“Non dimenticare il tesoro di Bose”. Intervista a Riccardo Larini
Il 13 maggio 2020 il Segretario di Stato vaticano Pietro Parolin ha emesso nei confronti della comunità di Bose un decreto singolare, approvato in forma specifica da papa Francesco, che ha lasciato esterrefatte moltissime persone. Torniamo, in occasione dell’uscita del libro di Riccardo Larini dedicato alla Comunità di Bose, dopo poco più di un anno sulla vicenda. In questa intervista approfondiamo alcuni aspetti del libro e diamo anche alcune notizie sullo stato di salute di Enzo Bianchi e sulla Situazione a Bose.
Il libro, Bose. La traccia del Vangelo, è stato scritto per consentire a chiunque lo voglia di conoscere più da vicino la realtà fondata nel lontano 1965 da Enzo Bianchi, attraverso un esame della sua storia e delle sue radici, caratterizzate da una profonda ricerca di fedeltà al vangelo e di laicità cristiana. Solo così sarà possibile non solo comprendere i recenti drammatici sviluppi occorsi a Bose, ma soprattutto riflettere sui tanti benefici che la comunità ha recato a un numero enorme di persone, nonché su tutto ciò che potrà continuare a donare se saprà riprendere le proprie intuizioni e corregge re i propri errori.
Per saperne di più sul libro si segua questo link: https://riprenderealtrimenti.wordpress.com/2021/08/25/habemus-librum/
L’autore: Riccardo Larini (Milano 1966), fisico, pedagogista, traduttore e teologo, dopo la laurea in fisica a Pavia si è dedicato agli studi di teologia ecumenica e di ermeneutica filosofica, prima presso la comunità di Bose (di cui è stato membro per undici anni) e quindi a Cambridge. Dopo avere diretto un collegio ecumenico in Inghilterra e una scuola europea in Estonia, ha deciso di dedicarsi prevalentemente all’attività professionale di esperto della formazione all’uso dell’intelligenza artificiale nell’apprendimento sia scolastico sia aziendale, e alla scrittura di articoli per il blog Riprendere altrimenti e per varie riviste italiane e straniere dedite alla divulgazione delle scienze religiose.
Larini, è passato poco più di un anno dalla nostra ultima intervista sulla crisi che ha investito la Comunità di Bose. Adesso è appena uscito il suo libro dedicato proprio alla storia di Bose, dalle sue origini, fino alle ultime tristi vicende. Però prima di inoltrarsi nella analisi del suo saggio, vorrei chiederle: cosa è cambiato un anno dopo?
Sarebbe bello poter dire che sono emersi spiragli di luce, di dialogo e di speranza, ma per ora, purtroppo, non è possibile. L’ipotesi di lasciare che Enzo Bianchi e chi continuava a riconoscersi in lui potesse trasferirsi nella fraternità di Cellole di San Gimignano, caldeggiata anche da diverse personalità ecclesiastiche sensibili e di valore, è stata affondata dal Delegato Pontificio e dalla componente comunitaria più ostile a qualsiasi dialogo. Di conseguenza, come peraltro aveva detto pubblicamente fin dal principio, il fondatore di Bose ha individuato dopo una faticosa ricerca un luogo idoneo alla sua vita e alla prosecuzione dei suoi impegni ecclesiali e civili, e il 30 maggio di quest’anno ha lasciato definitivamente i luoghi in cui era vissuto fin dal lontano 1965. Faccio notare, tristemente e per inciso, che quegli stessi organi di stampa cattolici che pure si erano scagliati contro la presunta e maliziosa indisponibilità di Bianchi a lasciare il proprio eremo, hanno passato totalmente sotto silenzio la sua partenza, e dunque la sua obbedienza al provvedimento pur ampiamente ingiusto della Segreteria di Stato. E anche la comunità, che pure non aveva esitato a emettere comunicati e veline talvolta spiacevoli sulla vicenda, non ha condiviso pubblicamente in alcun modo la partenza del suo fondatore.
So che ha incontrato Enzo Bianchi. Come sta?
Dal punto di vista spirituale e morale non ha perso la propria forza d’animo. Non l’ho trovato né rancoroso né incattivito, pur nella grande amarezza per tutto ciò che è accaduto. Fisicamente, invece, rispetto al nostro ultimo incontro avvenuto nel novembre del 2019, ho notato l’insorgere di evidenti difficoltà, soprattutto di deambulazione. Ormai non riesce più a camminare per più di qualche decina di metri senza provare dolore e affaticamento, e ha praticamente smesso di guidare l’automobile, per ragioni analoghe. Ha un evidente bisogno di sostegno nel quotidiano, ma per il momento vive da solo.
Approfondiremo, per quello che è possibile, più avanti alcuni passaggi chiave, richiamati nel suo libro, della crisi di Bose. Ora veniamo ad alcune linee paradigmatiche della esperienza bosina. Punti che costituiscono l’autentico tesoro evangelico di Bose. Sappiamo che Bose nasce da una intuizione evangelica, favorita dal clima conciliare, di Enzo Bianchi di costituire una comunità di semplici cristiani, quindi laici uomini e donne, che vogliono vivere l’evangelo, nel celibato profetico per il regno, nella compagnia degli uomini in una prospettiva ecumenica. Quello che ho richiamato si trova nelle “Tracce per una vita comune” del 1968. Quindi : Evangelo, laicità e Ecumenismo. Le chiedo come si è sviluppato questo tesoro?
Come sottolineo nel mio libro e più in generale nei miei scritti, le grandi creazioni comuni sorgono quando alcune persone colgono lo spirito che attraversa il loro tempo e la loro storia, e le fanno diventare realtà. In questo senso penso sia fondamentalmente sbagliato parlare di “carisma dei fondatori”, come si fa spesso nella vulgata cattolica, più ripetendo un cliché che non pensando veramente a fondo alle cose. Se lo stesso spirito colto da chi poi viene definito fondatore non viene riconosciuto in maniera unica e personalissima da ogni persona che si unisce al suo cammino, non si potrà mai costruire una casa comune solida, duratura e capace di svilupparsi.
Per contro, non vi è dubbio che senza la forza e la tenacia di grandi personalità, spesso di singoli leader, ben difficilmente un gruppo di persone può dar luogo a una creazione comune capace di non risultare effimera, in grado di non arrendersi e crollare di fronte alle prime difficoltà, sia esterne sia interne.
Nello specifico, Bianchi e coloro che hanno camminato con lui sia prima della nascita di Bose, sia durante la sua crescita e lo sviluppo della sua straordinaria parabola umana e cristiana, hanno colto ciò che da sempre costituisce la base più profonda del rinnovamento cristiano: il ritorno alle origini, a quel tempo che per certi versi precede la codifica di un’ortodossia ecclesiale, prima della divisione di cristiani in gruppi, categorie o addirittura “generi”. Alludo a un’epoca in cui già si erano manifestate divisioni dolorose e significative (il Nuovo Testamento è attraversato da palesi divergenze) ma in cui proprio per questo la ricerca della comunione tra diversi e tra comunità con parabole divergenti era sentita come un’esigenza fondamentale. Il concilio Vaticano II, sulla scia di altri grandi movimenti sorti al di fuori della chiesa cattolica fin dall’Ottocento (come ricostruisco nel mio studio su Bose), non aveva trovato tutte le soluzioni possibili, ma aveva identificato una traiettoria di aggiornamento, di ritorno alle origini, che Bose ha intercettato come pochissime altre realtà del cristianesimo, non solo italiano. L’unico tratto più peculiare rispetto a un puro ritorno alle origini, è stato rappresentato a Bose dalla scelta, non del tutto scontata, di dare vita a una comunità di “celibi per il regno”, senza tuttavia che con questo si intendesse contraddire la fondamentale laicità dell’esperienza che si era deciso di avviare.
Un tesoro cosi può reggere nella Chiesa cattolica?
La chiesa cattolica, per sua natura, tende sempre a inglobare e omologare, e non solo a categorizzare le esperienze religiose di qualsiasi genere e natura. Questo non è sempre e solo negativo: già la Prima Lettera di Giovanni invita a “mettere alla prova gli spiriti”, ovverosia a sottoporre ogni ispirazione a un cammino di verifica. E le autorità umane hanno probabilmente qualche ruolo anche in tale direzione. Bose, però, è nata, per sua stessa autodefinizione, come comunità non appartenente di per sé ad alcuna confessione cristiana, “non cattolica, protestante o ortodossa ma di cattolici, protestanti e ortodossi”, nel rispetto di ogni singola chiesa e delle rispettive autorità. Questa sana “marginalità” le ha consentito di essere luogo di incontro per tutti (e non solo per i cristiani o per i credenti in generale), di acquisire una credibilità senza pari nell’ecumene cristiano e nel mondo della cultura laica, e tutto ciò senza assumere traiettorie bizzarre o eccentriche. Tuttavia, per ragioni complesse, la comunità ha finito per entrare di fatto nell’alveo della chiesa cattolica, sia a motivo della propria crescente complessità e dimensione, sia per favorirne un consolidamento istituzionale in vista della successione di Enzo Bianchi, consolidamento che si è rivelato a mio avviso maldestro. Una volta immessa formalmente nell’alveo del cattolicesimo, Bose ha finito per perdere qualcosa di importante, ed è risultata inoltre drammaticamente esposta agli aspetti meno luminosi della tradizione cattolica. Non me la sento ovviamente di esprimere giudizi sommari su quest’ultima, ma sicuramente l’istituzionalizzazione in senso cattolico porta non di rado a soffocare le esperienze profetiche.
Lei nel suo bel libro porta alla luce, per quelli che non conoscono l’esperienza di Bose, i valori e il contributo davvero notevole sul piano teologico, liturgico, estetico, architettonico, editoriale che Bose ha offerto al cristianesimo contemporaneo (quindi a tutte le confessioni). Insomma quella di Bose è una esperienza di bellezza dell’Evangelo che tocca tutta la dimensione umana. Qual è stato il contributo più importante che la comunità ha dato alle Chiese?
Tra i molti ne sottolinerei almeno due. In primo luogo la capacità, decisamente inconsueta, di dare vita a liturgie di rara bellezza ed evangelicità, in grado di far vivere in profondità il mistero cristiano. Sono vissuto in molti paesi, ho sperimentato molti modi di fare comunità nel cristianesimo e di esprimerne l’identità e la forza trasformatrice nel culto, ma non ho mai incontrato da nessuna parte qualcosa di paragonabile alla creatività liturgica bosina. In Italia sicuramente c’è oggi molta povertà e manca quasi totalmente una sperimentazione liturgica intelligente. Accanto alla liturgia, direi che Bose ha saputo creare e vivere un “codice deontologico dell’ecumenismo” che è un vero e proprio paradigma dell’incontro tra visioni differenti, ben al di là del cristianesimo e della stessa religione. Ce n’è un bisogno enorme nel nostro mondo diviso e frammentato.
La compagnia degli uomini, anche da celibi, implica un “giudizio”,alla luce del Vangelo, sulla società contemporanea. C’è un giudizio politico di Bose sulla società?
Sicuramente. Ma non nel senso più comune del privilegiare una o l’altra delle parti che si contendono il potere sul terreno della “politics”, ma in quello più alto della ricerca dei valori e delle “policies” che li possono perseguire. Enzo Bianchi soprattutto (perché questo è stato più un suo dono che non un dono generale della comunità) ha saputo esprimere con franchezza perplessità e critiche importanti riguardo all’evoluzione della cultura e della società italiane e non solo. La comunità, per contro, ha sempre espresso un giudizio con il suo semplice stile di vita, con le sue scelte, i suoi valori. Non è mai possibile separare la fede dalla vita nella società, soprattutto se si decide di vivere una marginalità, come si dice a Bose, “nella compagnia degli uomini”. Come accadde a Thomas Merton, che cito nel mio libro, a un certo punto è necessario compiere una conversione da “cercatori della santità” a “testimoni colpevoli” delle storture del mondo.
Veniamo alle ultime vicende. La crisi di Bose parte da lontano. Attraversa molteplici aspetti. Qual è secondo lei l’elemento scatenante? Era così necessario il ricorso alla Santa Sede?
Come ogni comunità umana, anche Bose ha visto svilupparsi al proprio interno dei problemi, anche seri. È un fatto umano, umanissimo, che non rappresenta di per sé uno scandalo. Un intero capitolo del mio saggio è dedicato a questo. E umano è anche per certi versi che non si sia riusciti ad affrontare internamente il conflitto, soprattutto quando, come accade spesso nella chiesa, non si è abituati a riconoscere e accettare conflitti e differenze di sostanza. Lo snodo cruciale è tuttavia che ogni volta che degli esseri umani si legano vicendevolmente sorge la questione del potere. Certo, facendo i “santi da soli” la vita sarebbe più facile, ma cosa sarebbe il cristianesimo senza dimensione comunitaria? Ma il potere, nella chiesa, viene affrontato troppo spesso tramite il meccanismo del sacro, che porta inesorabilmente a sviluppare forme di violenza, come ha mostrato in maniera magistrale René Girard. Laddove si cerca in qualsiasi modo di anteporre alla coscienza individuale l’erezione a “vicari di Cristo” di singole persone (presbiteri, vescovi, abati) o anche del capitolo di una comunità monastica, si cozza inesorabilmente contro l’unica vera realtà totalmente sacra: ogni singola persona. Il cristianesimo deve oggi interrogarsi profondamente riguardo a queste dimensioni, se vorrà sopravvivere in una forma realmente evangelica e conforme allo sviluppo dello spirito umano. Il ricorso alla Santa Sede era una possibilità, accanto ad altre, ma non era né l’unica né certamente, alla luce di quanto accaduto, la più saggia.
Nell’ultimo capitolo parla dei protagonisti di questi tempi difficili. Sono rimasto colpito dalla figura del delegato pontificio: il canossiano Cencini. Da quello che emerge, leggendo le sue pagine, è una figura assai dura e molto chiusa al dialogo. Non proprio un mediatore ma un intransigente. Una domanda sorge spontanea : perché la Santa Sede si è messa nelle mani di una persona così dura? Che cosa voleva ottenere?
Come già le ho detto un anno fa in un’altra intervista, non mi occupo di politica ecclesiastica o di dietrologie vaticaniste: non ho né l’interesse né le competenze per farlo. E neppure sono nella testa del Delegato Pontificio. Posso dunque solo, basandomi su quanto ha scritto, detto e fatto in tanti anni, ribadire che si tratta di una persona che opera in modi sbagliati e, nella fattispecie del caso Bose, antiumani e antievangelici. Tutti lo dicono da tempo, compresi molti vescovi, nei “corridoi della chiesa”, ma nessuno ha il coraggio di denunciarlo ad alta voce. Di fatto Cencini è vittima delle proprie rigide teorizzazioni che lo portano a intervenire con soluzioni predeterminate, senza mai promuovere dialoghi reali. Infine, con molta onestà e franchezza, devo dirle che non è a me che dovrebbe chiedere spiegazioni sulle scelte della Santa Sede. Ognuno si deve assumere le responsabilità delle proprie scelte, delle proprie iniziative e dei propri fallimenti. Nessuno ne può essere esentato, neppure un vescovo di Roma, soprattutto in un sistema che gli conferisce poteri (e dunque responsabilità) che nessuno possiede sulla terra.
Lei vede la figura di Enzo Bianchi come un “capro espiatorio”. È servito a qualcosa il sacrificio?
Preciso innanzitutto che nel mio libro non limito al solo fondatore di Bose l’attribuzione del titolo di “capro espiatorio”. Vorrei che non ci dimenticassimo mai degli altri tre membri della comunità che sono stati banditi dalla medesima, Antonella, Goffredo e Lino, e dei molti che sono stati, in un modo o nell’altro, costretti ad andarsene, con pressioni psicologiche anche gravi. Le sofferenze susseguitesi all’intervento vaticano sono state ancora più pesanti di quelle che lo avevano suscitato, da una parte come dall’altra del conflitto di potere in atto. Ho scelto volutamente questa metafora biblico-ebraica e girardiana per indicare un problema fondamentale: a Bose sono sorti dei problemi che coinvolgevano tutti, ma si è scelto di “risolverli” eliminando una parte, senza tuttavia affrontare in realtà in alcun modo il nodo cruciale di come migliorare il dialogo interno e accettare e gestire gli inevitabili conflitti che sorgono in una comunità così complessa e numerosa. Tanto è vero che il successore di Bianchi compie oggi gesti mai visti a Bose in passato e totalmente estranei sia allo spirito sia alla lettera della stessa Regola di Bose, come l’esclusione dal capitolo e dai pasti comunitari per lunghi periodi di chiunque ne contraddica la voce nello stesso capitolo.
In questa vicenda quali sono stati i limiti del fondatore?
Penso di poter dire che da un lato non è riuscito a discernere come aveva fatto in passato l’insorgere di difficoltà e problemi non dovuti certamente solo o a lui, ma comunque avvertiti come seri da un certo numero di fratelli e di sorelle della comunità. E dall’altro, non ha saputo cogliere il momento giusto per andarsene a condizioni ben diverse, che egli stesso avrebbe potuto dettare, con un paio d’anni almeno di anticipo. Ma onestamente, quando sei stato il protagonista principale di una creazione così eccezionale, lungo un arco di tempo superiore ai cinquant’anni, è difficilissimo, se non sei aiutato a farlo a chi ti sta intorno, compiere un passo di tal genere. Per quanto mi è dato di sapere, non conosco “fondatori” che lo abbiano mai fatto…
Lei parla di non rispetto dei diritti umani in tutta questa vicenda. Perché?
Nessuna autorità al mondo, neppure quella di un pontefice per un cattolico, può giustificare provvedimenti così duri, immediati e inappellabili senza alcun processo, senza contenzioso e senza spiegazioni dettagliate. A prescindere da come la si pensi sul conflitto esploso a Bose, non si può accettare una modalità di giudizio e di intervento che non ha tenuto in alcun conto i diritti degli “imputati” (che non sono stati neppure tali, in quanto sono passati direttamente allo status di “condannati”).
Inoltre il provvedimento vaticano, come hanno mostrato diversi giuristi, non potrebbe mai essere applicato nel territorio italiano senza essere recepito da un tribunale ordinario (che mai lo farebbe), in quanto priva delle persone molto concrete di diritti fondamentali, a partire da quello di usufruire e di godere dei beni materiali e spirituali che hanno contribuito (alcuni in maniera massiccia e determinante) a realizzare. L’allontanamento dalla propria dimora e la proibizione di intessere relazioni con altre persone è un fatto gravissimo nell’ordinamento giuridico italiano, e nei confronti di alcuni allontanati, proprio nelle ultime settimane, è stata aggiunta anche la cancellazione unilaterale del contributo di sussistenza che pure era stato concordato per iscritto.
Credo sia tristissimo che in molti – anzi, decisamente in troppi – nel mondo cattolico si siano interessati molto di più ai presunti abusi compiuti dal fondatore di Bose (di cui non vi è traccia nel Decreto singolare né, ad oggi, è emerso alcun esempio concreto) che non ai palesi abusi compiuti dalla Santa Sede nei confronti di cittadini italiani. Un conto è non volersi schierare nel conflitto (decisione legittima e rispettabilissima), tutt’altra cosa è chiudere gli occhi di fronte a queste cose. Nessuna chiesa può essere veramente evangelica se non persegue fino in fondo la verità e non rispetta radicalmente la dignità di ogni persona, che ha diritti inalienabili.
Siamo alla fine di questa nostra lunga conversazione. Come riprendere un cammino riconciliato?
Nel mio libro avanzo qualche timida proposta, basata soprattutto sul fatto che Bose possiede diverse case in giro per l’Italia. La riscoperta di dimensioni più piccole e umane aiuterebbe molto, e permetterebbe a gruppi di persone che ormai hanno visioni parzialmente divergenti della storia di Bose di continuare a vivere la vita a cui si sono votate senza una costante atmosfera di conflitto e senza cercare di risolvere i problemi eliminando del tutto l’altra parte dal proprio orizzonte. Ancora più importante, però, sarebbe la scelta (o l’invio?) di un nuovo, vero mediatore (o gruppo di mediatori), che avvii un autentico processo di confronto tra le parti in conflitto, e che guidi la comunità a (re-)imparare l’arte del dialogo fraterno. Perché c’è ancora un enorme bisogno di Bose nella chiesa e nelle chiese.
Enzo Bianchi: «Sono solo e in esilio a Torino, venite a pranzo da me»
L'appello di Enzo Bianchi, ex priore di Bose: «La mia vocazione è comunitaria non eremitica. Perciò venite a trovarmi voi, troverete piatti gustosi e converseremo in pace»
Un appello a non essere lasciato solo è stato lanciato su twitter dall’ex priore della Comunità di Bose, Enzo Bianchi: «Cari amici sono invecchiato e ho difficoltà a venirvi a trovare. Vivo in esilio a Torino, da solo, ma la mia vocazione è comunitaria non eremitica. Perciò venite voi e a pranzo troverete piatti gustosi e converseremo in pace. Oggi peperoncini dolci farciti di carni e aromi», l’invito corredato da una foto in cui mostra la pietanza preparata.
Enzo Bianchi si trasferisce a Torino, e dice addio a Bose dopo un lungo braccio di ferro, a fine maggio in ossequio al provvedimento della Santa Sede che gli ha intimato l’allontanamento dalla comunità monastica del Biellese, da lui fondata. L’allontanamento del priore, 78 anni, venne deciso dal Vaticano dopo una «ispezione» nel 2019 sulle tensioni tra il fondatore e il nuovo priore, fratel Luciano Manicardi. Si parlò, in particolare, di «una situazione tesa e problematica per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità del fondatore e il clima fraterno».
Groviglio che la Santa Sede decise di risolvere disponendo che il fondatore, due confratelli e una consorella, Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lino Breda e Antonella Casiraghi avrebbero dovuto lasciare Bose e «trasferirsi in altro luogo, decadendo da tutti gli incarichi attualmente detenuti».
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