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sabato 19 novembre 2011

Verzé, santo e bancarottiere

Dietro il tracollo del San Raffaele non c’è la pia frode, c’è Faust

Un miliardo e mezzo di debiti, accuse di bancarotta fraudolenta, appropriazione indebita, false fatturazioni con annessi sospetti di fondi neri per almeno tre milioni e mezzo di euro partiti per l’estero; e ora l’arresto del consulente Pietro Daccò, dopo il suicidio del vicepresidente Mario Cal a luglio, mentre la prospettiva del fallimento non è affatto scongiurata, nonostante l’intervento fifty-fifty dello Ior vaticano con l’industriale genovese Malacalza. Nelle brutte storie che segnano la storia recente della Fondazione San Raffaele del Monte Tabor, l’iscrizione nel registro degli indagati del suo dominus e ispiratore, il novantunenne don Luigi Verzé, già allievo e segretario di don Giovanni Calabria, non rende giustizia, nella sua burocraticità di atto dovuto, alle dimensioni epiche di una catastrofe che solo in secondarissima istanza è di natura economico-amministrativa. Sbaglierebbe di grosso, infatti, chi volesse interpretare il volo spezzato del San Raffaele come la solita, banale, volgare storia di malaffare all’italiana. Sbaglierebbe anche chi volesse inserire la vicenda in un serial dietrologico a mezza strada tra Dan Brown e Beppe Grillo sulle spregiudicate finanze dei soliti preti che predicano bene e razzolano male.

La verità è che don Verzé ha razzolato esattamente come ha predicato, ed è sulla natura delle sue prediche superomistico- religiose che ci si dovrebbe soffermare per capire che cosa è successo.
La sua creatura faraonica e malata, non è malata da oggi ma da sempre. Perché, prima ancora che andasse fuori controllo la contabilità, erano finiti fuori controllo le basi ideali, i presupposti antropologici e culturali, la stessa ispirazione cristiana della sua missione. L’onnipotenza pratica, il sogno dell’immortalità (di Madre Teresa di Calcutta, il sacerdote don Verzé ha detto: “Lei è una santa, ma non posso condividere la sua filosofia. Madre Teresa assiste la gente che muore, noi al San Raffaele ci ribelliamo alla morte”), il carisma fatto di scientismo sacralizzato, il culto della tecnica salvifica applicata all’uomo, la ricerca biologica come nuovo Graal, bene assoluto e vera via maestra alla conoscenza: oggi dovrebbe essere fin troppo facile vedere come proprio lì – nella programmatica dismisura delle ambizioni di don Verzé, nel suo progetto gnostico e insofferente dei vincoli di un cattolicesimo vissuto come palla al piede, zavorra per il volo dell’arcangelo – era già scritto tutto. Era già scritto nella mezza sfera che sovrasta il San Raffaele, e che è stata pensata più alta del Duomo (e dunque di ogni chiesa milanese, in violazione scortese di una regola non scritta ma sempre osservata) e dal diametro più largo di tre metri della cupola di San Pietro. La concorrenza con gli edifici del cattolicesimo romano e meneghino non è solo di natura architettonica. Don Verzé non rinuncia alla teologia e immagina dieci consigli per il successore di Giovanni Paolo II, buoni per rifondare lo stesso edificio del cattolicesimo. Gli suggerisce di “rivedere coraggiosamente, da padre universale, le decisioni tradizionali sugli argomenti: celibato del clero cattolico latino; attribuzione di poteri ministeriali ai laici ‘probati’, donne comprese; sacramenti ai divorziati; uso di anticoncezionali; procreazione assistita; non si può sonnecchiare accontentandosi di divieti contro una scienza biologica che irresistibilmente corre. Il guarire è un sacramento imperativo-cristologico; coinvolgimento dei fedeli nelle scelte gerarchiche, episcopato compreso” (da “Pelle per pelle”, scritto da don Verzé con Giorgio Gandola per Mondadori, nel 2004).

L’ospedale avveniristico voluto da don Verzé, centro di eccellenza di livello europeo, all’avanguardia nelle terapie e nella strumentazione e pensato come un Grand Hotel della guarigione, va considerato in pendant con la fucina di idee che porta il nome di Università Vita-Salute, e che don Luigi Verzé fondò nel 1996 con l’ambizione di “superare la contrapposizione moderna fra sapere scientifico-tecnico e sapere umanistico-filosofico”. Protagonisti dell’impresa, ha scritto il direttore di questo giornale all’indomani della morte di Mario Cal, “biologi faustiani, filosofi del nulla, una melassa di libertarismi pseudoagostiniani, con qualche concessione a un giro accademico più largo di buoni storici della filosofia tenuti al guinzaglio dell’ideologia fondatrice. Da Cristo a MicroMega, un volterrianesimo alla Paolo Flores, un caso di cattiva ateo-devozione”. Una schiera di bei nomi dell’accademia italiana – Massimo Cacciari, tuttora figura preminente dell’istituzione, il filosofo Emanuele Severino, il genetista Edoardo Boncinelli – schierati accanto a pensatori cattolici d’orientamento variamente progressista. Sempre eterodossi, per non dispiacere all’immagine d’avanguardia culturale e religiosa che il San Raffaele ama offrire di sé. Personaggi come Vito Mancuso e Roberta De Monticelli, profeti gemelli di un cristianesimo antidogmatico e antichiesastico, campioni nella lotta contro le gerarchie che tanto piace a don Verzé – perché in fondo è quella la sua vera cifra – e perfetti per il salotto catodico e anti cattolico di Corrado Augias, oltre che per le classifiche dei libri più venduti.
E’ noto che la squadra della filosofia modello San Raffaele sia stata e sia tuttora ben tarata su un paradigma a senso unico di benevolenza verso le ragioni della scienza, possibilista nell’esplorazione delle nuove frontiere, per definizione sciolta da qualsiasi forma di ossequio alla dottrina. Fa tuttavia impressione leggere oggi, alla luce degli sviluppi delle vicende del San Raffaele, quello che lo stesso don Verzé diceva della sua creatura universitaria: “L’ho chiamata Vita-Salute intendendo che ‘vita’ è il tutto Essere, e ‘salute’ è l’equilibrio delle componenti che fanno di un essere un vero uomo: il fisico, l’intelletto e l’anima. Ogni deficit delle tre componenti rende l’uomo meno uomo… L’uomo divenne un essere vivente in forza dell’alito di vita divino che Dio, traendolo da sé, soffiò nelle sue narici: l’essere dell’uomo, inconfondibile con il resto del creato. E a quell’essere l’uomo non può rinunciare. Lo dimostrano la comune esigenza di un fisico sempre più perfetto, agile, elegante e vigoroso, insieme alla brama del conoscere, della beltà, della scienza e dell’ascesi, atti a replicare l’armonia che, all’origine, lasciò ammirato lo stesso Dio creatore”.

In quell’“uomo meno uomo”, riferito all’individuo carente in una delle “tre componenti” (come se il malato o il povero di spirito fossero meno umani: ci ricorda tristemente qualcosa) c’è l’inconsapevole autodenuncia del gigantismo velleitario di don Verzé, del sogno superomistico che lo ha nutrito e perduto. Inconsapevole, poi, fino a un certo punto. “Certo che l’uomo di cui parlo è un superuomo, tutti tendiamo a essere superuomini”, diceva don Verzé a Gianluca Nicoletti, che nel febbraio del 2009 lo aveva intervistato per Wired.

Ora che molte maschere sono cadute e che la rovina incombe sul prete visionario al quale si rimproverano troppi affari in nome di Dio e del miglioramento genetico della specie umana, rimane in evidenza la tragica, e a suo modo immensa, caricatura del benefattore mescolato a un personaggio da fantascienza scadente, allo scienziato invasato che si crede padrone della vita, della morte e delle leggi di natura, al santone tecnologico dotato di Challenger. Fondatore di un culto autoreferenziale e inquietante, con i suoi rituali e il suo ordine di iniziati: i Sigilli, i fedelissimi che abitano con don Verzé nella cascina accanto all’ospedale, e che vengono ordinati con una spada sulla spalla “come facevano i Templari” (lo racconta sempre il sacerdote nell’intervista a Nicoletti, intitolata “La fine della morte”).

Non vedere oggi il legame 
che corre tra l’avallo dato da alcuni bei cervelli a un progetto fatto di megalomania e folclore titanici, che punta all’immortalità fisica, magari per via di clonazione e di uso di embrioni per la ricerca, e il rovinoso risveglio fatto di libri mastri tutti da decifrare, di debiti tutti da interpretare, di voragini nei conti tutte da spiegare, non vedere e non parlare con franchezza di quel legame sarebbe, ammettiamolo, un torto anche per Verzé.

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