SUCCESSORE DI PIETRO O VICARIO DI CRISTO?
<>Nelle molteplici notizie, informazioni ed interpretazioni che circolano sulla rinuncia e/o dimissione di Benedetto XVI, nello stesso annuncio latino dell’11 febbraio con cui il Pontefice ha reso pubblico il proprio ritiro, si legge, quale sua unica dignità e funzione, quella di essere “Successore di Pietro”, cosa che ha ribadito egli stesso, in versione linguistica diversa, quando nel discorso, tenuto il 14 febbraio, al Clero romano ha detto di considerare un dono della Provvidenza incontrare il clero romano “prima di lasciare il ministero petrino”.
Ora, se si evidenzia soltanto tale “qualifica”, sembra ragionevole, con l’applauso e il compiacimento di tutta l’opinione pubblica massime quella dei nemici di Dio – Danai et dona ferentes - apprezzare ed intendere quel gesto come esercizio di libera coscienza connotato di squisita umanità.
Un gesto, umanamente e largamente lodato “intra et extra moenia Ecclesiae”. Ma Intanto conviene ricordare a Sua Santità quanto Gesù fa presente ai suoi discepoli a proposito del plauso del mondo: “Vae cum benedixerint vobis homines; secundum haec enim faciebant pseudoprophetis patres eorum” (Lc. 6,26) e, soprattutto, desideriamo ulteriormente rammentare, con alto rispetto e con discreta fermezza, che in lui persiste un carattere indelebile in virtù del quale “semel abbas semper abbas”, “Pontifex in Aeternum”, un segno ben più forte e alto che non il “Successor Petri”. Intendiamo parlare del suo essere “Vicarius Christi”, dignità che lo pone al di sopra delle usuali e correnti competenze amministrative, dottrinarie o diplomatiche.
Vorremmo, inoltre, rammentare come egli, al momento di accettare il primario ruolo di Vicario di Cristo – 19 aprile 2005 – chiese ai fedeli convenuti in piazza San Pietro, o in ascolto in tutto il mondo,di pregare affinché “non fuggisse davanti ai lupi”. Ora che i lupi, sotto forma di discordie, di trame, di contestazioni sono apparsi, egli chiude l’ovile e se ne va lasciando a guardia del gregge lupi, appunto, volpi e faine.
Qualcuno, in questi giorni, con un paragone forse graffiante e poco opportuno, lo ha accostato alla figura di quel capitano che, tempo fa abbandonò la sua nave solo per mettere se stesso in salvo davanti agli eventi del naufragio. Ma, in fondo, non è lo stesso concetto espresso dall’Arcivescovo di Cracovia mons. Stanislao Dziwisz, segretario di Giovanni Paolo II, quando ha, amaramente, commentato: “dalla Croce non si scende”?
E’ la stessa osservazione che il cardinal Federigo Borromeo– cfr. I Promessi Sposi , XXV, 315 – rivolge a don Abbondio quando gli ricorda che, al momento della sua consacrazione a sacerdote, Cristo non gli garantì alcuna salvaguardia o altra “sicurtà della vita”.
Ma c’è altro ancora. Nell’annuncio sopra citato, Benedetto XVI dichiara di voler, in piena libertà di coscienza, rinunciare al “Ministero di Vescovo di Roma e di Successore di Pietro affidatogli per mano dei cardinali”. Emerge, e lo diciamo con non poca sorpresa e perplessità, l’assenza del benché minimo cenno allo Spirito Santo, Colui che – per i suoi imperscrutabili disegni – permette l’elezione di santi o insignificanti pontefici.
Non pensiamo trattarsi di mera dimenticanza, anzi, crediamo che si configuri come coerente e conseguente dottrina personale dacché l’intero ministero papale di Benedetto XVI s’è condotto sul sentiero del predecessore, un sentiero caratterizzato da ansie prettamente antropologiche, da cure umane troppo umane, da attenzioni alle cose di quaggiù con notevole disinteresse delle cose di lassù.
Nel comunicato che annuncia la sua “disdetta” emerge un particolare passaggio, quello in cui il Pontefice giustifica il suo gesto dipendente dai rapidi e incombenti mutamenti del mondo moderno a cui la Chiesa deve dar risposta e con cui deve commisurarsi e ai quali egli, per l’età avanzata –ingravescente aetate – non sarebbe in grado di rilanciare la sfida. Ed ecco, allora, la necessità di lasciare la barca di san Pietro.
Ora, noi siamo convinti che la Chiesa postconciliare abbia concesso peso eccessivo agli aspetti mondani al punto da far confluire Cristo nello “spirito del tempo” invece di indirizzare i tempi verso Cristo e, per mascherare tale cambio di catechesi, abbia dichiarato giunto il momento, per la Chiesa - numquam reformanda quia numquam deformata - di aprirsi al mondo, spalancare le finestre per un soffio di aria fresca, aggiornarsi per non perdere il passo con le realtà della società, vivere una seconda Pentecoste.
In pratica, la Chiesa di Giovanni XXIII, di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, confidando in se stessa più in Colui che è Via-Verità-Vita, ha accettato, come sfida, il dono offerto dal tentatore – la mondanità - lo stesso proposto a Gesù nel deserto, con l’ambizione di poterlo convertire e trasformare in merce preziosa. Ma le sfide del mondo sono apparse, a Benedetto XVI, insostenibili soprattutto perché per vincerle necessita l’ausilio di Dio e, soprattutto, perché esse sono sfide “infide” che sorgono dall’interno stesso della Chiesa, in termini di capovolgimenti dogmatici, liturgici e disciplinari.
Mons Vincenzo Paglia ha, ad esempio, col suo pronunciamento sussurrato alla stampa, fatto presente la necessità di entrare nella problematica delle coppie omosessuali, nella problematica dei divorziati cattolici e, probabilmente, del matrimonio dei preti. Sfide a cui Papa Ratzinger non potrebbe far fronte pur se sua, storicamente parlando, è stata responsabilità di averle tenute nell’incubatrice, dacché, davanti a fenomeni, quali la “Pfarrer iniziative”, quali le manifestazioni pseudoartistiche anticattoliche, quali gli interventi nettamente deviati di taluni prelati, vescovi e parroci, egli ha taciuto sperando, così come sperava Giovanni XXIII, o come attestava il cardinal Martini a Don Verzè, che “l’errore che si correggesse da solo”, e tacendo ha preferito lasciare, confidando nella comprensione umana più che nell’aiuto di Dio.
L’abbandono di Benedetto XVI lascia la Chiesa in un marasma dottrinario con il neomodernismo in forte aggressività e avanzata, in un dissesto liturgico, con le commistioni sincretistiche e le concelebrazioni spurie, figlie di Assisi 1986/2011 – cattolici, massoni, luterani, buddisti insieme – il tutto nell’oceanica vastità di un relativismo etico che, da tempo, ha fatto piazza pulita del senso di peccato mortale e veniale, che ha cancellato la nozione di merito e castigo, di inferno e di paradiso, quel relativismo che egli ha sempre denunciato, mai, però, predisponendo efficaci misure ed interventi risolutivi.
Ed ora, come dice la saggezza latina “motus in fine velocior”: pullulano, infatti, sotto la spinta iniziale del Decreto conciliare “Apostolicam Actuositatem”, i movimenti che, da tempo, si sono costituiti in “regioni autonome” – neocatecumenali, carismatici, focolarini, egidiani, CL, cursillos, Luce e vita, cattolici vegetariani ecc. . . - con proprie regole, proprii riti e propria dottrina, non diversamente da quelle repubbliche teologiche nordeuropee sorte all’indomani della nefasta e satanica “riforma” luterana” – Muntzer, i Taboriti, Jacob da Leyda, tanto per citare.
Le stesse Conferenze episcopali son divenute, in virtù di quel principio di collegialità dalla Chiesa preconciliare sempre respinto, centri di potere, vere e proprie “unioni di fatto”, come le definisce Maurizio Blondet. A distanza di otto anni dalla sua elezione a sommo pontefice, sembrano emblematiche, strane e lontane quelle parole che rivolse al suo intervistatore, col dire “Oggi più che mai il Signore ci ha resi consapevoli che Lui soltanto può salvare la sua Chiesa. Essa è di Cristo, tocca a Lui provvedere. A noi è chiesto di lavorare al massimo delle forze, senza angosce, con la serenità di chi è consapevole di essere servo inutile pur dopo aver fatto tutto il suo dovere. Anche in questo richiamo alla pochezza vedo una delle grazie di questo periodo difficile. Un periodo in cui ci è richiesta la pazienza, questa forma quotidiana dell’amore. Un amore in cui sono presenti al tempo stesso la fede e la speranza” (Benedetto XVI – Rapporto sulla fede ( a cura di V. Messori) – Ed. San Paolo 2005 – pag. 10).
Profonde parole, bei pensieri dall’11 febbraio 2013 completamente disattesi.
E Cristo, a cui il suo vicario in terra ha pensato bene, in piena libertà di coscienza, di lasciare la guida, saprà come provvedere. In tutti i sensi.
Ora, se si evidenzia soltanto tale “qualifica”, sembra ragionevole, con l’applauso e il compiacimento di tutta l’opinione pubblica massime quella dei nemici di Dio – Danai et dona ferentes - apprezzare ed intendere quel gesto come esercizio di libera coscienza connotato di squisita umanità.
Un gesto, umanamente e largamente lodato “intra et extra moenia Ecclesiae”. Ma Intanto conviene ricordare a Sua Santità quanto Gesù fa presente ai suoi discepoli a proposito del plauso del mondo: “Vae cum benedixerint vobis homines; secundum haec enim faciebant pseudoprophetis patres eorum” (Lc. 6,26) e, soprattutto, desideriamo ulteriormente rammentare, con alto rispetto e con discreta fermezza, che in lui persiste un carattere indelebile in virtù del quale “semel abbas semper abbas”, “Pontifex in Aeternum”, un segno ben più forte e alto che non il “Successor Petri”. Intendiamo parlare del suo essere “Vicarius Christi”, dignità che lo pone al di sopra delle usuali e correnti competenze amministrative, dottrinarie o diplomatiche.
Vorremmo, inoltre, rammentare come egli, al momento di accettare il primario ruolo di Vicario di Cristo – 19 aprile 2005 – chiese ai fedeli convenuti in piazza San Pietro, o in ascolto in tutto il mondo,di pregare affinché “non fuggisse davanti ai lupi”. Ora che i lupi, sotto forma di discordie, di trame, di contestazioni sono apparsi, egli chiude l’ovile e se ne va lasciando a guardia del gregge lupi, appunto, volpi e faine.
Qualcuno, in questi giorni, con un paragone forse graffiante e poco opportuno, lo ha accostato alla figura di quel capitano che, tempo fa abbandonò la sua nave solo per mettere se stesso in salvo davanti agli eventi del naufragio. Ma, in fondo, non è lo stesso concetto espresso dall’Arcivescovo di Cracovia mons. Stanislao Dziwisz, segretario di Giovanni Paolo II, quando ha, amaramente, commentato: “dalla Croce non si scende”?
E’ la stessa osservazione che il cardinal Federigo Borromeo– cfr. I Promessi Sposi , XXV, 315 – rivolge a don Abbondio quando gli ricorda che, al momento della sua consacrazione a sacerdote, Cristo non gli garantì alcuna salvaguardia o altra “sicurtà della vita”.
Ma c’è altro ancora. Nell’annuncio sopra citato, Benedetto XVI dichiara di voler, in piena libertà di coscienza, rinunciare al “Ministero di Vescovo di Roma e di Successore di Pietro affidatogli per mano dei cardinali”. Emerge, e lo diciamo con non poca sorpresa e perplessità, l’assenza del benché minimo cenno allo Spirito Santo, Colui che – per i suoi imperscrutabili disegni – permette l’elezione di santi o insignificanti pontefici.
Non pensiamo trattarsi di mera dimenticanza, anzi, crediamo che si configuri come coerente e conseguente dottrina personale dacché l’intero ministero papale di Benedetto XVI s’è condotto sul sentiero del predecessore, un sentiero caratterizzato da ansie prettamente antropologiche, da cure umane troppo umane, da attenzioni alle cose di quaggiù con notevole disinteresse delle cose di lassù.
Nel comunicato che annuncia la sua “disdetta” emerge un particolare passaggio, quello in cui il Pontefice giustifica il suo gesto dipendente dai rapidi e incombenti mutamenti del mondo moderno a cui la Chiesa deve dar risposta e con cui deve commisurarsi e ai quali egli, per l’età avanzata –ingravescente aetate – non sarebbe in grado di rilanciare la sfida. Ed ecco, allora, la necessità di lasciare la barca di san Pietro.
Ora, noi siamo convinti che la Chiesa postconciliare abbia concesso peso eccessivo agli aspetti mondani al punto da far confluire Cristo nello “spirito del tempo” invece di indirizzare i tempi verso Cristo e, per mascherare tale cambio di catechesi, abbia dichiarato giunto il momento, per la Chiesa - numquam reformanda quia numquam deformata - di aprirsi al mondo, spalancare le finestre per un soffio di aria fresca, aggiornarsi per non perdere il passo con le realtà della società, vivere una seconda Pentecoste.
In pratica, la Chiesa di Giovanni XXIII, di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, confidando in se stessa più in Colui che è Via-Verità-Vita, ha accettato, come sfida, il dono offerto dal tentatore – la mondanità - lo stesso proposto a Gesù nel deserto, con l’ambizione di poterlo convertire e trasformare in merce preziosa. Ma le sfide del mondo sono apparse, a Benedetto XVI, insostenibili soprattutto perché per vincerle necessita l’ausilio di Dio e, soprattutto, perché esse sono sfide “infide” che sorgono dall’interno stesso della Chiesa, in termini di capovolgimenti dogmatici, liturgici e disciplinari.
Mons Vincenzo Paglia ha, ad esempio, col suo pronunciamento sussurrato alla stampa, fatto presente la necessità di entrare nella problematica delle coppie omosessuali, nella problematica dei divorziati cattolici e, probabilmente, del matrimonio dei preti. Sfide a cui Papa Ratzinger non potrebbe far fronte pur se sua, storicamente parlando, è stata responsabilità di averle tenute nell’incubatrice, dacché, davanti a fenomeni, quali la “Pfarrer iniziative”, quali le manifestazioni pseudoartistiche anticattoliche, quali gli interventi nettamente deviati di taluni prelati, vescovi e parroci, egli ha taciuto sperando, così come sperava Giovanni XXIII, o come attestava il cardinal Martini a Don Verzè, che “l’errore che si correggesse da solo”, e tacendo ha preferito lasciare, confidando nella comprensione umana più che nell’aiuto di Dio.
L’abbandono di Benedetto XVI lascia la Chiesa in un marasma dottrinario con il neomodernismo in forte aggressività e avanzata, in un dissesto liturgico, con le commistioni sincretistiche e le concelebrazioni spurie, figlie di Assisi 1986/2011 – cattolici, massoni, luterani, buddisti insieme – il tutto nell’oceanica vastità di un relativismo etico che, da tempo, ha fatto piazza pulita del senso di peccato mortale e veniale, che ha cancellato la nozione di merito e castigo, di inferno e di paradiso, quel relativismo che egli ha sempre denunciato, mai, però, predisponendo efficaci misure ed interventi risolutivi.
Ed ora, come dice la saggezza latina “motus in fine velocior”: pullulano, infatti, sotto la spinta iniziale del Decreto conciliare “Apostolicam Actuositatem”, i movimenti che, da tempo, si sono costituiti in “regioni autonome” – neocatecumenali, carismatici, focolarini, egidiani, CL, cursillos, Luce e vita, cattolici vegetariani ecc. . . - con proprie regole, proprii riti e propria dottrina, non diversamente da quelle repubbliche teologiche nordeuropee sorte all’indomani della nefasta e satanica “riforma” luterana” – Muntzer, i Taboriti, Jacob da Leyda, tanto per citare.
Le stesse Conferenze episcopali son divenute, in virtù di quel principio di collegialità dalla Chiesa preconciliare sempre respinto, centri di potere, vere e proprie “unioni di fatto”, come le definisce Maurizio Blondet. A distanza di otto anni dalla sua elezione a sommo pontefice, sembrano emblematiche, strane e lontane quelle parole che rivolse al suo intervistatore, col dire “Oggi più che mai il Signore ci ha resi consapevoli che Lui soltanto può salvare la sua Chiesa. Essa è di Cristo, tocca a Lui provvedere. A noi è chiesto di lavorare al massimo delle forze, senza angosce, con la serenità di chi è consapevole di essere servo inutile pur dopo aver fatto tutto il suo dovere. Anche in questo richiamo alla pochezza vedo una delle grazie di questo periodo difficile. Un periodo in cui ci è richiesta la pazienza, questa forma quotidiana dell’amore. Un amore in cui sono presenti al tempo stesso la fede e la speranza” (Benedetto XVI – Rapporto sulla fede ( a cura di V. Messori) – Ed. San Paolo 2005 – pag. 10).
Profonde parole, bei pensieri dall’11 febbraio 2013 completamente disattesi.
E Cristo, a cui il suo vicario in terra ha pensato bene, in piena libertà di coscienza, di lasciare la guida, saprà come provvedere. In tutti i sensi.
>di L. P.
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