ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 26 luglio 2012

Bollito alla domenicana (per ragù bolognese)


(su Riscossa Cristiana del 22-07-2012) In data 13 luglio 2012 Riscossa Cristiana ha pubblicato un Intervento del prof. Roberto de Mattei, che portava il suo contributo al dibattito che si è riaperto sul Concilio dopo la pubblicazione dell’articolo di Paolo Pasqualucci IL “DISCORSO CRITICO” CHE LA GERARCHIA NON VUOL FARE. Recensione a: BRUNERO GHERARDINI, “Concilio Vaticano II . Il discorso mancato”. A questo articolo erano seguiti interventi di P. Giovanni Cavalcoli, di Mons. Brunero Gherardini e di Cristina Siccardi.
Pubblichiamo ora la lettera che P. Giovanni Cavalcoli ha indirizzato al prof. Roberto de Mattei, e la risposta del prof. Roberto de Mattei.

LA LETTERA DI P. GIOVANNI CAVALCOLI AL PROF. ROBERTO DE MATTEI
Caro Professore,
esiste un documento del Beato Giovanni Paolo II, l’Istruzione Ad tuendam Fidem del 1998, il quale contiene un commento ad opera della Congregazione per la Dottrina della Fede, che aggiorna e spiega meglio le indicazioni della Pastor Aeternus circa la questione dell’infallibilità delle dottrine.
Premetto innanzitutto che non capisco come Lei sostenga che una dottrina “non infallibile” non è necessariamente “sbagliata”. Se una dottrina non è infallibile, vuol dire che è fallibile o può in futuro essere fallibile o sbagliata o falsificata o mutata o abrogata. Almeno questo è il significato elementare delle parole, che desumiamo dal vocabolario.
In secondo luogo l’Ad tuendam Fidem fa una distinzione che non si trova nella Pastor Aeternus – il che ovviamente non vuol dire che la contraddica – e la distinzione è tra dichiarazione di infallibilità ed infallibilità di fatto. Potremmo dire: infallibilità esplicita e infallibilità implicita.
L’Ad tuendam Fidem mette la detta dichiarazione di infallibilità (riferimento alla Pastor aeternus) solo al grado massimo di autorità delle dottrine. E su ciò siamo tutti d’accordo che nel Concilio non ci sono pronunciamenti a questo livello.
Ma il medesimo documento pone altri due gradi, i quali, per essere inferiori, non per questo negano l’infallibilità, se per infallibilità s’intende che “non può essere sbagliato né adesso né in futuro”.
E’ vero che il documento non mette in gioco il termine infallibilità in quei livelli inferiori, ma usa termini equivalenti: al secondo grado si parla di “definitività” o “immutabilità”, mentre al terzo si parla di “verità”. Il che vuol dire – e questa è la novità dell’ Ad tuendam Fidem rispetto alla Pastor aeternus – che può esistere un’infallibilità pontificia esplicita (1° grado ) e una implicita (2° e 3° grado).
Ora, siccome anche nei gradi inferiori si tratta di materia di fede, e l’autorità in merito (pontificia) è evidentemente deputata a trattare di materia di fede, non si vede come qui gli insegnamenti potrebbero essere fallibili o falsificabili o mutabili, il che vuol dire semplicemente che non sono sbagliati e in tal senso sono “infallibili”, se le parole devono conservare il senso che ci è dato dal vocabolario.
Del resto, se si insiste a predicare al popolo di Dio che le dottrine del Concilio “non sono infallibili”, che cosa capisce il buon cattolico col suo normale buon senso basato sul vocabolario che sono fallibili?
Gli vuole spiegare che le dottrine del Concilio non sono infallibili però non sono sbagliate? Mi viene in mente l’idea di Rahner che dice che Dio è immutabile, però è mutabile.
P. Giovanni  Cavalcoli, OP

LA RISPOSTA DEL PROF. ROBERTO DE MATTEI
Caro direttore,
poiché ha avuto la cortesia di farmi conoscere l’ulteriore intervento di padre Cavalcoli, mi sento nell’obbligo di mettere in rilievo le lacune del suo modus argomentandi.
1. Confusione sul termine e concetto di infallibilità
In primo luogo rileviamo, sul piano logico e semantico, una confusa concezione del concetto e del termine di “infallibilità”.
Infallibile secondo qualsiasi buon dizionario, è colui “che non sbaglia e non può sbagliare[1], mentre “fallibile” non è colui che sbaglia, ma colui che è “soggetto a sbagliare[2]. Mentre infallibile coincide con “verace”, fallibile non significa necessariamente “fallace”. Dire che una proposizione è fallibile, non significa dire che invece di essere vera, è necessariamente sbagliata; significa dire che potrebbe non essere vera. Chi è fallibile, insomma, a differenza di chi è infallibile  non è esente dalla possibilità di errore.
Ritenere che il Concilio Vaticano II, in quanto pastorale, è stato “fallibile”, non significa sostenere che sia stato in sé, fallace. Significa dire che alcune sue affermazioni possono essere state erronee od equivoche e quindi correggibili alla luce della Tradizione della Chiesa. Così è, ad esempio, per la dichiarazione Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa.
Affermare invece, come padre Cavalcoli, ed altri autori,  che il Magistero di un Papa o di un Concilio, deve essere sempre e comunque considerato, almeno de facto, infallibile, porta a pericolose conseguenze.  In questo caso i cattolici avrebbero dovuto seguire papa Liberio, quando nel 357 approvò la formula semiariana di Sirmio, scomunicando sant’Atanasio, e avrebbero dovuto approvare papa Onorio, quando nel 634 abbracciò l’eresia monotelita, condannando san Sofronio.
2. Uso improprio dell’Istruzione Ad TuendamFidem
In secondo luogo padre Cavalcoli si appoggia impropriamente alla Lettera Apostolica Ad Tuendam Fidei del 18 maggio 1998. Questo documento ci offre una utile chiave ermeneutica quando afferma che nell’insegnamento della Chiesa occorre discernere tra una gerarchia di fonti, a cui corrisponde una gradazione di assenso da parte del fedele. Dice infatti la Ad Tuendam Fidei:
1) sono da credere con ferma fede le verità insegnate sia dal Magistero solenne e straordinario, che da quello ordinario e universale, Magistero quest’ultimo, spiega la Congregazione per la Dottrina della Fede, che deve essere inteso in senso diacronico e non solo necessariamente sincronico, nella sua estensione non solo nello spazio, ma soprattutto nel tempo, come continuità con la Tradizione;
2) sono da accogliere fermamente e ritenere anche e tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo;
3) occorre aderire con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto alle dottrine che il Romano Pontefice o il Collegio dei Vescovi propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarle con atto definitivo.
Il fatto che esistano tre distinti livelli e che per il terzo si parli di “dottrine” e non di verità, e di ossequio della volontà e dell’intelletto, invece che di assenso di fede, dimostra l’esistenza di una chiara gerarchia delle fonti, da cui scaturiscono importanti conseguenze. Se infatti il cattolico dovesse rilevare un contrasto tra le dottrine non definitive né infallibili  del terzo grado e le verità definitive del secondo, o addirittura infallibili del primo, egli sarebbe tenuto a dare la precedenza al livello superiore  su quello inferiore, o comunque a interpretare la dottrina di terzo grado alla luce di quella di primo e secondo, e non viceversa.
In tema di libertà religiosa ad esempio, se le dottrine proposte con magistero autentico, ma non infallibile, dal Concilio Vaticano II (terzo grado), sembrano in qualche punto discostarsi dalle verità insegnate dal Magistero ordinario e universale (e quindi infallibile) dei Papi, è evidente che bisognerebbe attenersi al primo grado, rifiutandosi di scivolare sul terzo. Non si può chiedere un “ossequio religioso della volontà e dell’intelletto” a dottrine che non hanno lo stesso valore teologico del Magistero infallibile, straordinario od ordinario che esso sia. Per questo, nei momenti di crisi della Chiesa, come quello che viviamo, la “regula fidei” è la Tradizione, che non è altro che il Magistero di primo e secondo grado, che non può essere contraddetto dal terzo. Altrimenti si è costretti, come fa padre Cavalcoli a spiegare l’equivocità di alcuni passaggi del Vaticano II con “fughe in avanti”, inventandosi uno “sviluppo” della Tradizione, laddove c’è solo evidente difformità con essa.
3. Misconoscenza dell’insegnamento della Pastor Aeternus
Del resto un documento pur autorevole, quale la Ad TuendamFidem, non può contraddire un testo infallibile come la costituzione dogmatica Pastor Aeternus del Concilio Vaticano I, che, vale la pena ripeterlo, ha irrevocabilmente stabilito la necessità di tre requisiti perchè un documento pontificio possa essere considerato infallibile. Ovvero:
1) che il documento sia promulgato dal Papa, con o senza il Concilio a lui unito;
2) che la materia riguardi la fede o i costumi;
3) che ci sia, da parte del Papa, l’intenzione di definire e di obbligare i fedeli a credere l’oggetto della definizione.
Nel caso dei sedici documenti del Concilio Vaticano II manca sempre il terzo elemento, e talvolta anche il secondo (ad esempio l’Inter mirifica). Il che significa che tali documenti possono essere sottoposti, con tutta la prudenza del caso, a discussione, a interpretazione, a revisione. E’ questa la strada aperta da Benedetto XVI, con il discorso del 22 dicembre 2005, e percorsa da apprezzati studiosi come mons. Brunero Gherardini, il prof. Paolo Pasqualucci  e tanti altri.
Possibile che padre Cavalcoli misconosca l’insegnamento della Pastor Aeternus e preferisca stare con gli anti infallibilisti di ieri (che sono i superinfallibilisti di oggi) piuttosto che con Pio IX e la tradizione teologica della Chiesa?
Ho conosciuto e stimato il Servo di Dio Tomas Tyn, della cui causa di beatificazione padre Cavalcoli è postulatore, e imploro la sua assistenza dal cielo perché lo illumini e ci illumini nei tempi di estrema difficoltà in cui viviamo.
Con stima
Roberto de Mattei
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    IL DIBATTITO SUL CONCILIO. CRISTINA SICCARDI RISPONDE A P. GIOVANNI CAVALCOLI / 2

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Pubblichiamo questa lettera di Cristina Siccardi, in risposta alla lettera di P. Giovanni Cavalcoli, pubblicata su Riscossa Cristiana il 13 luglio.

cv2

Molto Reverendo
Padre Giovanni Cavalcoli,
il beato Cardinale John Henry Newman diceva di san Filippo Neri che «visse in un’età insidiosa per gli interessi del Cattolicesimo come nessuna che l’ha preceduta o seguita». Anche noi potremmo affermare la stessa identica cosa. Ancora Newman ebbe ad avvertire, di fronte alla «trappola mortale» del liberalismo: «i leaders cattolici dovranno intraprendere grandi iniziative e raggiungere scopi importanti, e avranno bisogno di molta saggezza e di molto coraggio, se la Santa Chiesa deve liberarsi da questa terribile calamità, e, sebbene qualunque prova che cada su di lei sia solo temporanea, può essere straordinariamente dura nel suo decorso». La Chiesa ha bisogno di essere liberata e per esserlo ha bisogno di uomini saggi e coraggiosi che risalgano alle cause di quegli amarissimi frutti conciliari che vediamo sotto i nostri occhi e che, dopo cinquat’anni di crisi della Fede e della Chiesa, nessuno può più negare.
Per rispondere alle Sue critiche faccio mie le puntuali e perfette affermazioni della lettera del Professor Roberto de Mattei comparse su Riscossa Cristiana.
La verità mai si contraddice. Chi, al contrario si arrampica sui vetri per sostenere l’insostenibile scivola. D’altro canto scrive il Cardinale Walter Brandmüller nel suo recente testo Le “chiavi” di Benedetto XVI per interpretare il Vaticano II (Cantagalli 2012): «Il Vaticano II al contrario [dei precedenti Concili, ndr] non ha esercitato la giurisdizione né legiferato, né deliberato su questioni di fede in via definitiva. Esso è stato piuttosto un nuovo tipo di Concilio, in quanto si è concepito come Concilio pastorale, che voleva spiegare al mondo di oggi la dottrina e gli insegnamenti del Vangelo in un modo più attraente e istruttivo. In particolare non ha pronunciato alcuna censura dottrinale. […] il timore di pronunciare sia censure dottrinali che definizioni dogmatiche ha fatto sì che alla fine emergessero pronunciamenti conciliari il cui grado di autenticità e dunque di obbligatorietà fu assolutamente vario. Per cui, ad esempio, le costituzioni Lumen gentium sulla Chiesa e Dei Verbum sulla Rivelazione divina hanno assolutamente il carattere e la cogenza di un autentico pronunciamento dottrinale, sebbene anche qui nulla fu definito in termini strettamente vincolanti, mentre, d’altro canto, la dichiarazione sulla libertà di religione, Dignitatis humanae, secondo Klaus Mörsdorf prende posizione su questioni dell’epoca senza un contenuto normativo evidente» (pp. 54-55).
Di fronte agli sviluppi dell’importante e sempre più incalzante dibattito in corso, dal 2005 ad oggi (ovvero dalle parole pronunciate  dal Santo Padre alla Curia Romana del 22 dicembre di quell’anno) non ci si può più foderare gli occhi, altrimenti si finisce di fare come il faraone d’Egitto che continuava ostinatamente e pervicacemente a non lasciare partire Mosè e la sua gente, nonostante la sua terra, proprio per sua colpa, subisse, l’una dopo l’altra, le dieci piaghe mandate da Dio.
Lei, Padre, si pone sulla scia di coloro che hanno una visione «carismatica» del Magistero. Ha analizzato sapientemente il teologo padre Serafino Lanzetta FI nel suo editoriale a «Fides Catholica» n. 2 del 2011 dal titolo «Un “anno della fede” a cinquant’anni dal Concilio. Tra ermeneutiche in conflitto». Dentro al Concilio sono avvenute delle riforme che hanno «interessato anche le dottrine e questo principiando non dalle dottrine ma dal modo di insegnarle, dalle forme storiche contingenti, in primis, dalla forma espositiva e linguistica, ovvero da una nuova metodologia, più pastorale ed ecumenica. Di fatto la dottrina – alcune dottrine - è così “nuova”. L’accavallamento di soggettivo e oggettivo nella libertà religiosa è un paradigma. Ma gli esempi riguardano anche altri ambiti come l’ispirazione dei libri sacri, il rapporto Scrittura e Tradizione, la Collegialità episcopale, il concetto di ecumenismo, che fa leva quasi esclusivamente sul sacramento del Battesimo. Si è indubbiamente di fronte ad un insegnamento nuovo […]. Nel Vaticano II ciò che è da appurare anzitutto è la continuità e la discontinuità, secondo livelli diversi, si collocano sul piano del soggetto docente e della dottrina insegnata, altrimenti si rischia solo di declamare la continuità delle dottrine ma senza verificarla. Si rischia di voler conservare col Vaticano II uno status quo nella Chiesa. Se così non fosse, se la difficoltà ermeneutica cioè non ascendesse fino al rango degli asserti magisteriali, del loro essere semplice sviluppo o piuttosto una nuova forma, una ri-forma della dottrina cattolica, sarebbe già risolta tutta la difficoltà ermeneutica, che invece è il vero rompicapo per valutare correttamente il Vaticano II. Se la difficoltà ermeneutica non riguarda la dottrina di prima e quella di dopo, cade la stessa necessità di un’ermeneutica giusta per appurarne la continuità: questa sarebbe semplicemente evidente. […]. Il problema ermeneutico del Vaticano II implica 3 aspetti distinti:
  1. Nel concilio ci sono delle dottrine nuove;
  2. Queste sono uno sviluppo e/o ri-forma delle dottrine classiche;
  3. Il grado dell’asserto magisteriale delle dottrine conciliari».
Allora i teologi a queste serissime due domande, poste da Padre Lanzetta, sono tenuti a rispondere per il bene della Chiesa, per il bene delle anime (quante se ne perdono perché non viene più trasmessa la vera Fede? La responsabilità davanti a Nostro Signore è davvero spaventosa… di fronte a ciò non si può fare come Pilato): «In che modo il magistero del Vaticano II si colloca in continuità con quello precedente? Dove si coglie la continuità?». Ecco che Monsignor Brunero Gherardini, con il suo grido d’allarme, desta i sonnolenti che affermano: «la continuità è garantita dal magistero stesso». Afferma ancora Padre Lanzetta nel suo editoriale: «per il fatto che siamo dinanzi ad un’asserzione del Vaticano II, dunque del magistero solenne, abbiamo la continuità. Fondamentalmente è la posizione di P. Giovanni Cavalcoli […]. Il magistero diventa ragione di se stesso. […]. Il problema “cuore”, dunque, è coordinare continuità e discontinuità secondo livelli differenti, in modo da leggere una nuova dottrina insegnata dal medesimo soggetto. È proprio qui il nodo: la continuità è assicurata dall’unico soggetto che insegna, il magistero, che però non si identifica con la Chiesa e con l’infallibilità totale di essa, rimanendo questa più ampia e includendo ad esempio il sensus fidei del Popolo credente, dunque un’infallibilità in credendo che precede e fonda quella in docendo. È necessario radicare in modo assoluto, oggi più che mai, l’infallibilità del magistero, nelle Verità credute infallibilmente per mezzo della fede, per evitare di scadere in una visione meramente “burocratica”, in cui il soggetto docente diventerebbe l’ultima ragione del porsi della verità stessa. Ci sarà sempre un Küng, che potrà inveire contro il monopolio del “potere romano”, dimenticando che la gerarchia è un’origine sacra, scende dall’alto quale munus, ministero, servizio alla Verità».
È venuto a crearsi un fortilizio dentro il quale coloro chi si fanno paladini del Vaticano II hanno paura che le carte vengano scoperte alla luce del sole, senza pregiudizi, senza malafede. Alle teologiche e documentate argomentazioni di Monsignor Gherardini e alle storiografiche e documentate affermazioni del professor de Mattei, si risponde con fumogene confutazioni, dove il luogo comune fa da padrone.
Il Vaticano II va considerato su quattro distinti livelli, come insegna Monsignor Gherardini:
a)      Quello generico, del Concilio ecumenico in quanto Concilio ecumenico;
b)      Quello, specifico, del taglio pastorale;
c)      Quello dell’appello ad altri Concili;
d)     Quello delle innovazioni.
Il quarto livello è il più problematico, perché è innegabile che le innovazioni (tali perché mai, fino ad allora, contemplate nella Chiesa) hanno introdotto un nuova cattolicità, più in sintonia con le istanze contingenti del mondo, che con il Credo da sempre professato. Sono proprio tali innovazioni, che alcuni “addetti ai lavori” hanno finalmente individuato e focalizzato, ad essere la causa, la radice del malessere generale della cattolicità. La Tradizione sarà la terapia, ma prima occorre affrontare il problema nel concreto e nella Verità.
È ormai evidente che tutti i mali che oggi affliggono la Chiesa derivano, direttamente o indirettamente, dalla crisi della Fede e, più precisamente, da quella protestantizzazione che sposta la Fede dal suo oggettivo contenuto al soggetto che la insegna e/o la apprende. Ecco perché la pretesa continuità dei documenti conciliari con la Tradizione può e deve essere valutata principalmente, se non essenzialmente, sul piano oggettivo dei contenuti, più che su quello soggettivo di chi li ha pronunciati, visto che quello stesso soggetto (è bene sempre ribadirlo) ha rifiutato ogni tipo di infallibilità. Fare il contrario è cadere in una pericolosa forma di soggettivismo, quella che Padre Lanzetta definisce concezione carismatica del Magistero: il Magistero annuncia la Verità e non la crea e, quando non è infallibile, è gerarchicamente subordinato alla Tradizione, questa sì infallibile. Per uscire dall’ormai innegabile crisi della Chiesa occorrono pastori vigili e responsabili che facciano scudo contro le «terribili calamità» soggettivistiche denunciate nel XIX secolo dal beato Newman, nel XX da san Pio X e nel XXI da Benedetto XVI e che oggi ci colpiscono senza pietà, offendendo Cristo Re e la sua mistica Sposa.


Cristina Siccardi

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