Con la rinuncia della difesa di Claudio Sciarpelletti di ricorrere in appello contro la sentenza di condanna a quattro mesi, ridotta a due con pena sospesa, per favoreggiamento, e con la pubblicazione delle motivazioni del processo stralcio al tecnico informatico della Segreteria di Stato avvenuta oggi, i procedimenti giudiziari vaticani sul caso vatileaks si possono dire conclusi. Almeno momentaneamente. Resta ancora aperto, infatti, il filone di indagine riguardanti reati più gravi – come l’attentato contro la sicurezza dello Stato – come pure il procedimento aperto per verificare se si siano verificati i maltrattamenti in cella denunciati da Paolo Gabriele. L’impressione è che Oltretevere si cerchi di voltare pagina e di chiudere una vicenda durata quasi un anno e destinata a segnare profondamente la vita della Santa Sede.
Avendo letto la sentenza pubblicata oggi, e devo dire che faccio fatica a comprendere fino il fondo il ragionamento dei giudici. I fatti: Sciarpelletti viene trovato in possesso di carte (non documenti riservati provenienti dall’appartamento papale) riguardanti la gendarmeria vaticana, quelle che finiranno nel libro di Gianluigi Nuzzi e che riguardano il capo dei gendarmi, il generale Domenico Giani, definito “Un Napoleone in Vaticano”. Il tecnico informatico – che era in contatto con Paolo Gabriele – prima dice che la busta gliel’ha data l’aiutante di camera del Papa per chiedere un parere, poi cambia versione e dice che in realtà gliel’ha data monsignor Carlo Maria Polvani per farla arrivare a Gabriele. Per queste diverse versioni date agli inquirenti che per una notte lo hanno tenuto nelle celle vaticane, Sciarpelletti è stato riconosciuto colpevole di favoreggiamento: ha cambiato il suo iniziale racconto per cercare di alleggerire la posizione di Paolo Gabriele. Questa è la convinzione dei giudici che che si legge nella sentenza odierna.
C’è un particolare che personalmente non mi convince del tutto. Sciarpelletti era molto vicino al suo capo ufficio, monsignor Carlo Maria Polvani, nipote dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò. Polvani al processo ha affermato: “Notai, nel periodo tra maggio e giugno 2012, un mutamento di atteggiamento del Sig. Sciarpelletti nei miei confronti:
da quello precedente molto espansivo e gioviale ad un atteggiamento più riservato e cupo, tant’è che decisi di andare a trovarlo, per ragioni d’ufficio, e lui mi rivolse delle espressioni come ‘mi dovrai comprendere, perdonare, debbo pensare ai miei figli‘. Allora non compresi il senso di queste espressioni, ma lo capii dopo il 13 agosto 2012” (cioè dopo la sentenza di rinvio a giudizio per favoreggiamento, ndr).
da quello precedente molto espansivo e gioviale ad un atteggiamento più riservato e cupo, tant’è che decisi di andare a trovarlo, per ragioni d’ufficio, e lui mi rivolse delle espressioni come ‘mi dovrai comprendere, perdonare, debbo pensare ai miei figli‘. Allora non compresi il senso di queste espressioni, ma lo capii dopo il 13 agosto 2012” (cioè dopo la sentenza di rinvio a giudizio per favoreggiamento, ndr).
Secondo queste affermazioni riferite da monsignor Polvani – che i giudici hanno ritenuto attendibili – Sciarpelletti si sarebbe dunque scusato con lui per averlo tirato inopinatamente in ballo, coinvolgendolo nei vatileaks. Ma perché scagionando Gabriele e accusando Polvani, il tecnico informatico avrebbe pensato ai suoi figli? Perché mai proteggere l’aiutante di camera trovato in possesso di una notevole mole di documenti provenienti dall’appartamento papale e reo confesso, avrebbe dovuto rassicurare la posizione di Sciarpelletti in Vaticano?
Ci sono, ovviamente, diverse possibili risposte. Una di queste è la confusione, l’incapacità di reggere la pressione degli eventi, la consapevolezza di essere finito nel mirino degli investigatori… I giudici però ritengono Sciarpelletti colpevole di favoreggiamento nei confronti di Gabriele, e dunque la sua sarebbe stata un’azione pensata per aiutare l’ex maggiordomo. La logica però vorrebbe che proprio per salvare se stesso pensando alla sua famiglia, il tecnico informatico avrebbe dovuto continuare a sostenere la verità, e cioè che la busta gliel’aveva consegnata proprio Paolo Gabriele.
Perché, dopo aver accusato “Paoletto” in un primo momento, ha cambiato versione tirando invece in ballo monsignor Polvani, il suo superiore, con il quale aveva un buon rapporto? E perché questo cambiamento di versione, che gli è costato il processo e la condanna – seppur molto blanda – per favoreggiamento, avrebbe dovuto aiutare la sua posizione e garantire la sua famiglia e i suoi figli? A questa domanda la sentenza non risponde. E non c’è risposta univoca. Si possono fare soltanto delle ipotesi: una di queste è che in quel momento, nell’ultima settimana di maggio, gli investigatori vaticani fossero alla ricerca di complici di Paolo Gabriele e Sciarpelletti, sotto pressione e in evidente confusione a seguito dell’arresto, abbia pensato che fare il nome del nipote di monsignor Viganò coinvolgendolo nei vatileaks avrebbe potuto aiutarlo.
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