La rivoluzione di Papa Francesco e lo Ior
Passeranno anni prima di riuscire a cogliere con maggiore chiarezza quanto è accaduto e sta accadendo in Vaticano. Le dimissioni di un Papa nelle piene facoltà fisiche e mentali e l’avvento al soglio pontificio di un successore di Pietro che sceglie, non casualmente, il nome di Francesco sono solo la manifestazione più evidente di un cambiamento rivoluzionario nella storia della Chiesa. I cambiamenti naturalmente non avvengono né con il pilota automatico e neppure in modo lineare.
Non sbaglia chi individua in Benedetto XVI il primo motore di una innovazione che avrebbe dovuto passare, fra l’altro, dalla sottoscrizione di quelli che sono stati ribattezzati come i “Patti lateranensi del XXI secolo”, ovvero la fine dell’eccezione dello Ior nel contesto della finanza internazionale. Per questa missione, nel 2009, fu scelto come presidente uno stimatissimo economista e manager cattolico, Ettore Gotti Tedeschi.
Ben presto il processo di trasparenza voluto dal Santo Padre si scontrò contro la forza di una tradizione radicatissima (era cambiato il presidente dell’Istituto e poco altro) e soprattutto di interessi secolari rappresentati da singoli ma ben strutturati Cardinali e Vescovi. Conti cifrati, dossier e richieste di interventi in operazioni economiche difficilmente inquadrabili come “opere religiose”: le tenebre avvolsero il Torrione di Nicolò V e a pagarne il prezzo più amaro fu proprio il presidente scelto personalmente da Ratzinger.
“Mai nella storia recente del mondo occidentale il responsabile di un’Istituzione è stato allontanato dal suo incaricom quali che ne fossero le ragioni, con tanta brutalità. Riteniamo Ettore Gotti Tedeschi persona integerrima che ha sempre anteposto la sua responsabilità personale all’obbedienza acritica”. Così, in una lettera ad un quotidiano, si espressero personalità quali Francesco Giavazzi, Alessandro Panda, Sergio Erede, Pietro Modiano ed altri ancora. La loro fu una voce rimasta all’epoca (giugno 2012) isolata. Ben altre furono le accuse rivolte all’ormai ex presidente dello Ior.
Non solo il coinvolgimento in inchieste giudiziarie ma soprattutto un cumulo di “veline” andando non troppo per il sottile lo descrivevano come una persona inaffidabile, “pazzo”. Memorabile fu una sorta di perizia firmata dal dottor Lasalvia e inviata al Segretario di Stato, quel cardinal Bertone molto impegnato a ricercare equilibri fra gli interessi terreni della sua Chiesa. L’ossessione di Gotti Tedeschi per una maggiore trasparenza e per un cambio radicale nell’approccio bancario dello Ior fu bollato come eccessivo.
Oggi, a distanza di poco più di un anno, gli accusatori del banchiere di Santander sono passati dall’altro lato dell barricata, accusati essi stessi e “mollati” dal nuovo papa. Il direttore dello Ior e il suo vice sono oggetto di una inchiesta della magistratura romana dalla quale invece esce ufficialmente Gotti Tedeschi. Naturalmente, siamo lontani dal giudizio definitivo e chiunque volesse anticipare una sentenza commetterebbe un errore.
La civiltà del diritto deve valere sempre e per chiunque. Due fatti però ci sono e possono essere sottolineati e commentati. Primo: Ettore Gotti Tedeschi può aver fatto bene o male ma proprio matto non era e oggi può godersi la meritatissima riabilitazione. Secondo: Francesco ha raccolto il testimone di un predecessore che vedendosi impedito ad andare avanti ha voluto lasciare a lui l’onere di continuare nella riforma dello Ior e della stessa Chiesa.
Non sappiamo se Bergoglio vorrà avviare a chiusura lo Ior (come ha suggerito anche il banchiere Mazzotta al sito Sussidiario.net) oppure trasformarla in una Banca Etica (e qui potrebbe rivolgersi al professor Becchetti).
Quel che è certo è che la cura di Francesco intende condurre ad epiloghi che solo pochi mesi fa potevano sembrare fantasiosi. Le vicende dello Ior sono, in questo senso, paradigmatiche. Quando, fra qualche anno, potremo rileggere con maggiore distacco spazio-temporale queste pagine di storia contemporanea, scopriremo quanto il Torrione di Nicolò V sia stato epicentro di una crasi millenaria.
http://www.formiche.net/2013/07/07/la-rivoluzione-di-papa-francesco-e-lo-ior/
La rivoluzione di Francesco
Cosa aspettarci da Papa Francesco. Intervista a padre Antonio Spadaro
07 - 07 - 2013Matteo Matzuzzi
I due Papi, la riforma della Curia in fieri, il senso missionario di Papa Francesco e i suoi prossimi passi analizzati da padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica e membro della Compagnia di Gesù, in una conversazione con Formiche.net
L’improvvisa rinuncia di Benedetto XVI, lo stupore di un gesuita nel sentire dalla voce del protodiacono, Jean-Louis Tauran, che dopo il teologo bavarese a guidare la chiesa sarebbe stato un gesuita argentino. “Da Benedetto a Francesco. Cronaca di una successione al Pontificato” (Lindau, pp. 136, 13 euro) è l’ultimo libro di padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica (da pochi mesi rinnovata nel look) e membro della Compagnia di Gesù.
In un colloquio con Formiche.net ripercorre quei giorni dello scorso inverno, tra l’interregno e l’elezione di Francesco, e ci aiuta a capire cosa dobbiamo aspettarci dal Pontefice venuto “quasi dalla fine del mondo”. Tra omelie a Santa Marta, riforme della curia che si stagliano anche nel discorso tenuto ieri e l’enciclica a 4 mani con Ratzinger.
Nelle prime pagine del libro, racconta la sua sorpresa nell’apprendere che un Gesuita era diventato Papa. Scrive di non aver mai considerato possibile un tale avvenimento. Perché?
Come gesuita ammetto che non avrei mai immaginato l’elezione di un gesuita al Pontificato. La Compagnia di Gesù si sente, direi, geneticamente nata per essere al servizio del Papa. Insieme alla gioia, il fatto che uno di noi sia stato eletto Pontefice ha richiesto, almeno per quel che mi riguarda, un’elaborazione interiore. Andando più nel profondo, si può dire che Ignazio ci ha voluti legati con un “quarto voto” al servizio del Papa perché è il Papa ad avere la visione più universale sulla Chiesa. E nel momento in cui un gesuita viene eletto Pontefice, questi serve la Chiesa nella sua missione più spirituale e globale. E’ stata questa la conclusione a cui sono giunto.
Come gesuita ammetto che non avrei mai immaginato l’elezione di un gesuita al Pontificato. La Compagnia di Gesù si sente, direi, geneticamente nata per essere al servizio del Papa. Insieme alla gioia, il fatto che uno di noi sia stato eletto Pontefice ha richiesto, almeno per quel che mi riguarda, un’elaborazione interiore. Andando più nel profondo, si può dire che Ignazio ci ha voluti legati con un “quarto voto” al servizio del Papa perché è il Papa ad avere la visione più universale sulla Chiesa. E nel momento in cui un gesuita viene eletto Pontefice, questi serve la Chiesa nella sua missione più spirituale e globale. E’ stata questa la conclusione a cui sono giunto.
Ha destato molto interesse l’insistere di Bergoglio sul tema delle periferie, delle frontiere. Eppure, come lei scrive, già a Buenos Aires aveva impostato un progetto missionario incentrato sulla comunione e sull’evangelizzazione. Niente di nuovo, dunque?
La dimensione missionaria è la dimensione radicale propria della Compagnia. Tutti i gesuiti si pensano “in missione”. Papa Bergoglio legge questa dimensione non solo da un punto di vista geografico, ma soprattutto in chiave sociale. L’interpretazione specifica dello stare alle frontiere non è quella di assimilarle, ma di essere presenti lì, quindi di uscire da se stessi. D’altronde, già da arcivescovo di Buenos Aires lui più volte ha sottolineato il pericolo dell’autorefenzialità.
La dimensione missionaria è la dimensione radicale propria della Compagnia. Tutti i gesuiti si pensano “in missione”. Papa Bergoglio legge questa dimensione non solo da un punto di vista geografico, ma soprattutto in chiave sociale. L’interpretazione specifica dello stare alle frontiere non è quella di assimilarle, ma di essere presenti lì, quindi di uscire da se stessi. D’altronde, già da arcivescovo di Buenos Aires lui più volte ha sottolineato il pericolo dell’autorefenzialità.
Un altro raffronto che spesso si sente fare è quello tra il Papa teologo e il Papa pastore. Lei scrive che quella di Bergoglio è una “teologia in azione”. In cosa consiste?
Non è improvvisazione. C’è una comprensione profonda non puramente accademica della teologia in quanto tale che accomuna Francesco e Benedetto: la teologia è legata strettamente alla vita di fede. Posto questo, ogni Papa è diverso l’uno dall’altro. I paragoni rischiano di dar luogo a fraintendimenti, di non essere adatti. Francesco e Benedetto hanno avuto una formazione molto diversa, così come diversi sono i mondi e le sensibilità che incarnano. Uno è il pastore di formazione accademico, cresciuto nella Mittleuropa, l’altro è uomo di grandi capacità pastorali e di governo in America Latina. Il nesso di congiunzione tra i due sta nel discorso con cui Benedetto XVI ha rinunciato al Pontificato: il Papa oggi emerito ha rimarcato la necessità di avere vigore fisico e spirituale, di rispondere alle grandi sfide e ai cambiamenti nella società. Sembra che Bergoglio abbia raccolto il testimone più che essere semplicemente succeduto a Ratzinger.
Non è improvvisazione. C’è una comprensione profonda non puramente accademica della teologia in quanto tale che accomuna Francesco e Benedetto: la teologia è legata strettamente alla vita di fede. Posto questo, ogni Papa è diverso l’uno dall’altro. I paragoni rischiano di dar luogo a fraintendimenti, di non essere adatti. Francesco e Benedetto hanno avuto una formazione molto diversa, così come diversi sono i mondi e le sensibilità che incarnano. Uno è il pastore di formazione accademico, cresciuto nella Mittleuropa, l’altro è uomo di grandi capacità pastorali e di governo in America Latina. Il nesso di congiunzione tra i due sta nel discorso con cui Benedetto XVI ha rinunciato al Pontificato: il Papa oggi emerito ha rimarcato la necessità di avere vigore fisico e spirituale, di rispondere alle grandi sfide e ai cambiamenti nella società. Sembra che Bergoglio abbia raccolto il testimone più che essere semplicemente succeduto a Ratzinger.
Il suo libro vuole sottolineare già dal titolo “Da Benedetto a Francesco” la continuità tra i due papi. Non a caso, ricorda l’ultima udienza di Benedetto XVI, il 27 febbraio. Sagrato pieno, striscioni ovunque, applausi. E il Papa che commentava “la chiesa è viva”. Uno stato di salute confermato in questi primi mesi con il Pontifce argentino. La chiesa, nonostante tutto, si mantiene viva?
L’idea della vivacità della chiesa è stata molto presente nelle ultime settimane dopo la rinuncia di Papa Ratzinger. E’ stata esplicitata in maniera forte da Benedetto XVI ed è stata poi realizzata con particolare intensità durante questi primi mesi del Pontificato di Francesco. La Chiesa, nonostante tutti i problemi, si dimostra molto viva.
L’idea della vivacità della chiesa è stata molto presente nelle ultime settimane dopo la rinuncia di Papa Ratzinger. E’ stata esplicitata in maniera forte da Benedetto XVI ed è stata poi realizzata con particolare intensità durante questi primi mesi del Pontificato di Francesco. La Chiesa, nonostante tutti i problemi, si dimostra molto viva.
Per mesi si è detto che Bergoglio è stato eletto soprattutto per riformare la curia, che quella è la missione principale che i cardinali gli hanno affidato. Francesco davvero rivoluzionerà la curia, lo stile di governo?
Per rispondere alla domanda, abbiamo a disposizione un unico elemento: il passato di Bergoglio. Lui è sempre stato un pastore vicino alla gente e contemporaneamente un uomo di governo. Lo è stato come provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina, poi come vescovo di Buenos Aires (prima ausiliare) e presidente della locale Conferenza episcopale. Possiamo quindi tranquillamente dire che è una persona di governo, che ha idee molto chiare e le porta avanti. Non solo ha le idee chiare, ma se le forma. Ascolta molto prima di agire. A tal proposito mi piace citare spesso il discorso tenuto da Papa Francesco il 31 maggio scorso, a conclusione del mese mariano. Il Pontefice ha parlato di Maria e delle tre sue attitudini: ascolto (delle parole e dei fatti), decisione, azione. A parte che questi elementi corrispondono ai pilastri della pedagogia ignaziana (esperienza, riflessione, azione), corrispondono soprattutto al suo modo di agire. Solo dopo l’ascolto, arriva l’azione. Papa Bergoglio non è affatto un idealista né una persona avventata.
Per rispondere alla domanda, abbiamo a disposizione un unico elemento: il passato di Bergoglio. Lui è sempre stato un pastore vicino alla gente e contemporaneamente un uomo di governo. Lo è stato come provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina, poi come vescovo di Buenos Aires (prima ausiliare) e presidente della locale Conferenza episcopale. Possiamo quindi tranquillamente dire che è una persona di governo, che ha idee molto chiare e le porta avanti. Non solo ha le idee chiare, ma se le forma. Ascolta molto prima di agire. A tal proposito mi piace citare spesso il discorso tenuto da Papa Francesco il 31 maggio scorso, a conclusione del mese mariano. Il Pontefice ha parlato di Maria e delle tre sue attitudini: ascolto (delle parole e dei fatti), decisione, azione. A parte che questi elementi corrispondono ai pilastri della pedagogia ignaziana (esperienza, riflessione, azione), corrispondono soprattutto al suo modo di agire. Solo dopo l’ascolto, arriva l’azione. Papa Bergoglio non è affatto un idealista né una persona avventata.
Si parla molto di collegialità e sinodalità. Il Papa che nomina un gruppo di consiglieri, che crea ex novo una commissione pontificia incaricata di indagare sulle attività dello Ior. Ma alla fine, chi decide è sempre lui?
Papa Francesco forse fa tesoro anche dell’esperienza precedente nella Compagnia di Gesù. Ogni superiore gesuita decide immediatamente, senza regole di maggioranza e di minoranza. Tuttavia ogni superiore ha un gruppo di consultori, uomini che sanno di poter parlare liberamente perché sanno che alla fine lui decide dopo aver vissuto una esperienza di profondo ascolto. Parlerei inoltre di collegialità effettiva ma anche affettiva.
Papa Francesco forse fa tesoro anche dell’esperienza precedente nella Compagnia di Gesù. Ogni superiore gesuita decide immediatamente, senza regole di maggioranza e di minoranza. Tuttavia ogni superiore ha un gruppo di consultori, uomini che sanno di poter parlare liberamente perché sanno che alla fine lui decide dopo aver vissuto una esperienza di profondo ascolto. Parlerei inoltre di collegialità effettiva ma anche affettiva.
Lo stile di Francesco ha impressionato: lo stare in mezzo alla gente, ricercando continuamente il contatto umano; scendere dalla jeep in piazza, dire di voler uscire per andare a confessare. E’ improvvisato?
Qualcuno si ferma alla dimensione esteriore del gesto, sbagliando. I gesti di Papa Francesco non sono di sterile simpatia, di effetto mediatico. Hanno invece un alto valore, molto più profondo di quanto possa apparire superficialmente. Contengono un forte messaggio che è da discernere.
Qualcuno si ferma alla dimensione esteriore del gesto, sbagliando. I gesti di Papa Francesco non sono di sterile simpatia, di effetto mediatico. Hanno invece un alto valore, molto più profondo di quanto possa apparire superficialmente. Contengono un forte messaggio che è da discernere.
A metà giugno la comunità della Civiltà Cattolica è stata ricevuta dal Papa. Cosa l’ha colpita di più, in quell’incontro?
Già dal momento di udienza privata avuto prima dell’incontro con gli altri, ho potuto constatare come il Papa sia una persona capace di mettere a proprio agio chi ha davanti a sé. Non si avverte la distanza, nonostante si percepisca la sua autorevolezza profonda. Anche in questa circostanza ho constatato la sua forte capacità di ascolto. Delle cose che ha detto, ha insistito molto sulla frontiera che noi gesuiti della Civiltà Cattolica dobbiamo abitare. Francesco ha ribadito che le frontiere vanno vissute e comprese, mai assimilate. Di nuovo, dunque, l’invito a uscire.
Già dal momento di udienza privata avuto prima dell’incontro con gli altri, ho potuto constatare come il Papa sia una persona capace di mettere a proprio agio chi ha davanti a sé. Non si avverte la distanza, nonostante si percepisca la sua autorevolezza profonda. Anche in questa circostanza ho constatato la sua forte capacità di ascolto. Delle cose che ha detto, ha insistito molto sulla frontiera che noi gesuiti della Civiltà Cattolica dobbiamo abitare. Francesco ha ribadito che le frontiere vanno vissute e comprese, mai assimilate. Di nuovo, dunque, l’invito a uscire.
La rivoluzione di Francesco
senza corte, ori e valletti
Dalla nuova residenza alla rottura delle prassi: così la sobrietà investe
i Sacri Palazzi
i Sacri Palazzi
CITTA’ DEL VATICANO
Alle quattro di pomeriggio con l’afa romana che dà il meglio di sé, due guardie svizzere in uniforme e un gendarme con la divisa stazionano davanti all’ingresso della Casa Santa Marta, la residenza stabile del Papa e di un’altra quarantina fra vescovi, monsignori e laici che lavorano Oltretevere. È il segno che il numero uno si trova in sede.
La bandiera bianca e gialla con le insegne vaticane svetta immobile e flaccida davanti alle finestre del secondo piano di questo parallelepipedo anonimo, fatto costruire da Giovanni Paolo II a metà degli anni Novanta per dare una sistemazione degna ai cardinali in conclave. Sono le stanze di Francesco. Dopo l’identificazione, l’ospite scende per la scala semicircolare che porta nella hall, austera e un po’ fredda. Lì, dietro il grande bancone, attende un laico dai tratti orientali con un abito color tabacco. Tutto è silenzioso. L’estate si avverte anche a Santa Marta e in più, ormai, gli ospiti sanno bene che Bergoglio può spuntare all’improvviso dall’ascensore, da una porta che si apre, dalla sala mensa, da uno dei salottini. Se si esce di stanza, bisogna essere sempre vestiti bene.
All’interno, nella hall, ci sono un altro svizzero e un altro gendarme, entrambi in borghese. «Mi hanno fatto accomodare in una saletta con alcune poltrone foderate di verde. Il Papa - racconta il nostro interlocutore, ricevuto in udienza privata - è arrivato all’improvviso, da solo, senza segretari né maggiordomi, portando con sé una busta con dei rosari. Alla fine del colloquio lui stesso ha aperto la porta e mi ha accompagnato ai piedi della scala d’uscita». È una scena che meglio di qualunque altra descrive il cambiamento avvenuto nei sacri palazzi.
Casa Santa Marta è una via di mezzo tra un albergo e una casa del pellegrino: difficile ripristinare qui il senso della corte, così evidente nel palazzo apostolico e nella sua rinascimentale dignità. Il nostro viaggio attraverso le più importanti novità prodotte dal Papa argentino, le piccole e grandi rotture del protocollo, e il loro significato, non poteva che cominciare da qui. La scelta di rimanere nella residenza dove ha alloggiato da cardinale durante il conclave, presa «per motivi psichiatrici», perché non gli piaceva «l’isolamento». Come aveva scritto all’amico prete argentino Enrico Martinez detto “Quique”: «Sono visibile alla gente, faccio una vita normale, mangio nella mensa con tutti...». E per il caffè non ci sono valletti ma una più prosaica macchinetta a gettone, nel corridoio comune.
Al secondo piano, occupa la suite numero 201: pareti bianchissime e un po’ spoglie, un salotto con un paio di poltrone e una scrivania, una libreria a vetri, dei tappeti persiani, parquet chiaro tirato fin troppo a lucido, una camera da letto con un imponente letto in legno scuro, un bagno. Era la suite tenuta libera per gli ospiti importanti del Papa, come il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I. Ricevendolo, Francesco s’è scusato con lui: «Mi perdoni se le ho rubato la stanza...». «Ma io gliela lascio volentieri» è stata la risposta del patriarca ortodosso. Nelle stanze accanto al Papa vivono i due segretari: quello che Francesco ha «ereditato» dal predecessore, il maltese don Alfred Xuereb, e quello che si è scelto, l’argentino don Fabián Pedacchio. Figure meno ingombranti e certamente meno potenti dei loro immediati predecessori. Jorge Mario Bergoglio, continuando a concepire se stesso come un prete al servizio di Dio e perciò degli altri, non un monarca, è rimasto tale e quale anche dopo quel 13 marzo che gli ha cambiato la vita impedendogli di usare il biglietto di ritorno per Buenos Aires, già prenotato. Così Francesco, il Papa della porta accanto, ha voluto continuare ad abitare qui, spostandosi soltanto di qualche metro nello stesso piano, dalla più piccola stanza 207 assegnatagli per il conclave. Ha deciso di non occupare l’appartamento papale, anzi «l’Appartamento» con la A maiuscola, come veniva chiamata in gergo l’«entità» rappresentata dal più stretto entourage. Ne ha preso possesso, rimanendo impressionato per quanto grande fosse: «Qui c’è posto per trecento persone!». Non si tratta certo di una reggia. Ma si può capire la reazione, per uno abituato a vivere da cardinale in un paio di stanzette, rifacendosi il letto ogni giorno.
Le prime novità erano arrivate già in conclave. Appena eletto, e prima ancora di indossare la veste bianca, Francesco era andato ad abbracciare il cardinale Angelo Scola, suo «concorrente» durante gli scrutini. Poi il rifiuto di indossare uno dei quarantacinque paia di scarpe rosse fatte preparare per l’occasione: meglio le grosse scarpe nere. Più che di gusti, questione di ortopedia, dato che le calzature già consunte gli servono per camminare meglio. Niente mozzetta rossa né rocchetto di pizzo. Niente croce pettorale d’oro, niente anello papale vistoso a diciotto carati. Niente macchinona blindata con targa «SCV 1», l’ammiraglia di un parco macchine vaticano che ha visto tornare in auge le più sobrie utilitarie. Niente scorta e gran movimento di gendarmi per ogni spostamento, anche minimo, all’interno del minuscolo Stato.
Il piccolo mondo vaticano, che monsignor Marcinkus definiva «un villaggio di lavandaie», ha dapprima abbozzato, poi ha cercato di adeguarsi, come si è visto già due giorni dopo l’elezione, quando tutti i cardinali che salutavano il Papa nella Sala Clementina avevano riesumato croci in ferro o d’argento, lasciando nel cassetto quelle d’oro gemmate.
A Santa Marta ci sono due ascensori, e uno si cerca di tenerlo libero per l’inquilino più importante. Ma capita spesso che Francesco s’infili in quell’altro. Due vescovi se lo sono visto entrare all’ultimo momento, prima che le porte si chiudessero e un po’ imbarazzati si sono appiattiti sul fondo, con il Papa che sorridendo ha detto loro: «No muerdo», non mordo mica... Gli aneddoti fioriscono, talvolta ingigantiti, come quello della guardia svizzera che aveva fatto il turno di notte e che si sarebbe visto portare un panino da Francesco. Da Santa Marta Bergoglio ama muoversi a piedi. Sabato 16 marzo ha rifiutato con un’eloquente gesto della mano - come a dire: «Ma state scherzando?» - il corteo di macchine predisposto per fargli fare cinquanta metri. Mentre un’altra volta uscendo, ha incontrato un vescovo che stazionava davanti all’ingresso: «Che fai qui?», ha chiesto. «Sto aspettando che mi vengano a prendere», è stata la risposta del prelato. «Ma non puoi andare a piedi?», ha replicato Francesco.
Un Papa «normale» e proprio per questo straordinario. Che ripete le parole antiche e sempre nuove del Vangelo. «Parole che colpiscono molto - ci dice il professor Andrea Riccardi, storico della Chiesa - perché risuona in modo particolare l’autenticità della sua persona».
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