“Lumen fidei”
Die Enzyklika von Papst Franziskus, nicht wahr?*
Sant’Agostino, antirelativismo, famiglia. L’intelletto di B-XVI in corpore gesuita
La firma in calce alla “Lumen fidei” è una sola, ed è quella di Francesco. Non poteva che essere così, lo impongono le regole canoniche e la prassi. Ma nella novantina di pagine presentate in Vaticano, la mano di Joseph Ratzinger si scorge quasi in ogni riga.
Dalle citazioni dell’amato sant’Agostino che tanto influì sulla sua formazione teologica, ai passaggi sulle grandi cattedrali gotiche in cui “la luce arriva dal cielo attraverso le vetrate dove si raffigura la storia sacra”. Un’impronta ben visibile, poi, nei rimandi continui al tema dell’amore e della speranza, caritas et spes, virtù teologali cui Ratzinger dedicò le prime due encicliche del pontificato. Con la “Lumen fidei”, infatti, la trilogia e il progetto che Benedetto XVI aveva in mente fin dall’ascesa al Soglio di Pietro possono dirsi conclusi. “Non dobbiamo cercare la frase dell’uno o dell’altro”, avverte però il cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione dei vescovi: “Nell’enciclica c’è molto di Papa Benedetto e c’è tutto di Papa Francesco”, aggiunge. Ma è proprio Bergoglio, nell’introduzione ai quattro capitoli, a riconoscere che il predecessore “aveva già quasi completato una prima stesura” e che quindi il Pontefice regnante si è limitato ad “assumere il suo prezioso lavoro aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi”. Uno, in particolare, risulta evidente leggendo quell’invito finale a non farsi “rubare la speranza”. Tante volte, in questi primi quattro mesi di pontificato, il gesuita argentino ha ripetuto quell’appello: “Non permettiamo che la speranza sia vanificata con soluzioni e proposte immediate che ci bloccano nel cammino, che frammentano il tempo, trasformandolo in spazio”, scrive.
Forte è poi il richiamo alle questioni etiche, sulle quali fino a oggi Francesco aveva preferito assumere una posizione defilata, non prendendo mai posizione netta ed esplicita. Nella “Lumen fidei” si legge che “il primo ambito in cui la fede illumina la città degli uomini si trova nella famiglia, unione stabile dell’uomo e della donna nel matrimonio. Essa – scrive il Papa – nasce dal loro amore, dal riconoscimento e dall’accettazione della bontà della differenza sessuale, per cui i coniugi possono unirsi in una sola carne e sono capaci di generare una nuova vita”. Fondamentale è il richiamo, “oggi più che mai necessario”, vista la “crisi di verità in cui viviamo” alla connessione della fede con la verità. “Nella cultura contemporanea – si legge nel secondo capitolo – si tende spesso ad accettare come verità solo quella della tecnologia. Questa sembra essere oggi l’unica verità certa, l’unica condivisibile con altri, l’unica su cui si possa discutere e impegnarsi insieme”. E “la verità grande, la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale, è guardata con sospetto”. La conseguenza è che “non rimane altro che un relativismo in cui la domanda sulla verità di tutto non interessa più”. Punti cari all’agenda ratzingeriana ricordati anche da Bergoglio.
Che tra i due papi, il regnante e l’emerito, ci sia una profonda intesa, lo dimostra anche la sorpresa cui hanno assistito in mattinata prima delle nove le centinaia di persone che affollavano i Giardini vaticani per l’inaugurazione di una grande statua di San Michele arcangelo. All’evento, Papa Francesco ha invitato il suo predecessore, che ha accettato “con piacere”. Così, sul piccolo piazzale (e per la prima volta pubblicamente) Bergoglio e Ratzinger si sono abbracciati, salutati e seduti vicini. Il segno che la presenza discreta dell’emerito non disturba per nulla Francesco, ben lieto di ricordare “il meraviglioso esempio del nostro padre Benedetto XVI”, come ha detto a braccio durante l’Angelus di domenica scorsa. Una giornata intensa, per Papa Bergoglio, che ha anche firmato i decreti che autorizzano la canonizzazione di Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII. E’ stato infatti riconosciuto il miracolo attribuito a Karol Wojtyla, mentre per Angelo Roncalli non ce n’è stato bisogno: ha deciso Francesco, spontaneamente, accelerando l’iter canonico. I due pontefici saranno canonizzati “verosimilmente entro la fine dell’anno”, dice il direttore della Sala stampa vaticana, padre Lombardi. La scelta definitiva spetterà a Bergoglio, dopo aver convocato un apposito concistoro in cui discutere i dettagli della cerimonia (a quanto pare unica), compresa la data. (
foto dell'Osservatore Romano)
*L’enciclica di Papa Francesco, nevvero?
© - FOGLIO QUOTIDIANO
Amore e fede, una enciclica per due
PAPA FRANCESCO CON IL PONTEFICE EMERITO BENEDETTO XVI
Dal matrimonio all’ecologia: ecco il pensiero della Chiesa che concilia Francesco e Benedetto
GIACOMO GALEAZZICITTA' DEL VATICANO
L’ idea forte del testo è che «il mondo è in crisi perché manca la luce della fede». Ma la fede ha bisogno di verità. Non è un opinione soggettiva. Il credente è umile e, per non farsi rubare la speranza, fonda la fraternità sull’amore.
«C’è molto di Benedetto e tutto di Francesco». È il ministro vaticano dei Vescovi, Marc Ouellet a svelare il mistero dell’enciclica scritta a quattro mani: «Non vanno cercate le frasi di Bergoglio o di Ratzinger, è un documento unico».
Novantatrè pagine suddivise in quattro capitoli. La «Lumen Fidei», è firmata «Franciscus» ma va attribuita anche al suo predecessore. Un evento storico anche se, in passato, e per altre encicliche ci furono passaggi di bozze tra Pontefici.
Ed eccoli i cardini del documento. Il primo è l’antidoto al fondamentalismo religioso: «Il credente non è arrogante, anzi la sicurezza della fede rende possibile il dialogo con tutti e in ogni campo». E anche nella coppia
«un amore falso non supera la prova del tempo e non si può ridurre a un sentimento che va e viene». Insomma: qui c’è «la diversità della teologia dei due papi nella perfetta identità dell’annuncio delle fede», osserva il teologo Gianni Gennari. Che si affrontino temi sociali o questioni di bioetica, la fede è una, cambia solo il modo di presentarla. Come quando sostiene: «La fede non è un fatto privato, ma costruisce il bene comune». Ovvero: attraverso la fede si ci può impegnare nella vita pubblica.
Il testo mette in guardia dall’idolatria e da una «concezione individualista e limitata della conoscenza». Al centro c’è la famiglia, l’unione stabile dell’uomo e della donna nel matrimonio. Che nasce dal riconoscimento e dall’accettazione della bontà della differenza sessuale. La manifestazione della bontà di Dio si vede dalla possibilità di generare una nuova vita. Uomo e donna possono promettersi amore con un gesto che ricalca i tratti della fede.
«La prima enciclica di Francesco, con il contributo di Benedetto XVI, mette in luce che prima di una crisi di fede vi è una crisi dell’uomo e della verità - commenta padre Bernardo Cervellera, direttore dell’agenzia del Pontificio istituto missioni estere - Il relativismo sbriciola la consistenza della persona, della convivenza, della giustizia, dell’amore, della ricerca scientifica. La fede illumina ogni cammino umano».
Nella «Lumen fidei» si tratteggia la «crisi dell’uomo» cioè il rifiuto del Dio unico per affermare se stessi. L’esito è il politeismo e la molteplicità dei desideri. Così, tutte le esperienze dell’uomo rischiano di naufragare. Quindi dilaga quella che l’Enciclica chiama «dittatura del relativismo».
«Tutte queste annotazioni non sono in stile cattedratico o dogmatico, ma emergono come da una lunga meditazione - sottolinea Cervellera Anche la crisi dell’uomo non è descritta con condanna, bensì con compassione e dolore. Si sente la profonda influenza di Ratzinger».
Con un linguaggio alto, ma non pesante, il testo si snoda in quattro capitoli mostrando il potere che la fede in Dio ha nel sostenere l’unità dell’uomo (cancellando la dissipatezza); la sua solidarietà con gli altri (eliminando la paura); l’edificazione della convivenza sociale (impedendo l’utilitarismo). Anche la scienza viene sostenuta dalla fede a lavorare di fronte al cosmo.
Non solo: la fede, mostrando Dio come origine della realtà, fa scoprire che l’uomo è custode della natura e non padrone. E fonda un’ecologia che vede l’essere umano al centro del creato. Nel mondo contemporaneo ciò che è in crisi non è anzitutto la fede ma l’uomo, annegato nelle sue pretese e nei suoi fallimenti. Ed è questa voglia di fare a meno di Dio che porta a banalizzare la fede «consolazione», «fatto privato», «innamoramento soggettivo».
L’enciclica raddrizza alcune storture: la fede è fede della Chiesa (e non del singolo, senza la sua mediazione) e la teologia è prodotta nella Chiesa. Nel documento non si accusa: il tono è lo stupore e la comprensione delle fatiche dell’uomo contemportaneo.
È la famiglia fondata sul matrimonio, inteso come unione stabile tra uomo e donna e finalizzata a generare figli, il primo ambito sociale «illuminato dalla fede». Per la prima volta, in un documento firmato da Francesco, fa capolino la netta presa di posizione su un tema etico al centro del dibattito politico. Ed è evidente come in questo passaggio dell’enciclica sia rintracciabile la mano di Benedetto XVI, che ha concepito inizialmente il testo, prima di lasciare il pontificato, e l’ha passato poi al suo successore. La lettera papale esplicita il legame tra la fede e il «bene comune». La fede, che nasce dall’amore di Dio rende saldi i vincoli fra gli uomini e si pone al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace. La fede «è un bene per tutti», non serve a costruire unicamente l’aldilà, ma aiuta a edificare la società. No, dunque, al matrimonio omosex. Immediate le reazioni della associazioni gay. Per Franco Grillini, presidente di
Gaynet, a proposito di «architettura dei rapporti umani» e dell’amore, «non si capisce dov’è la differenza tra affettività eterosessuale e l’amore tra due persone dello stesso sesso». E continua: «L’enciclica riconferma le posizioni vaticane, malgrado 15 Paesi nel mondo abbiano già legiferato in modo opposto ai voleri della Santa Sede mentre in Italia la Cassazione ha scritto che è radicalmente superata l’idea che per contrarre matrimonio sia necessaria la differenza di sesso».
La paura della modernità
di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 6 luglio 2013
La questione preliminare sollevata dalla prima enciclica di papa Francesco riguarda la sua effettiva
paternità. Chi è il vero padre del testo da oggi noto con il titolo classico di Lumen fidei, “Luce della
fede”? Sarà compito degli studiosi futuri stabilire con precisione quanto vi sia di Ratzinger e quanto
di Bergoglio in questo importante documento, ma, come si può leggere nello stesso testo, già oggi è
noto che è stato scritto per la gran parte da papa Benedetto («egli aveva già quasi completato una
prima stesura»), mentre papa Francesco dice di aver contribuito aggiungendo «alcuni ulteriori
ritocchi». L’origine a più mani del testo non costituisce di per sé una novità per il papato, perché
sono molti i testi del magistero quali encicliche, esortazioni apostoliche, catechesi o semplici
discorsi, che hanno alle spalle un autore diverso rispetto al Romano Pontefice che poi li ha firmati,
né penso che potrebbe essere altrimenti vista l’ampia esposizione a cui oggi un Papa è
quotidianamente chiamato. Decisamente nuovo però è il fatto che, dietro a un testo solenne come
un’enciclica, di pontefici ve ne siano due, visto che Benedetto XVI ha scritto le pagine oggi firmate
da papa Francesco quando ancora il papa era lui. A quale pontefice quindi attribuire la sostanza
degli insegnamenti contenuti nella Lumen fidei? E chi tra i due papi ha scelto il titolo, che in
un’enciclica ha sempre tanta importanza?
C’è poi un’altra non piccola questione preliminare: se l’enciclica è il documento più importante che
un papa ha a disposizione, e se la prima enciclica rappresenta solitamente l’atto programmatico del
nuovo pontificato, che significato occorre dare al fatto che papa Francesco ha scelto di fare suo un
testo scritto quasi integralmente da papa Benedetto? Se Francesco avesse sempre seguito in tutto il
suo predecessore la cosa sarebbe perfettamente coerente, ma egli finora ha fatto piuttosto il
contrario: altra qualifica nel presentarsi (“vescovo di Roma”), altra abitazione (Santa Marta e non
l’appartamento papale), altra croce pettorale, altre scarpe, altro piglio nell’affrontare i nodi del
governo vaticano, altre priorità come appare dall’aver disertato un concerto di musica classica
dov’era prevista la sua presenza, cosa che un cultore della buona musica e dell’etichetta quale
Benedetto XVI non avrebbe mai fatto… O forse l’assunzione del testo ratzingeriano sotto la propria
firma è funzionale proprio al desiderio di papa Francesco di voler sottolineare, al di là di differenze
contingenti, la totale consonanza dottrinale con papa Benedetto sulle cose fondamentali quali la
fede e la morale? Io penso che a questa domanda occorra rispondere positivamente e che solo così
si spieghi l’effetto un po’ stucchevole di vedere a firma di papa Francesco un testo integralmente
ratzingeriano.
L’enciclica infatti riproduce con andamento lineare e senza particolari novità la tradizione della
dottrina cristiana in ordine all’insegnamento sulla fede, intesa sia come fides qua creditur, cioè
l’atteggiamento interiore o la fiducia con cui si crede, sia come fides quae creditur, cioè il
patrimonio dottrinale cui si aderisce con ossequio dell’intelligenza ovvero i cosiddetti articoli di
fede. E lo fa all’insegna della più limpida teologia ratzingeriana che nel testo emerge con voce
inconfondibile.
La Lumen fidei spiega l’origine della fede unicamente a partire dall’alto, riconducendola a Dio e
dichiarandola “dono di Dio”, “virtù soprannaturale da Lui infusa”, “dono originario”, “chiamata” (il
termine dono ricorre 21 volte, chiamata 11). La domanda sorge spontanea: chi non ha la fede non ha
quindi ricevuto questo dono divino? E se fosse così, non si tratterebbe in questo caso di
un’inspiegabile ingiustizia? Verso la fine della vita Indro Montanelli scriveva: “Io ho sempre sentito
e sento la mancanza di fede come una profonda ingiustizia che toglie alla mia vita, ora che ne sono
al rendiconto finale, ogni senso. Se è per chiudere gli occhi senza aver saputo di dove vengo, dove
vado, e cosa sono venuto a fare qui, tanto valeva non aprirli”. Invano il lettore cercherebbe
nell’enciclica dei due papi non dico la risposta, ma anche solo l’assunzione del problema sollevato
da Montanelli e da molti altri prima e dopo di lui, problema che è poi l’espressione
dell’inquietudine alla base della modernità. Come sempre nella teologia ratzingeriana, anche in
questa enciclica la modernità diviene solo un avversario da combattere, non un interlocutore con cui
istituire un dialogo fecondo.
La Lumen fidei sottolinea continuamente che c’è una “chiamata” da parte di Dio, cui deve
corrispondere un “ascolto” da parte dell’uomo. La fede cioè non è interpretata come una
disposizione che sorge dal basso, come una modalità di articolare il sentimento, come un atto di
fiducia verso la vita: è piuttosto pensata come una creazione unilaterale di Dio, il quale, così come è
apparso nella storia di Abramo e poi degli altri protagonisti della Bibbia, si presenta allo stesso
modo nell’interiorità dei singoli chiamandoli a sé. Naturalmente il testo papale afferma che la
pienezza della fede si ha con la venuta di Gesù, sia in quanto verità dottrinale da credere e
consistente nell’evento della sua morte e risurrezione, sia in quanto forma del credere, perché Gesù
non è solo l’oggetto della fede ma anche il modello: vi è una fede in Gesù e vi è una fede di Gesù, e
al riguardo nel testo vi sono passaggi molto belli, soprattutto laddove si parla di Gesù come di
“Colui che ci spiega Dio”. La centralità cristologica in ordine all’esperienza di Dio non può non
rimandare però al delicatissimo nodo della salvezza mediante la fede: se è tramite la fede in Cristo
che ci si salva, chi è privo della fede in Lui è necessariamente destinato alla perdizione? I non
credenti e i fedeli di altre religioni possono partecipare in qualche modo alla salvezza oppure ne
sono necessariamente esclusi? La risposta dell’enciclica papale si configura all’insegna del modello
teologico noto come “inclusivismo”, teso ad affermare che la fede “riguarda anche la vita degli
uomini che, pur non credendo, desiderano credere e non cessano di cercare”. Il testo arriva a
sottolineare che “nella misura in cui si aprono all’amore con cuore sincero già vivono, senza
saperlo, nella strada verso la fede”. Si tratta in sostanza della teologia dei “cristiani anonimi” del
gesuita Karl Rahner che papa Francesco (oppure papa Benedetto?) fa propria. Resta da vedere
quanto questa posizione sia veramente rispettosa verso i non credenti o verso i fedeli di altre
religioni: che cosa direbbe un cattolico di essere considerato un buddhista o un musulmano
anonimo?
Alcune delle pagine più belle sono quelle dedicate alla relazione tra verità e amore, laddove la
Lumen fidei afferma che “se l’amore ha bisogno della verità, anche la verità ha bisogno
dell’amore”, e che “amore e verità non si possono separare”. E ancora: “Senza amore, la verità
diventa fredda, impersonale… La verità che cerchiamo, quella che offre significato ai nostri passi,
ci illumina quando siamo toccati dall’amore”. Penso che il senso della vita cristiana risieda
esattamente in queste parole che destituiscono il freddo primato della dottrina e sanno ritrasmettere
al meglio il senso evangelico della verità. Penso altresì che se la dottrina cattolica a livello di prassi
sacramentale (vedi sacramenti negati ai divorziati risposati), di etica sessuale e soprattutto di
bioetica considerasse sempre la portata di queste parole arriverebbe a rivedere molte posizioni
dottrinali attuali che oggi appaiono veramente fredde e impersonali.
Più in generale penso che il testo della Lumen fidei riproduca la teologia ratzingeriana soprattutto in
alcuni capisaldi come la contrapposizione tra fede cristiana e mondo moderno, la polemica contro il
relativismo, il radicamento della ricerca teologica nell’obbedienza al Magistero. Sotto quest’ultimo
profilo è netta la riconduzione dell’esperienza di fede alla dimensione dottrinale nella sua
integralità, perché la fede, scrive la Lumen fidei, “deve essere confessata in tutta la sua integralità”,
visto che “tutti gli articoli di fede sono collegati in unità e negare uno di essi equivale a danneggiare
il tutto”. Ma se qualcuno di questi articoli appare in contraddizione con le esigenze dell’amore,
come nel caso della dannazione eterna, oppure del peccato originale che macchierebbe l’anima di
ogni bambino al suo concepimento, che cosa deve fare l’intelligenza teologica? Continuare a
ripetere affermazioni magisteriali che appaiono infondate? Anche a questo riguardo però si
cercherebbe invano una risposta nell’enciclica dei due papi, la quale si limita a ribadire
l’obbedienza incondizionata che la ricerca teologica è tenuta a portare al Magistero romano.
Ma il limite più grave del testo papale riguarda la teologia spirituale. L’enciclica infatti, insistendo
così tanto sulla luce della fede e sulla sua capacità di spiegazione, finisce per ignorare abbastanza
clamorosamente che l’esperienza spirituale cristiana si conclude non con la luce ma con le tenebre,
come attesta la comune testimonianza della mistica dell’oriente e dell’occidente cristiano, parlando
di “notte oscura”, di “silenzio”, di ingresso nella “nube della non conoscenza”, e sottolineando la
necessità di andare al di là della dimensione intellettuale. Proprio in questo ignorare la fecondità
delle tenebre, del non-sapere, del vuoto, del silenzio, risiede il grande limite della teologia
ratzingeriana e del suo intellettualismo, che questo testo firmato da papa Francesco, come fosse un
sigillo, riproduce in toto.
Rimane da spiegare perché il papa venuto dalla fine del mondo l’abbia fatto proprio senza
veramente “ritoccarlo” con il suo carisma umano e spirituale, ma a questa domanda per ora non ci
sono risposte.
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