(di Francesco Colafemmina su “Fides et Forma” del 8/11/2011) Nell’osservare le immagini del nuovo Evangeliario ambrosiano qualcuno ha esclamato con tono patetico: “povero Cardinal Scola, costretto ad approvare quest’opera orrenda!”. Pertanto, prima di giungere a troppo affrettate conclusioni vorrei sottoporvi le immagini di un’opera questa volta promossa esclusivamente dal Cardinal Angelo Scola, quando era ancora Patriarca di Venezia.
Se da un lato è evidente che il progetto dell’Evangeliario non poteva non essere approvato anche dal nuovo arcivescovo di Milano, dall’altro permangono a mio avviso certe riserve sui dubbi gusti artistici del Cardinal Scola e sulle sue teorie estetiche che sarebbero state innovative forse solo un secolo fa.
Cappella del Palazzo Patriarcale di Venezia
L’opera alla quale mi riferisco è in realtà piuttosto articolata, nonostante la sua miseria formale. Si tratta infatti dell’antica sala del Trono del Palazzo Patriarcale di Venezia, trasformata in “aggiornata” cappella privata del Patriarca nel 2006.
L’opera alla quale mi riferisco è in realtà piuttosto articolata, nonostante la sua miseria formale. Si tratta infatti dell’antica sala del Trono del Palazzo Patriarcale di Venezia, trasformata in “aggiornata” cappella privata del Patriarca nel 2006.
La monografia dedicata al restauro del Palazzo Patriarcale illustra nel dettaglio ragioni e linee guida della sua realizzazione: “Le scelte sottese all’attuale organizzazione spaziale della Cappella si conformano ad un disegno di unità, che ha innanzitutto il fine di renderla luogo della Comunione Eucaristica celebrata nel cuore del palazzo, ma anche uno spazio di raccoglimento e di silenzio, dove poter ricercare unità e semplicità durante l’impegno della propria attività nel centro della città; infine un sito che, pur nella sua modernità, si integri con il resto del palazzo rispettando la sua storia.
” E aggiunge: “Nell’ideare le forme dell’arredo liturgico si è partiti dal presupposto che la storia di Venezia è specialmente marcata da una vocazione per l’unità tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente.”(p.115).
Vi chiederete a questo punto dove sia l’integrazione fra la storia del palazzo e la moderna cappella, o il rapporto fra Oriente e Occidente… Ebbene, eccovi accontentati: “La pietra dell’altare è un travertino rosso di Persia, rosso della terra di Oriente, rosso di Venezia, rosso del sangue, rosso dello Spirito”… O ancora: l’altare è composto da due blocchi “il blocco di destra e quello di sinistra evocano simbolicamente le realtà delle Chiese d’Oriente e d’Occidente riunite dalla tavola del sacrificio eucaristico che portano insieme”(p.115).
Cappella del Palazzo Patriarcale a Venezia: Crocifisso e Altare
Rapsodie interpretative prive di una logica intrinseca ma prone al relativismo estetico tipico del “contemporaneo”.
Rapsodie interpretative prive di una logica intrinseca ma prone al relativismo estetico tipico del “contemporaneo”.
E ciò si avverte con maggiore prepotenza quando nella suddetta monografia si arriva a parlare del Crocifisso, ossia di quel moncherino senza volto stranamente affine ad un Cristo di Mimmo Paladino (estetica ambrosiana e veneziana qui coincidono): “il Crocifisso, nel mostrare la tensione tra due grandi forze verticali separate da un vuoto, esprime la nostra difficoltà ovvero la nostra incapacità di percepire esistenzialmente allo stesso tempo la natura umana e la natura divina di Cristo” (p.115). Chiaramente quel moncherino – opera, per inciso, della scultrice, vicina a CL, Marie Michèle Poncet – lo si potrebbe interpretare in decine di modi diversi…
E infatti così la pensa il Cardinal Scola che, presentando il 17 ottobre scorso il nuovo Evangeliario Ambrosiano, ha sintetizzato la sua visione estetica usando le seguenti parole:
“L’opera d’arte sta lì davanti a te, ti parla, non ha bisogno di un linguaggio ulteriore perché è simultaneamente forma e splendore, species e lumen. Quindi è un fenomeno originario che va colto in se stesso e quindi di per sé non ha bisogno di interpretazione. Ha bisogno che il lumen, la luce, ne colga tutto lo splendore, lasciando parlare la forma.
Questo fatto delimita molto il potere dei critici perché l’opera d’arte parlando essa stessa è aperta a qualunque interpretazione. (…) Questa è la vera forza del carattere simbolico dell’arte, che dobbiamo riapprendere ad apprezzare abbandonando un certo razionalismo anche nel contemplare un’opera d’arte.
L’arte contemporanea ha una forza liberante perché ti sposta continuamente, ti porta in alto e queste illustrazioni hanno proprio questo compito”. E ancora: “L’arte, se è così – e lo è più che mai l’arte contemporanea – ha una forza di liberazione, una forza liberante straordinaria perché ti chiama dentro di sé.”
Mentre scrivo questo articolo guardo di sfuggita le immagini di un pregevole documentario d’annata sull’alluvione che colpì Firenze nel 1966. Scorrono i fotogrammi in bianco e nero che raccontano la ribellione della natura alla forza eternante dell’arte e ripenso al senso degli sforzi che si compirono allora per salvare e riportare al loro antico splendore opere sfregiate dal fango, usurpate dall’acqua…
Che sforzo inutile se oggi proprio la Chiesa, antica custode e promotrice dell’arte, archivia incessantemente il bello, quello assoluto ed inequivocabile, per sostituirlo con un bello relativo, intellettualoide ma irrazionale, anticorporeo e assetato di deformità. E quale credibilità possono avere ancora quegli uomini di Chiesa che da un lato condannano il relativismo etico ossia la libertà assoluta di interpretare e vivere la morale, mentre dall’altro osannano il relativismo estetico fondato sul dogma dell’arte cosiddetta “contemporanea”?
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