Trionfo e tragedia: i Francescani dell’Immacolata e il crepuscolo degli Ordini. Il papa li sopprima!
UN DOSSIER DI PP
Era l’ordine religioso più giovane. E quello di maggior successo vocazionale. Il tutto nella più rigorosa ortodossia, alla riscoperta delle fonti francescane. Un grande futuro: dietro le spalle. A causa dei torbidi. Dall’interno dell’Ordine, in combutta con un Personaggio interno al Vaticano, parte sotto mentite spoglie il tentativo della Curia di fare pulizia etnica. Attraverso stratagemmi da “guerra sporca” e sotterranea. È un vero mandato con licenza d’uccidere.
Come? Andando a colpire i due pilastri sui quali si regge la congregazione e le numerose vocazioni: la libertà di celebrare anche in rito antico. Distruggendone così il carisma. Facendo così implodere una delle poche cose che andava a gonfie vele dentro la Cattolica.
Chi? Chi è il congiurato interno? Chi l’alto congiurato vaticano.
Perché? Mysterium iniquitatis, certo. E anche “invidia del demonio”. Piani miserabili e ambizioni meschine degli uomini di Chiesa in carriera. Ma forse qualcosa di più e di peggio
E’ finito il tempo degli ordini religiosi. DA QUI LA MIA RICHIESTA AL PAPA DI SOPPRIMERE I FRANCESCANI DELL’IMMACOLATA. E TUTTI GLI ALTRI, compresi i suoi gesuiti: hanno fatto il loro tempo, hanno dato quanto potevano. Ora possono solo far danni.
di Antonio Margheriti Mastino
Sono giorni che mi mandano mail, messaggi fb, mi telefonano per domandarmi sempre della stessa cosa. Qualcosa che non è che è mai stata al centro dei miei pensieri: semplicemente ero felice e contento che le cose per loro andassero a gonfie vele e dunque mi sono tranquillamente occupato d’altro, forse dando troppo per scontata qualcosa che, alla prova dei fatti, non lo era affatto. Sto parlando degli ultimi fatti dell’ordine dei Francescani dell’Immacolata, all’interno del quale è partito un moto di autodemolizione. Che per la verità incubava da anni, pare.
CANDIDI COME COLOMBE E VELENOSI COME SERPENTI
In breve, i fatti sono questi, almeno per come io li ho cosciuti.
Questo Ordine è nato da qualche anno, da una costola dei cappuccini, meditando sui testi di san Massimiliano Kolbe e rimeditando le fonti francescane, e il loro fondatore e superiore è il padre Stefano Manelli, di origine fiumana, che lo scorso maggio ha celebrato nell’amarezza i suoi 80 anni. Perché ha finalmente ricevuto il morso velenoso di un gruppuscolo di serpi che paternamente aveva allevato nel seno della sua congregazione: figli degeneri che egli ha commesso l’errore di mettere e mantenere in punti nevralgici e strategici per i suoi frati, come per esempio a Santa Maria Maggiore.
Lì ci aveva da anni fatto il nido il capo di questi sediziosi, che noi chiameremo il Superbissimo. È dal 2009 che ne sento di cotte e di crude e di terribili su di lui. Ma è rimasto là, anche grazie ad allacci sotterranei con potentati clericali vari – piuttosto ostili alla Congregazione, alla tradizione cattolica e specialmente al pontificato ratzingeriano – che era riuscito in tutto questo tempo a costruirsi, per tramare contro “li boni frati”, ossia i suoi stessi confratelli che nella stragrande maggioranza restano fedeli al carisma e alla regola istituita dal Fondatore vivente.
Li “boni frati”, quelli miti e beati – come tanti lì dentro ce ne sono – e che ho incrociato, quando facevano il nome del Superbissimo annidato a Santa Maria Maggiore quasi s’intimidivano, abbassavano la voce, come a pronunciare il nome di un arcidiavolo, quasi fosse una bestemmia evocarlo… anzi, a dire la verità, si rifiutavano anche di fare il nome, limitandosi a indicarlo come “un confratello del quale è pietà cristiana tacerne”, e a spegnere facili entusiasmi miei nei confronti della loro congregazione, scuotendo il capo mi dicevano con rammarico che «le cose non sono così idilliache, abbiamo diverse piaghe purulente, specie a Santa Maria Maggiore e non solo: ci sono diversi fratelli il cui atteggiamento non è cristiano, la condotta disdicevole, qualcuno anche fuori di testa totale. Ma per carità cristiana mettiamo tutto a tacere, già troppa amarezza hanno dato al Padre [Manelli]».
Questa congregazione qui dei Francescani dell’Immacolata, che comprende frati, padri, suore missionarie, monache in fitta schiera, è praticamente l’unico ordine religioso di stampo classico che non solo non è in agonia terminale come tutti gli altri ordini, ma al contrario è in controtendenza assoluta.
In un pugno d’anni, infatti, è cresciuto enormemente, ha moltiplicato le case, i seminaristi, novizi e novizie, le richieste di entrare a farne parte sono in crescita esponenziale. Un unicum nel mondo dei religiosi a livello mondiale. In una prospettiva futura e facendo dei calcoli ottimisti, continuando a questo ritmo, si ritroverebbero a breve a diventare la congregazione più viva, attiva e numerosa al mondo. Cosa che deve far storcere il naso a troppi, essendo la mancanza di solidarietà, di zelo e l’invidia le tare di quel che resta del mondo clericale e religioso secolarizzato, sbandato e in crisi ormai irreversibile di identità. E va da sé, di fede.
Un frutto succulento che spunta improvviso come un’oasi in mezzo un deserto immane e disseminato di scorpioni, aspidi e parassiti, a cui la maggioranza degli incanutiti e incarogniti ordini religiosi, i rimasugli almeno, sono ridotti.
MESSORI MI DISSE: “TORNIAMO MILLE ANNI INDIETRO, A QUANDO NON C’ERANO RELIGIOSI”
Ordini a proposito dei quali, un giorno Messori mi disse una cosa. Raccontandomi dell’antichissima abbazia di Maguzzano, nei pressi del Lago di Garda, dove in un’ala ha ricavato un suo studio e a sue spese ha contribuito a restaurare parte del grande e vetusto edificio… spesso battagliando coi pochi e anziani frati che vi giacciono ancora vivi. Ebbene, Messori, dunque, mi diceva a proposito di quel che resta degli antichi ordini religiosi, carichi di anni e glorie passate e sempre più alleggeriti di vocazioni:
«Come sa, nel pensatoio in abbazia non ho voluto collegamenti a internet e posta ma uno word “liscio”, per evitare distrazioni, già sin troppe per seguire muratori e artigiani da me ingaggiati – tra la disperazione dei frati – per ridare un minimo di confort e di restauro al luogo. Poiché invocano la povertà, come un logoro mantra, gli ricordo che molti, moltissimi luoghi clericali confondono la povertà con lo squallore. E squallida era Maguzzano quando la vidi la prima volta, ormai una dozzina di anni fa. Mi proposi dunque di intervenire, con grave pregiudizio dei miei risparmi ma in cambio con grandi soddisfazioni. Do sulla voce a chi mi considera un benefattore: sono, in realtà un beneficato. Mica a tutti capita di programmare il recupero, almeno nei muri e nel verde (un uliveto con 2.000 piante, tra l’altro, più altre meraviglie) di un’abbazia di fondazione carolingia. Insomma, un privilegio di cui sono grato». E questo per quanto riguarda il suo “pensatoio” abbaziale a Maguzzano.
Sul resto, infatti, aggiunge: «Ho comunque perso ogni speranza, almeno umana: bisognerà tornare alla situazione del primo Millennio quando non c’erano che monaci (in maggioranza non sacerdoti) e preti secolari. Abbazie e diocesi: c’est tout e c’est assez. Constato ogni giorno che la sopravvivenza di ordini e congregazioni nate per rispondere a bisogni che non esistono più- o, almeno, che sono stati sottratti alla Chiesa – non è una risorsa ma un problema grave, spesso purtroppo una contro-testimonianza. Una deriva verso una morte strascicata, un decesso dopo l’altro, senza possibilità di ricambio, mentre finisce come prevedevo la speranza degli ingenui che nuove “vocazioni”, si fa per dire, venissero da Africa e Asia. Dove, se si entra in seminario, è (spesso) come nelle nostre campagne fino a qualche decennio fa, dove i religiosi (mentre già c’era sentore inconscio di crisi imminente) giravano per le campagne con un camion e, in ogni cascina, assecondando il volere di genitori con troppi figli e poco pane, prelevavano un maschio e una femmina, per farne frati e suore. Ancora bambini : “vocazioni precoci”, le chiamavano…».
A TAVOLA COL PADRE MANELLI. IL PEGGIORE PRANZO DELLA MIA VITA
LEGENDA AUREA. Intorno al 2009 avevo un progetto, del quale poi non si fece nulla, ma in caso mi serviva la collaborazione delle creature del padre Stefano Manelli: i Francescani dell’Immacolata. Tramite un frate, ottenni un incontro col fondatore. Ma prima, questo frate reputò opportuno introdurmi teoricamente alla figura del “Padre”, tratteggiandomene le qualità salienti: mi sembrò la classica legenda aurea che nei secoli scorsi si disegnava sui “santi viventi”, certi che poi, morti, sarebbero stati santi canonicamente. Mi accennò a sue qualità mistiche, doti pressappoco soprannaturali. Proveniente io dalla scuola comunista e radicale, nonché dagli studi accademici sulla storia della religiosità, il mio sguardo restò scettico: avevo un sentore di “già sentito”, di agiografia. Poi mi mise in guardia anche dall’ironia sorniona del Padre: casomai mi fossi offeso a qualche sua battuta, ché la prendessi pure io con ironia, “perché il Padre è uno a cui piace scherzare, sfottere bonariamente”. Il mio spirito, dinanzi a tale rischio, restò immoto, lo ammetto, come pressappoco era prima.
Non amo i convenevoli bigotti, e mi imbarazzavano le telefonate con questi frati che invece di “buongiorno” esordivano con un “avemaria” al quale non sapevi mai che rispondere, e alla stessa maniera si congedavano. Fatto sta che oltre all’incontro, quella mattina di una domenica di giugno, ottenni anche un invito a pranzo, nella loro casa religiosa, vicino via della Conciliazione.
LA CASA. Osservai questa casa religiosa che avevano forse in affitto. In origine forse era qualche residenza privata, molto vecchia, assai casalinga, col pavimento dissestato, i muri ammaccati, le porte malridotte e storte e consumate dal tempo, oggetti scadenti, madonnelle qua e là, libri tanti, ovunque, d’argomento teologico: una generale spartana trasandatezza campagnola nel cuore della metropoli. Non sono convinto però che possa parlarsi di “squallore”, no, non lo era, neppure di vero “decoro” si può parlare: era povertà santa, gusto dell’essenziale, nella forma più rudimentale. Poi mi introdussero in uno stanzino, e qui le cose cambiarono: c’era decoro e non solo: tutta la bellezza residuale di quell’edificio che nulla aveva di “bello” era qui accumulata, qui tutta la loro scarsissima opulenza era ben spesa e concentrata: era la stanza del Santissimo, la Cappella, con un altare a muro… coram Deo, rivestito di paliotti e drappi baroccheggianti. Quel poco di prezioso che avevano, era offerto solo al loro Signore.
I FRATI. Osservai i giovani padri e novizi presenti in quella casa, attento ai tratti fisiognomici: la maggioranza erano, diciamo così, esteticamente discutibili, salvo uno, messicano, che era piuttosto avvenente, e con lui qualche novizio. Alcuni altri invece, dico la verità, mi ricordavano se non proprio il “Salvatore” de Il Nome della Rosa, dei fratacchioni di origini contadinesche con notevoli ma indefinite tare genetiche, un po’ tardi diciamo, anche nel portamento, nell’assoluta volgarità fisica: questi qui non parlavano mai, e probabilmente non avevano nulla da dire. Certi avevano una inespressività cupa e misteriosa, inquietante, ricordavano certi monaci del, ancora una volta, Nome della Rosa. Un clima docile, famigliare ma anomalo: mi sembrava d’essere precipitato indietro di secoli, in un romitorio campestre umbro del Quattrocento, in mezzo ai “poverelli” dei tempi eroici ed eretici dei movimenti francescani spiritualisti e pauperisti, ma senza ventate utopiche stavolta. Rimasi più o meno perplesso.
IL PADRE. Poi mi venne incontro un vecchio gigantesco, con uno zucchetto in testa, al quale (gesto assolutamente estraneo al mio modo di fare) mi chinai a baciare la mano, cosa che non avrei mai più rifatto da allora in poi. Era il padre Manelli, il fondatore. Fui portato nella “sala ricevimenti” cha dava su uno sconquassato terrazzo-cortile: uno stretto sgabuzzino-deposito… altro che la “povertà” della suite del Santa Marta.
Ci accomodammo su delle panche io e il frate che mi scortava; più in là, prospiciente a noi si accomodò il monumentale padre Manelli, e chiuse gli occhi. Sì, era una di quelle persone, di quei notabili che mentre gli parli ti mettono nella situazione imbarazzante di non capire se ti stanno ascoltando o stanno sonnecchiando. E gli occhi chiusi, le mani congiunte sul mento, non aiutavano a sciogliere il dubbio. Una situazione che nel mondo laico può essere un cosciente atto di superbia per mettere in soggezione l’ospite, ma che nel mondo religioso, e in questo ambiente angelicato qui specialmente, significa un’altra cosa: “ecco, adesso sono pronto ad ascoltarti, in profondità, oltre le parole”.
Forse da qui nasceva la leggenda che i fraticelli diffondevano sul loro fondatore: “Costui ha fama di leggere nel pensiero, si dice”, me ne avvisarono. Ma secondo me non aveva letto nel mio pensiero, altrimenti non mi avrebbe invitato a pranzo, stante la mia allergia per le trascuratezze e i pasticciacci brutti di bassa cucina a tavola.
Approfittando del fatto che fosse a occhi chiusi, lo osservai per bene: per esempio quei grandi piedi lì nei sandali, così grossi, screpolati, fra una confusione di dita accavallate. Non era tipo da pedicure. Mentre parlavo e osservavo tutto questo, pensavo non solo di non poter mai fare “voto di povertà” spinto a questi livelli di esemplarità ed ascetismo, come questi frati qui, di non essere “vocato” a certe cose, ma anche che mai sarei potuto essere un francescano dell’Immacolata… avrei più l’indole del gesuita, semmai dell’opusdeista, ma niente è più lontano dalla mia personalità che ogni sorta di francescanesimo. Ancora lì lui, il Fondatore, con gli occhi chiusi, che certe volte neppure riapriva replicando, dopo avermi ascoltato in silenzio. Salvo una volta, quando l’ho fatto sobbalzare e spalancare gli occhi, citando “l’ortodossia di von Balthasar”. “E no, no, un momento, andiamoci piano con Balthasar, la sua ambiguità è pericolosa!..”.
PRANZO. Poi arrivò il momento più difficile per lo strano personaggio schizzinoso che ero, facile a sentire oltraggiato il suo – altro – senso estetico: andare a tavola, imbandita nel cortile-terrazza. Il padre Manelli a capotavola, i frati e i novizi tutti intorno, io fra loro, con di fronte due algidi giornalisti cattolici francesi, penne di punta di una rivista che mirava alla collaborazione tra “tradizionalisti” e “moderati”, contro le derive teologiche dei fumosi clerico-intellettuali progressisti di Francia. Piatti e bicchieri uno diverso dall’altro, forchette che sembravano aver fatto la guerra 15-18: una scampagnata di povertà. Già!
Quel banchetto lì sarà destinato a rimanere nella mia memoria sino alla morte, incancellabile come il peccato originale: non ho mangiato… nel senso che non ho masticato il cibo, per non doverlo assaporare oltre: l’ho semplicemente ingoiato, come fosse una medicina.
PIETANZE. Indimenticabili le pietanze. Il primo, ad esempio: li “boni frati” avevano messo in una pentola tutti i rimasugli di pasta immaginabili, un assortimento di mezzemaniche, rigatoni, pennette, fusilli; conditi con quel che avevano trovato per caso in frigo, un sacco di burro, origano forse, formaggio, e per giunta essendo un assortimento di paste diverse, mezza pasta era cruda e mezza squagliata: un pappone che in casa mia non si da neppure ai cani (encomiabile l’autocontrollo e l’atarassia di quei due laici azzimati francesi: pure loro, con la massima dignità possibile, ingoiavano il pappone, in cuor loro rimpiangendo le delicatezze della cucina gallica ma senza darlo a vedere nei loro volti sfingei). Il sugo lo avevano ricavato dal secondo. Il secondo, appunto, che era peggio del primo: in una padella ci avevano buttato tutto insieme pelati, passati, burro, pepe, e (Signore pietà!) due chili di ogni sorta di taglio di carni (sicuramente da discount) e d’ogni razza d’animale… maiale, bovino, vitello, fegatelli, salsiccioni, di tutto di peggio… E come non bastasse, erano cotte malissimo, anzi non erano cotte affatto, e la carne era diventata dura come gomma. Un sacrilegio che gridava la vendetta di Dio. Ho ingoiato pure questa roba qui, a pericolo stavolta di strozzarmi.
Mentre dentro di me bestemmiavo il nome del cuoco e della madre che lo aveva messo al mondo, notai un gesto sconvenientissimo per come la vedo io, ma che guardato in un’altra ottica è molto famigliare, intimo, da padre a figlio. Con assoluta naturalezza, il padre non avendo terminato la pasta nel suo piatto, lo passa a un suo fraticello che la consuma. E così fa con la carne. Solo chi è sicuro dell’esistenza di un intimo rapporto di paternità e figliolanza, può fare simili gesti a tavola. Gesti che io non potrei fare e accettare, mi dicevo, se non con un’amante: “ecco perché mai potrei essere uno di loro”.
Insomma, per farla breve: la povertà quattrocentesca non mi piace, non mi affascina, non eleva il mio spirito e semmai lo abbassa, lo immeschinisce e in definitiva mi ripugna. Mi piace la vita borghese, semplice ma borghese. Ecco: benedettino sì, francescano no; servire il Signore da signore come i benedettini sì, servirlo da straccione come i francescani (di un tempo o, in questo tempo, come solo i francescani dell’Immacolata) no. De gustibus!
A parte tutto questo, con tutte le miserie del caso, resto a tutt’oggi convinto di essere stato a tavola con una comunità di santi, viventi e futuri. Almeno il 70% lo erano. Ed è quel che conta.
CHE MISTERO BUFFO E TREMENDO QUELL’ISTINTO SUICIDA DEI RELIGIOSI
Un giorno stavo discutendo con don Ariel Levi di Gualdo, che è ‘n’amico, e si parlava del destino di questi ordini religiosi, a cosa si erano ridotti ormai, se non valesse per loro una sorta di eterogenesi dei fini che capovolge gli intenti iniziali del fondatore e li converte nell’esatto contrario. Mi veniva da fare comparazioni cliniche: “come nel caso dell’aids”, dove gli anticorpi posti all’interno dell’organismo per difenderlo dai virus, nei casi di aids invece, quegli stessi anticorpi nati per distruggere i virus, impazziscono e si mettono a lavorare per i virus, attaccando le cellule sane e gli altri anticorpi. Sino all’omicidio-suicidio organico, del corpo che li ospita e di se stessi con esso.
Allora il padre Ariel, allevato da un grande gesuita all’antica come il padre Gumpel, mi raccontava del fatto che “se i gesuiti hanno grossi problemi a livello dottrinale, i benedettini, invece, hanno grossissimi problemi a livello morale”. Poi ad un certo punto mi disse: «Se questi vecchi gesuiti non fossero così arroganti, sordi e ideologizzati come son diventati, se smettessero di essere così e decidessero di tornare alla loro essenza, al loro carisma ignaziano, alla regola originaria, alla missione che gli è propria, quegli stessi gesuiti che s’avviano a un declino inarrestabile anno dopo anno, e ogni anno sono sempre di meno e ancora meno i novizi, quegli stessi gesuiti dalla sera alla mattina si ritroverebbero i seminari pieni di novizi».
A livello subliminale lo sanno quei gesuiti qual è la strada obbligata per una rinascita. Lo sanno, ma la loro patetica ostinazione senile, l’ideologismo anacronistico e protervo, il conservatorismo sessantottardo dal quale non riescono a liberarsi, tutto questo li spinge a insistere su una strada che la realtà ha dimostrato non solo essere sterile, dannosa, ma anche suicida. Corrono boriosamente incontro alla rovina con l’aria incosciente di chi sta andando a giocare nei campi del Signore…
Certo, sì, vale quel che Messori dice sempre a proposito di tutti gli ideologi: “se la realtà dimostra che lo schema dell’ideologo è sbagliato, tanto peggio per la realtà, è la realtà che sbaglia perché lo scheda è ‘giusto’”. Certo. Ma qui, in questo caparbio, ostinato istinto suicida dei religiosi, c’è qualcosa di più e di peggio, di apparentemente inspiegabile e oscuro, un mistero insondabile: una mano invisibile, fatale, che non sai se muova i fili dagli abissi della “terra incognita”, oppure dall’alto dei cieli. Se è la Tentazione o è la Provvidenza… che si muove, come sempre, secondo una logica imperscrutabile, che sfugge all’occhio e alla ragione umana.
I GLORIOSI ORDINI MONASTICI? FORSE FURONO SOPPRESSI DALLA PROVVIDENZA PIÙ CHE DA NAPOLEONE. L’IPOTESI DI UNO SCRITTORE CATTOLICA
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