L’automobile
è la divinità dei nostri tempi e il suo culto è la nuova religione di
salvezza, con una sua teologia, con i suoi dogmi, con le sue eresie da
reprimere nel sangue?
Forse
essa è venuta ad occupare, nel Pantheon politeista della tarda
modernità, un ruolo egemone e smagliante, paragonabile a quello di Zeus
in cima all’Olimpo, con il televisore, il telefonino, il computer e i
giochi elettronici nei ruoli subordinati, ma pur sempre onorevoli ed
essenziali, svolti da Hera, Ermes, Ares e Afrodite?
E
noi, cittadini del terzo millennio che non possiamo più fare a meno
dell’automobile, né degli altri accessori della tecnologia; che non
possiamo trovare né conservare un lavoro se non possediamo automobile,
telefonino e computer; anzi, che non riusciamo a trovare nemmeno uno
straccio di uomo o di donna per riempire la nostra solitudine, se non
possediamo e non sappiamo usare con destrezza tali sacri oggetti, siamo
forse diventati i seguaci di un nuovo culto, di cui i tecnici, i
programmatori e i designer industriali sono i nuovi sommi sacerdoti,
mentre le funzioni diaconali vengono disimpegnate da legioni di
rivenditori autorizzati e, naturalmente, di addetti alla riparazione e
alla manutenzione?
Potrebbe
sembrare indelicato e quasi di cattivo gusto porsi tali interrogativi
proprio adesso, che la crisi produttiva del settore automobilistico,
almeno in Italia, morde a sangue il nostro tessuto sociale e getta ombre
sempre più fosche e inquietanti sul nostro avvenire, che gli economisti
legano indissolubilmente alla ripresa economica basata sullo sviluppo,
ossia sulle stesse linee guida che ci hanno portato nel presente vicolo
cieco.
Finché
la F.I.A.T. e le altre case automobilistiche andavano forte, finché
vendevano migliaia di automobili al giorno in tutto il mondo, finché
riempivano le strade e le autostrade con i loro ultimi modelli, fare la
parte del diavolo e insinuare che, prima o poi, ci sarebbe stata una
crisi di sovrapproduzione e che, pertanto, forse era bene ripensare un
tale modello di sviluppo, anzi l’idea di sviluppo in se stessa, era cosa
che costava poco o niente e che appariva politicamente corretta, almeno
finché si restava sull’innocuo terreno della critica teorica; ma adesso
che migliaia e migliaia di posti lavoro sono a rischio, è lecito fare
un discorso del genere?
Ebbene
noi riteniamo che non solo sia lecito, ma doveroso; e non certo per
insensibilità verso gli operai che hanno perso o stanno perdendo il loro
posto di lavoro, ma perché, se non riusciremo a rivedere alcune nostre
certezze sbagliate che ci portiamo dietro da troppo tempo, non faremo
altro che inseguire il miraggio di una ripresa impossibile,
precludendoci le ultime possibilità di trovare delle vie d’uscita,
passando per la presa d’atto della insostenibilità dell’attuale modello
produttivo e acquisendo la consapevolezza della assoluta, inderogabile
necessità di ripensare la religione dell’automobile, che ci ha portati
dove ci ha portati.
Si
dirà che in Germania, negli Stati Uniti e in Giappone si continuano a
vendere le automobili; ed è vero, ma stanno raschiando il fondo del
barile. Che il mercato mondiale sia sul punto di saturarsi, è un fatto;
che, poi, le strutture capitalistiche più robuste e collaudate, quelle
più elastiche e innovative, riescano ancora a vendere automobili,
strappandosi le une con le altre gli ultimi pezzi di mercato, è un altro
fatto: ma non deve far perdere di vista l’essenziale, ossia
l’insostenibilità di un modello economico basato sulla produzione
illimitata di beni, da sostenersi mediante la creazione paranoica,
compulsiva, di sempre nuovi bisogni artificiali.
Dove
non sono arrivati, finora, il buon senso, la saggezza e la
lungimiranza, sta arrivando la crisi economica: soldi da spendere per
acquistare nuovi modelli di automobile, molte famiglie non ne hanno più;
a stento ne trovano per affrontare le spese essenziali e
indispensabili, dal cibo all’affitto e alla stessa benzina, peraltro
riducendo sempre più l’uso del mezzo di trasporto privato. E se nemmeno
questo basterà, vuol dire che la pazzia ha preso il posto di ogni
ragionevolezza.
L’interrogativo
che dobbiamo porci, dunque, non è se si possa continuare a credere
nella religione dell’automobile, perché il grande dio Pan è morto, e
solo i suoi seguaci più fanatici e irragionevoli non se ne sono ancora
accorti; e nemmeno se l’automobile con il motore diesel o quella
elettrica potranno rimpiazzare, e in quanto tempo, le automobili a
benzina, perché è certo che questo avverrà e anche abbastanza presto, ma
non è altrettanto certo che questo risolverà il problema produttivo e,
di conseguenza, occupazionale.
Il
punto è se vogliamo continuare a praticare la religione del consumo e
dello sviluppo o se vogliamo considerare la possibilità di convertirci
alla religione della sobrietà, del limite, della decrescita, proprio in
vista di un futuro migliore e non peggiore di quello che ci si offre
nell’attuale congiuntura e secondo le attuali, ragionevoli prospettive;
un futuro più felice e non più cupo, più aperto alla speranza per le
generazioni future e non più scoraggiante, da vivere in amicizia con gli
altri viventi e con l’ambiente e non in guerra permanente contro di
essi, come fossero dei nemici da piegare, sottomettere e sfruttare senza
limite alcuno.
Così
scriveva il giornalista Carlo Laurenzi, visitando il Salone
dell’automobile a Torino nell’ormai lontano 1968, ma con accenti che
risuonano di impressionante attualità (dal volume miscellaneo «Il
Milione 1968», De Agostini; cit. in: Angelo Gianni e
Antonio Desideri, «Momenti e problemi del nostro tempo»,
Messina-Firenze, Casa Editrice G. D’Anna, 1970, 1977, vol. 3, pp.
333-36):
«Si
ripete che gli uomini di oggi sono tutti tendenzialmente edonisti, che
questa nostra epoca è irreligiosa. Ma le cose non stanno proprio così.
Noi possiamo non avere fede, magari non avere speranza; rimarrà sempre
una luce o un’ombra di mito dentro di noi. Forse siamo idolatri, e non
ha importanza che abbiamo costruito gli idoli con le nostre mani.
L’essenziale è che gli idoli ci sovrastino e ci trascendano, il che
regolarmente avviene. Il Salone dell’Automobile di Torino è un evento
che tentiamo di esorcizzare col definirlo “tecnico” o “commerciale”: in
realtà è un evento primordiale e mistico.
Alla
base è il candore: chi entra nel santuario è innocente, ovvero fruisce
di una pausa innocente. Io non ho visto se non popolazioni italiane
entrare nella grande chiesa delle automobili, ma è certo che i
visitatori di Francoforte, di Londra, di Parigi, di Ginevra non sono
dissimili dai nostri fedeli. A Torino i fedeli ammontano a parecchie
decine di migliaia ogni giorno. Naturalmente, tutti gli alberghi della
città sono pieni, ma questo accadrebbe anche per una fiera di minore
richiamo. La maggioranza dei pellegrini affluiscono ininterrottamente
dalle città del nord, lungo le autostrade, soprattutto a
bordo di pullman; altri pullman vengono da molto lontano e viaggiano di
notte, cosicché i pellegrini dormono inquieti nel viaggio, sognando ciò
che vedranno o fantasticando su quello che hanno veduto. Piove. Le
autostrade sono lucide e viscide; ogni lume è sinistro, ogni stazione di
servizio rosseggia come un piccolo cerchio d’inferno nelle notti nere.
Torino è pavesata di striscioni multicolori, inneggianti alle marche,
alla gioia di vivere su quattro ruote, ai tempi di
percorrenza del “chilometro lanciato”. Queste cifre, questi nomi stanno
come nomi di angeli o giaculatorie. Da qualche torpedone scendono stuoli
di scolari, guidati da un allucinato maestro. In certi pellegrini di
provincia la semplicità e l’entusiasmo sono così puri che potete vedere
quei pellegrini, pazienti, mettersi in fila per accedere al
vagone-ristorante insabbiato nel recinto della fiera: allo steso modo,
nella foresteria della Verna, i romei si pascevano del perfido, ma
salutifero cibo dei frati
.I
richiami fra una religione e l’altra sono fitti e facili. Ecco: se chi
entra in chiesa si dirige subito verso l’acquasantiera, così il
visitatore del salone, con un gesto rituale assai simile, depone la sua
scheda (un tagliando del suo biglietto d’ingresso) in un’urna trasparente. Per quasi tutti questo gesto sarà inutile o varrà come prova di
propiziazione o creanza; per uno, ogni giorno, il gesto verrà
ricompensato a usura, e il suo nome, suscitando una feconda invidia,
sarà pubblicato dai quotidiani subalpini. La mano di una ragazza,
vigilata dall’occhio di un notaio, avrà estratto dall’urna la sua
scheda: gli sarà donata un’automobile e ciò significa che, secondo la
liturgia dei saloni, egli sarà stato colmato di grazia. Io spero che
nessuno troverò irriverente questo paragone e altri paragoni possibili.
L’anima dell’uomo è sempre la medesima, nelle spire del desiderio, nel
timore, in una prospettiva di ricompensa, di fronte alla bramosia di
salvarsi, nel pretendere confusamente che una lotteria lo riscatti, o
implorando perdono. Quest’anima, in modo spesso non consapevole,
accoglie una religione o la crea. Alcune religioni tendono all’alto;
alcune divinizzano invece il concetto. Non si negherà che l’automobile
sia, oggi, il più concreto e insieme il più solenne degli idoli.
Personalmente, rinuncerei ai vantaggi veri della cosiddetta civiltà
tecnologica (che non sono pochi) purché ci sottraessimo alla schiavitù
dell’automobile. Ma con quale possibilità di successo un profeta,
ammesso che vi siano profeti, tuonerebbe, si solleverebbe, oggi, contro
il vitello d’oro?
La
potenza del vitello d’oro consiste in questo: che l’uomo ha l’illusione
di soggiogarlo, nel momento stesso in cui ne è soggiogato.
Un’automobile vive con l’uomo. Ha bisogno dell’uomo per mantenersi,
proprio come l’uomo ha bisogno dell’automobile per vincere il proprio
limite, trasformandosi in un’entità solitaria, volvente, potenzialmente
aggressiva, veloce. L’automobile e l’uomo, dunque, danno luogo a una
simbiosi notevolmente mostruosa (se la giudichiamo da un punto di vista
classico) che ricorda un poco le turpi creature dell’Ade. Ci fu un
tempo, fino a non moltissimi anni fa, i cui l’automobilismo è stato uno
sport o un diporto. Adesso, generalizzandosi, una maniera
di vivere, e forse, cosa terribile, è la vita: la vita che ci chiude in
scatole di acciaio, così disperati e soli. Simili a una turba di
conquistatori scesa da un altro pianeta, le scatole d’’acciaio sono fra
noi, padrone di noi, adorate e servite, custodi del destino degli
uomini? Poche righe di fantascienza contengono, forse, l’intera storia
contemporanea, e illuminano il devastante futuro.
Si
accede al salone come a un tempio. I fedeli sono avidi e pallidi,
l’eccitazione stessa impedisce che il brusio delle voci si faccia
clamore. Molti guardano senza capire; effettivamente non c’è molto da
capire. L’essenziale è che le automobili stiano sui piedistalli,
lucenti, compatte nelle loro tinte notturne o solari.
Alcune ruotano su piedistalli girevoli, con lenta maestà. Altre,
sorvegliate da sacerdoti bonari, sono accessibili ai fedeli: il cofano
del motore è aperto, a mostrare un cuore di alluminio e talvolta, nel
brivido di chi guarda, tre carburatori. L’abitacolo è
accessibile: in tal caso la ressa dei pellegrini può farsi rischiosa.
Con ansia, secondo turni accelerati, i pellegrini verificano se la nuova
granturismo sprint, della quale i giornalisti hanno scritto che è
soltanto una due più due, disponga realmente di quattro posti, come
sostiene la casa. La donne vengono spinte nell’abitacolo posteriore,
pigiate; gli uomini siedono al volante, tentano i comandi, dicono a
bassa voce: “Non dovrebbe essere difficile adattarsi a una guida meno
lunga”, o sciocchezze del genere, con passione, con serietà, senza
traccia di umorismo. Nulla è così arduamente rintracciabile, in un
salone dell’automobile, come l’umorismo.
Anche
l’erotismo, l’altro cardine del costume contemporaneo, è dimenticato:
nessuno (per quanto la cosa non appaia quasi credibile) guarda le donne,
quando riemergono, faticosamente e scompostamente, dall’abitacolo
posteriore delle due più due. Non ho mai visto corteggiare nessuna delle
belle ragazze degli stands, le quali hanno uniformi provocanti e occhi
bistrati,. Esse sono ritenute angeli, da cui è lecito ricevere
informazioni sui prezzi di listino e ottenere il dono carismatico di
stampati pubblicitari. L’innocenza dei saloni non ha confini.»
Forse,
a proposito di quest’ultima osservazione di Laurenzi, si potrebbe
obiettare che l’erotismo c’è, ma non è più rivolto agli esseri umani,
bensì alle automobili stesse: è un erotismo tecnologico e curiosamente
asessuato, nel senso che l’automobile non è maschio né femmina, semmai è
angelo, per continuare con le analogie dell’autore; ma un angelo che è
lecito guardare sessualmente, che anzi diviene l’oggetto del desiderio;
mentre questo desiderio, più che sublimato, viene trasformato in una
nuova forma di patologia sessuale: accanto alla gerontofilia e alla
pedofilia, alla necrofilia e al feticismo, ecco nascere e imporsi
l’attrazione sessuale per una scatola di metallo. A ogni secolo le sue
inclinazioni e le sue perversioni.
Ad
ogni modo, per oltrepassare la morente religione dell’automobile,
bisogna capire bene che cosa essa sia, o che cosa sia stata: non la
religione di un oggetto, ma di un modo di vita. Pertanto è un modo di
vita che deve essere cambiato e rovesciato, non soltanto un oggetto; non
si tratta di non adorare più quell’oggetto, ma di modificare
radicalmente la propria filosofia di vita.
La
filosofia di vita della vecchia religione, o della vecchia idolatria,
si fondava sulla quantità: di più, sempre di più: maggiore potenza,
maggiore velocità, possibilità di fare un maggior numero di cose in un
tempo più breve. In luogo di essa è necessario rifondare una religione
basata sulla qualità della vita: non più velocità, più potenza e più
cose di cui disporre; non più dominio e più manipolazione di esse; ma,
al contrario, un prendersi cura amorevole dei propri bisogni autentici,
cercando non la competizione sfrenata, ma la collaborazione con l’altro e
ricordando sempre di essere ospiti, non padroni della Terra che
abitiamo insieme agli altri viventi.
L’automobile
è l’ipostatizzazione devozionale della forza, della tecnica aggressiva,
della velocità guerresca (non per nulla piaceva tanto a Filippo Tommaso
Marinetti); il suo motore rombante è il surrogato dell’atto sessuale e,
nello stesso tempo, della lotta contro gli altri: esso permette di
superarli, mediante una maggiore potenza e una guida spavalda e
spericolata; e superarli equivale a ucciderli simbolicamente,
trapassandoli con la lancia del proprio volante e cremandoli con i gas
del tubo di scappamento. Si tratta, quindi, di uno strumento che
dovrebbe compensare frustrazioni e complessi, anche di natura sessuale;
ma che, per la dinamica stessa di qualunque manifestazione consumista,
finisce per aggravarli e cronicizzarli.
Si
tratta, allora, di riscoprire il piacere delle cose semplici, degli
affetti, della contemplazione, del contatto autentico con la natura; di
elaborare o ritrovare una filosofia di vita non aggressiva, non
esasperatamente competitiva, ma pacifica e benevola, nella quale le cose
siano realmente al servizio dell’uomo e non mai usate in maniera tale
da dominarlo. Le automobili non scompariranno, ma dovranno essere
adoperate in maniera più sobria, più parca e più saggia: torneranno a
essere un mezzo di trasporto come altri, non particolarmente
raccomandabile per i suoi effetti collaterali di tipo ecologico e
sociale, e non sarà più considerata uno status symbol; meno che meno,
uno strumento per compensare le frustrazioni, sessuali o d’altro genere.
Che
bel giorno sarà quello in cui gi uomini torneranno a guardare con
stupore, ammirazione e desiderio, non più le automobili, ma le donne; e
le donne, gli uomini…
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.