti. La Carta, da qualcuno chiamata trionfalmente manifesto, sottoscritta da quindici partiti definiti sovranisti ed identitari, tra i quali Fratelli d’ Italia e la Lega, sembra piuttosto una modesta cartolina da Bruxelles, un rattristato cahier de doléances contro le oligarchie dell’Unione Europea. Troppo lunga (849 parole, poco più di cinquemila battute) per essere soltanto una dichiarazione d’intenti, troppo generica, cauta e difensiva per ambire a costituire un manifesto programmatico.
Insomma, un’altra occasione perduta, che mostra una volta di più come le antiquate definizioni, le contrapposizioni di ieri e dell’altro ieri, non spieghino il nostro tempo e ancor meno forniscano una mappa concettuale in grado di trasportare finalmente l’Europa e l’Occidente nel Terzo Millennio. La sinistra è ormai irrecuperabile (silenzio assordante sul lavoro, la povertà, l’esclusione sociale, la precarietà, il dilagare delle periferie esistenziali) prona agli interessi del neo capitalismo, di cui rappresenta l’appendice culturale e la mosca cocchiera, impegnata sul versante della cultura della cancellazione, della decostruzione dell’uomo, dell’enfatizzazione di ogni identità rancorosa e borderline sul versante sessuale e razziale.
Il suo vessillo è il falso arcobaleno a cui è stato cancellato il colore azzurro simbolo di purezza: la bandiera del nulla. All’arcobaleno si contrappone Arlecchino: una destra multicolore, avvolta nei suoi stracci, servitrice di più padroni. Entrambi, Arlecchino e Arcobaleno, fedeli esecutori del Dominio. Nessuna messa in discussione della narrazione postmoderna, liberale, liberista, libertaria e libertina, sulla sua antropologia nichilista, ma semplici deprecazioni, lamenti e rimpianti, più allusi che affermati, per un’inesistente buon tempo antico. Un inutile esercizio di acrobazia politica tutto interno al sistema, di cui accetta di rappresentare l’ala esclusivamente conservatrice senza porre sul tappeto le vere questioni, la globalizzazione, la privatizzazione del mondo, la distruzione della classe media, l’aspirazione al governo globale, la dittatura finanziaria, tecnologica, della sorveglianza, adesso quella sanitaria, senza spendere una sola parola per un tema dirimente, quello dei nuovi divieti, le libertà concrete aggredite dal Dominio.
Già nei primi capoversi, la carta dei sovranisti (rimandiamo a un’altra occasione la contestazione dei termini destra e sinistra, a nostro avviso inservibili per descrivere il presente) declina le generalità. Dopo aver penosamente confuso il concetto di Stato con quello di nazione, rassicura i superiori: un elogio appassionato della Nato, che dette “un senso di sicurezza permanente e creato condizioni ottimali per lo sviluppo”. Premesso che sarebbe stato utile conoscere la definizione di sviluppo dei “destri” europei (solo economia, o anche etica, civiltà, cultura?) è fin troppo chiaro che la professione di atlantismo, a oltre settantasei anni dalla fine della seconda guerra mondiale e a trenta dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, è un indecoroso atto di sottomissione all’egemonia americana e l’accettazione dell’agenda anti russa, ossia anti europea, di Washington e Londra.
Non vogliamo qui discutere il ruolo della Nato nel quarantennio della divisione dell’Europa, ma è l’ora di affermare senza mezzi termini che l’alleanza da subalterni con gli Usa va rivista, che non si giustifica più l’occupazione militare (cento basi in Italia!) e il ruolo di camerieri dell’Impero a stelle e strisce. Un intellettuale del calibro di Franco Cardini, lettore attento della Carta, esprime con chiarezza il concetto: la NATO è una compagine da rivedere e riformare profondamente sulla base di un patto al quale l’Europa potrebbe aderire purché si fondasse sull’effettiva parità e indipendenza politica dei suoi membri anziché – come oggi si presenta – quale organo attivo dell’egemonia statunitense sui popoli europei ridotti a una sovranità limitata e a una grave subordinazione di fatto, lesiva dei loro diritti e della loro dignità.
I concetti di nazione (“natio”) e di Stato non sono sovrapponibili, come fa in diversi punti la Carta. La difesa della sovranità degli Stati non può far dimenticare che l’Europa è il continente delle diversità, in cui devono essere rispettate le identità minoritarie, le “nazioni senza Stato”, le lingue regionali.
Desta perplessità anche il richiamo all’identità “giudaico cristiana” dell’Europa. Le destre europee mostrano qui tutti i loro complessi di inferiorità e tutti i timori di non accettazione nel “salotto buono” delle istituzioni e della cultura dominante. É ancora Cardini a rimettere le cose a posto sull’ equivoco- alimentato sulla base di una superficiale affermazione anti-antisemita. “Il giudeo cristianesimo fu una confessione religiosa medievale espressione di quegli ebrei che, pur volendo mantenere intatta la fede mosaica, intendevano affermare che il Messia era già comparso nel mondo, ed era Gesù di Nazareth”. La civiltà europea si è fondata sulla base di un cristianesimo che aveva metabolizzato l’ebraismo accogliendo l’eredità greco romana, cui nel corso del tempo si aggiunsero altri apporti, germanici, celtici, slavi, bizantini, mediterranei.
Questo sotto il profilo culturale e geopolitico. Ancora più deludente è il peso “politico“ della carta. Dichiara di battersi per la sovranità nazionale e in difesa della famiglia ( “unità fondamentale delle nostre nazioni”), denuncia il protagonismo delle oligarchie di Bruxelles impegnate nella costruzione di un super Stato e nella cancellazione di fatto delle costituzioni, rivendica il principio di sussidiarietà, denuncia “ le manifestazioni della pericolosa e invasiva ingegneria sociale del passato” ( e il presente, ben più pericoloso?) , ma non esce per un istante dal recinto liberale liberista. Prudenti sul versante libertario-libertino, le destre sovraniste si dichiarano sì avversarie della cancellazione culturale e civile in atto, ma non si possono deprecare gli effetti senza individuare i responsabili, combattere e rimuovere le cause, cioè l’imposizione del liberismo economico, il mercato misura di tutte le cose, il soggettivismo estremo, esito naturale del liberalismo, nonché il materialismo “progressista” e scientista condiviso da liberali, socialisti e marxisti.
Altro che civiltà “giudaico-cristiana”! Quanto meno, ci sarebbe piaciuto leggere una critica al liberalismo in cui si affermasse che quella stessa tradizione, tanto importante in Europa, funziona solo quando non è pura, ovvero quando convive con elementi che le sono estranei: le fedi religiose, le tradizioni spirituali, l’amore per le comunità, il principio nazionale, la giustizia sociale, il riconoscimento che non di solo pane vive l’uomo, il rispetto per il lavoro e per il lavoratore, la sua intrinseca dignità e il diritto a sicurezza, futuro e giusta mercede. Queste sono le condizioni previe per la convivenza umana, le fonti della libertà e della civiltà. Il liberalismo-liberismo le dissecca e le nega tutte, finendo per diventare insostenibile proprio in quanto taglia le radici su cui è nato.
Vi è nella Carta un silenzio assordante in ordine ai temi dei monopoli privati, dei beni comuni da sottrarre all’arbitrio del mercato, della dignità e del diritto al lavoro, della sicurezza civile e morale, della dimensione pubblica che deve prevalere su quella privata. Non basta gridare sovranità e proclamare amore per la famiglia, se non si indicano chiaramente i loro nemici, che militano nel campo liberale e liberista. Perfino l’economista più liberale di tutti, Von Hajek, dichiarava guerra al monopolio (il contrario del mercato!) e riconosceva che una società “liberale” può funzionare solo laddove vigono principi comuni riassumibili nella triade Dio, patria e famiglia, cui vanno aggiunti lavoro, dignità, libertà.
Gli autori della Carta accennano al problema dell’immigrazione e a quello della natalità: giusto collegamento, ma non è possibile affrontare questi temi senza rinunciare alla ragione strumentale, soggettiva ed egoistica dei liberali e all’indifferenza per le identità del campo progressista, per il quale l’immigrazione è punitiva – un giusto pugno nello stomaco per i bianchi razzisti – e sostitutiva, senza riguardo ai costumi, alla storia e neppure al fatto che satura al ribasso il mercato del lavoro , cancellando i diritti sociali conquistati in un secolo di battaglie. Nessuna sovranità nazionale e popolare può essere ristabilita senza attaccare alla radice il mercatismo, la globalizzazione imposta, la “mano invisibile “della ragione economica, la privatizzazione del mondo.
Nessuna difesa della famiglia, nessuna ripresa della natalità, inoltre, potrà avvenire in presenza della programmatica precarietà di vita e di lavoro voluta dal Dominio, oltreché dell’attacco all’intero impianto della legge naturale. Siamo di fronte, tra i partiti firmatari della carta, a uno sfacciato travestimento conservatore e perfino tradizionale del lupo liberal liberista. I partiti del manifesto, o meglio della cartolina da Bruxelles, sono gli stessi che propongono tassazioni minime di fatto favorevoli ai ricchi, senza incidere sul trattamento delle famiglie (flat tax e simili) e che difendono le più bieche forme di lavoro malpagato, precario, a tempo e in affitto. Il caporalato post moderno al servizio di lorsignori.
Nulla di nuovo, sia chiaro. La maschera conservatrice è il più riuscito, il più antico dei travestimenti liberali e sembra incredibile che sia ancora creduta dinanzi allo smantellamento delle identità nazionali, comunitarie, spirituali e dell’attacco mostruoso sferrato ai fondamenti antropologici dell’umanità occidentale a cui assistiamo da parte dei padroni universali. Di più: dovrebbe essere screditata soprattutto agli occhi dei piccoli e medi imprenditori, degli artigiani e di chiunque non voglia vivere dell’elemosina di Stato. Quanto al rispetto per le istanze spirituali, morali e religiose, quale credibilità può avere l’indifferentismo liberale, per il quale l’unica cosa davvero importante è che si possano fare affari (business, as usual) e tutto abbia il cartellino del prezzo sul mercato globale?
Non si possono servire insieme Dio e Mammona. Lo diciamo all’arcobaleno sinistro a sei colori – traditore degli umili – ma anche all’arlecchino destro- terminale. L’impressione della Carta, il retrogusto amaro è “vorrei, ma non posso”. E su alcuni temi, nemmeno vogliono, giacché non osano profferire verbo sulla più evidente mancanza di sovranità, quella di Stati vassalli o valvassini degli Usa.
Affermano di credere nei “valori “di sempre, ma solo in parte, a bassa voce, moderatamente, per non disturbare il manovratore, senza mettere in discussione il sistema di cui deprecano gli esiti. La stessa opposizione ai meccanismi dell’Unione Europea è di facciata, un elenco di doglianze alle quali non si offre rimedio, se non asserendo di volersi opporre alla trasformazione dell’UE “in una forma speciale di oligarchia”. Lo è già e non vi è nulla di speciale, se non il tenace lavoro per rendere inutili, carta straccia, le stesse costituzioni nazionali. Intanto governi e parlamenti, insieme con la democrazia rappresentativa, vanto liberale, sono stati da tempo battuti in breccia e resi obsoleti dalle organizzazioni transnazionali. Ma su di esse- banche centrali e d’affari, ONU, Organizzazione Mondiale della Sanità, WTO, la Carta tace, ed è un silenzio imbarazzante per i firmatari, triste per i popoli e per chi ancora ripone speranze nella destra arlecchino, sempre al servizio dei soliti padroni e mai dei popoli, delle nazioni, dei principi che proclama a gran voce a fini elettorali.
Nessuna parola sulla deriva da Stato etico delle nuove proibizioni, degli interdetti di una antropologia distruttiva, se non un fuggevole accenno all’ “iperattivismo moralista” di non meglio identificate “forze radicali”, che sono, invece, i banditori del pensiero ufficiale del liberal nichilismo. Silenzio di tomba sull’abolizione di fatto dell’uguaglianza di fronte alla legge a favore delle più disparate minoranze – specie sessuali – e di un femminismo vendicativo, mentre si cercherebbe invano una critica, anche solo accennata, alla distruzione delle classi medie, alla proletarizzazione delle giovani generazioni; nessuna intransigente difesa delle libertà concrete.
Abbiamo scritto spesso che tocca difendere la proprietà e l’iniziativa privata dalla destra economica e i diritti sociali dalla sinistra politica. Oggi dobbiamo resistere anche a un attacco tecnocratico il cui obiettivo è il governo degli esperti e degli scienziati- coloro che “conoscono la verità”, ossia ciò che viene spacciato per scienza, nonché il formidabile urto di un’inedita dittatura della sorveglianza e della medicalizzazione totale della vita in nome della paura divenuta strumento di potere.
Sulla finanza, sul potere del denaro, l’esproprio di miliardi di persone da parte dell’oligarchia “estrattiva”, la prigione del debito nessuna parola, segno che i destri arlecchino tutto desiderano, fuorché scontrarsi con i poteri forti. La domanda giunge spontanea: a che cosa servite, cari sovranisti-destri-conservatori, se la vostra narrazione è simile a quella del progressismo, con qualche pennellata di “valori” e un pizzico di prudenza in più sull’immigrazione e sul tramonto degli Stati nazionali? Alla copia cauta, all’imitazione, la gente preferirà sempre l’originale. Il liberal liberismo, nella variante vincente, progressista, nichilista, privatista, sedicente libertaria ma in realtà proibizionista, tecnocratica e transumana, può dormire sonni tranquilli. A destra non si odono squilli di tromba, solo sussurri a mezza voce.
La grande, necessaria, urgente battaglia per una nuova ideologia di libertà che faccia uscire dal pantano e inverta la corsa verso il basso non avrà tra i protagonisti gli ultimi di ieri. La Carta dei valori delle destre sedicenti sovraniste e conservatrici ne è una prova schiacciante. Destra e sinistra si alimentano a vicenda: campano insieme, cadranno insieme. Non resta che posizionarsi risolutamente tra i primi di domani, gettando via la zavorra del passato in nome dei valori permanenti e di un coraggioso umanesimo aperto alla trascendenza e alla socialità, che progetti il futuro senza cancellare trenta secoli di un passato grande e glorioso. Qualcuno impugnerà la bandiera della libertà e delle libertà: ci dovremo essere, con tutto l’entusiasmo, tutta l’intelligenza, tutta la generosità. Ne riparleremo, oltre i finti arcobaleni e il costume rappezzato di Arlecchino.
Roberto Pecchiol
https://www.ricognizioni.it/il-manifesto-della-destra-arlecchino/
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