ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 2 agosto 2013

Contenti loro..!



L’eccezionale normalità di Francesco

ll filosofo ciellino Costantino Esposito analizza la ratio del gesuita che parla ai cuori

Il colloquio di Francesco con i giornalisti sull’aereo di ritorno da Rio ci consegna di fatto il programma di governo  che il Papa ha in mente per la chiesa. Un programma profondo e per molti versi rivoluzionario, svelato al mondo in modo inusuale e nuovo per un Pontefice. Costantino Esposito, filosofo e professore ordinario all’Università di Bari, cattolico e tra i protagonisti del Meeting di Rimini organizzato a fine agosto da Comunione e liberazione, dice al Foglio di esserselo “letto e riletto più volte”, e di essere rimasto colpito innanzitutto dal fatto che “ci troviamo di fronte a un uomo contento.
Quando la gente pensa al Papa pensa a un uomo piegato sotto il peso della responsabilità, segnato dalla fatica, dal ruolo. Lui invece lo dice subito: ‘Io sono contento perché il Signore lavora nel cuore’”. Con l’arrivo di Francesco sembrano essere cambiate anche certe priorità: dopo anni di discorso sui valori non negoziabili, il Papa sembra insistere su altro. Questo ha scombussolato associazioni e movimenti abituati a portare avanti certe battaglie come prioritarie rispetto ad altre: “Il fatto che dica di non avere più nulla da dire al riguardo, perché la chiesa si è già espressa chiaramente – continua Esposito – non è uno sminuire il problema, un darlo per scontato: il Papa ci dice piuttosto che è venuto il momento di far capire perché quelle posizioni sono ragionevoli”. E’ finito il tempo del discorso sui divieti? “Francesco dice in modo chiaro che ora dobbiamo testimoniare che vivere in un certo modo dà gioia. Da cardinale andava per le strade non per un atteggiamento bohémien, ma per far vedere che la chiesa è utile per vivere tutti i giorni”.
Il Papa ha molto insistito sull’uscire fuori dalle parrocchie, dalle comunità, dai movimenti, per andare verso le “periferie delle esistenze”. Può essere interpretato come un superamento di un certo tipo di esperienza che esplose sotto Wojtyla? “Certamente è un giudizio affilatissimo su tutti noi – ammette Esposito – La tentazione dell’autoreferenzialità, del ‘chiudere il cerchio’ è sempre presente tra i cattolici. L’uscire di cui parla Bergoglio è un ‘aprire’ la vita, l’affettività, la razionalità, per questo lo interpreto piuttosto come un formidabile invito a non tralasciare i carismi, a riprenderli sul serio, tanto che lui stesso ai giornalisti ha sottolineato come i movimenti siano ‘necessari’ alla vita della chiesa”. Poche settimane prima di diventare Papa, Benedetto XVI volle celebrare personalmente i funerali del fondatore di Cl, don Luigi Giussani, di fatto segnalando un idem sentire con il suo movimento, poi emerso in molti accenti del suo pontificato. Cosa cambia con Bergoglio? “Penso a quello che ha scritto a questo proposito il successore di Giussani, don Julián Carrón, sottolineando il contraccolpo eccezionale dopo l’elezione del nuovo Papa e la consonanza di pensiero. Ridurre quest’ultimo aspetto al cercare nei suoi discorsi locuzioni più o meno ‘giussaniane’, però, sarebbe riduttivo. Ci sono accenti molto simili, certo, ma il punto non è questo: io personalmente sono contento di potere imparare da lui e di potere essere in compagnia sua per come ci ripropone il primato dell’incontro con Cristo che sempre ci spiazza”.
Molti hanno sottolineato la normalità di Francesco: la borsa a mano, la visita alla favela, gli abbracci con la gente. “Fa scalpore, è vero – dice Esposito – ma non è una posa studiata, né la scelta di un registro di basso profilo: Francesco ha scoperto, come ogni cristiano cosciente, che l’eccezionale è diventato normale: niente è più banale, tutto è attraversato dal mistero e quindi interessante”. Strategia di comunicazione? “Bergoglio non è soltanto un nuovo attore sulla scena che ripensa la comunicazione della chiesa – continua Esposito – Certo, uno che sceglie di fare un’intervista così sa che scatenerà il putiferio, ma la sua genialità è proprio nel non avere problemi di mediazione: lui sa che Cristo è presente, e questo cambia le cose, anche il suo modo di essere. Per noi la normalità è ripetizione noiosa delle cose, per lui è essere in compagnia della persona amata. Si capisce in due punti: quando dice che ha bisogno di domandare sempre al Signore e quando spiega che per lui la fede è un avvenimento di popolo in quanto intercetta i bisogni del quotidiano sino al desiderio ultimo di essere e di pienezza: non cerca una mediazione tra i bisogni e la dottrina”. C’è però molta enfasi mediatica sui suoi modi, sul suo essere “uno di noi”, per questo secondo Esposito occorre farsi toccare dal punto vero del suo messaggio, “altrimenti prima o poi anche i viaggi in aereo con la borsa in mano ci annoieranno”.
Francesco può essere definito un Papa più sociale che politico? “Appena arrivato in Brasile ha detto: ‘Io non porto né oro né argento, ma Cristo risorto’. La forte attenzione al sociale c’è, ma bisogna comprendere a fondo, senza appiattirlo, lo stesso discorso sulla povertà. Lo ha detto incontrando i movimenti e le associazioni ecclesiali a maggio, per lui il povero è la carne di Cristo”. Senza tenere presente questo aspetto “si rischia davvero di buttarla semplicemente in politica, pensando a esempio alla lotta alla povertà come una strategia”. Tanti hanno salutato Francesco come il Papa che parla finalmente al cuore, che non giudica, si pensi all’accoglienza che la frase sui gay ha avuto. “Noi post moderni pensiamo sempre che ci sia un’estraneità tra amore e giudizio – avverte Esposito – Parlando al Venerdì Santo, ma anche nell’ultima enciclica sulla fede, Francesco ha spiegato bene invece che non è possibile l’amore senza la verità, perché si ridurrebbe a essere solo feeling, e alla lunga si esaurirebbe, ma anche che non c’è verità senza amore: e la verità è che Dio ci abbraccia, che tu sei voluto e sei grande. Insomma, ‘Dio ci giudica amandoci’”. Finalmente il cuore, sì, ma pur sempre un cuore gesuita, quindi legato alla ragione. “Pensiamo al Papa a Lampedusa, o nella favela, o con gli stessi giornalisti. Che cosa c’è dietro quel suo modo di stare? Una sua bontà? Non solo: quello sguardo è un giudizio”. L’alternativa nichilista, spiega ancora Esposito, è quella di un io senza verità o di una verità senza io, per cui uno è costretto a essere solo quello che già è. “Ecco spiegato il suo passaggio sui gay nel colloquio con i giornalisti: dalle sue parole si capisce che per Francesco la vera alternativa non è tra i perfettini e i peccatori, ma tra l’io e la lobby. La lobby è sempre negativa perché ha come mission il gestire i problemi in maniera autoreferenziale, come bilanciamento di potere. Per questo il problema non è essere in un certo modo piuttosto che in un altro, ma che cosa ci aspettiamo dalla vita. E Francesco di questo è certo, quando dice: ‘Non saprei dire come finirà, ma la vita è così. E questo è il bello’”.
Nella sua relazione alla presentazione de “Il Concilio segreto” di Ignazio Ingrao, e pubblicata sul Foglio di giovedì scorso, il direttore Giuliano Ferrara (ri)lancia una tesi, già esposta su questo giornale il 25 maggio scorso con il titolo piuttosto efficace di “Francesco e la fine del Concilio”, secondo la quale “il nuovo Papa non è un Papa del Concilio né del dopo Concilio. È stato preso alla fine del mondo, in una terra, in una circostanza, in una situazione, in una koinè spirituale, lo si vede benissimo dal modo rivoluzionario anche formalmente con cui ha fatto i suoi primi passi, che non risponde più alla vecchia logica Concilio post Concilio, le divisioni che il Concilio introduce nella chiesa”.

Bergoglio, in effetti, ordinato nel 1969, non ha vissuto i convulsi dibattiti tra le vecchie categorie progressisti-conservatori; Francesco, si dice dunque, non è né uomo del Concilio né del postconcilio. Jorge Mario Bergoglio, occorre però notare, è cresciuto (sacerdotalmente) in quegli anni nei quali la chiesa si è impregnata fino al midollo del cosiddetto “spirito del Concilio”, in quegli anni avulsi da qualsiasi concetto di tradizione e proiettati all’“andare avanti”. In una delle rarissime volte in cui Bergoglio ha citato il Vaticano II, l’omelia del 16 aprile scorso (giorno del compleanno di Joseph Ratzinger), ha detto: “Festeggiamo questo anniversario, facciamo un monumento, ma che non dia fastidio. Non vogliamo cambiare. Di più: ci sono voci che vogliono andare indietro. Questo si chiama essere testardi, questo si chiama voler addomesticare lo Spirito Santo, questo si chiama diventare stolti e lenti di cuore”. 

Per questo, in realtà, sembra che il Papa preso dalla fine del mondo rappresenti in pieno il frutto più maturo del postconcilio. Papa Bergoglio non è interessato ad affermare ortodossie o a promuovere, come fece il predecessore Papa tedesco, un’interpretazione del Vaticano II, è vero, ma questo perché con una precisa ermeneutica, quella dello “spirito” appunto, si è formato, è cresciuto ed è in lui connaturale. È, in un certo senso, vero che supera le dispute delle due ‘fazioni’, ma non perché ne è estraneo, quanto piuttosto perché ne incarna una. 

E questo è dimostrato in quanto, in questi primi mesi di pontificato, il “Vescovo di Roma” cavalchi quasi unicamente – fatta, va da sé, eccezione per il binomio poveri&periferie (anche se, per inquadrarlo in ottica conciliare basta rileggersi, sempre sul Foglio citato, il card. Lercaro) – alcuni di quelli che sono stati (e sono tuttora) i temi forti del conciliarismo vaticansecondista. 

Collegialità, ad esempio. Quella della collegialità è, senza dubbio alcuno, una delle cifre distintive del pontificato di Papa Bergoglio la cui visione ecclesiologica sembra andare, poco a poco, delineandosi. Che il Papa gesuita fosse particolarmente propenso ad una nuova ecclesiologia fu chiaro già dalla sera di quel 13 marzo scorso quando, il neoeletto al Soglio di Pietro col nome di Francesco, deposti, i simboli regali, si presentò al mondo come “Vescovo di Roma”. Serpeggia, da allora, una sottile quanto perniciosa teoria: che il bagaglio, cioè, di simboli e paramenti che Papa Francesco ha da subito rifiutato (e tutt’ora rifugge) facciano parte null’altro che di una “rivoluzione di stile” e non di sostanza. E no: nella tradizione spesso, e soprattutto nell’abbigliamento, la forma è sostanza. I paramenti che Papa Bergoglio evita, sono quelli del potere regale proprio del primato petrino. Se Simone non si spoglia di sé stesso per indossare simbolicamente i panni di Pietro, vuol dire che una qualche conseguenza anche sul piano dottrinale potrebbe esserci.
[Della collegialità abbiamo già parlato qui] - [Trovandone la radice qui] - [Qui una riflessione più generale]

Tant’è che, da circa quattro mesetti, molti commentatori (forse freudianamente) tendono – semplifico – a precisare: va bene la collegialità, ma il primato di Pietro non si tocca. Il problema, però, non è l’annullamento, de iure, del primato, ma de facto. Il primato che il Papa argentino sembra affermare (maggiore “sinodalità in armonia con il primato”) non è più verticale, ma diventa orizzontale, onorifico. Le preoccupazioni del mondo cattolico, dunque, non sono (solamente) se il Papa conservi il primato, ma come possa effettivamente esercitarlo in seguito ad una sua evidente ridefinizione: un “primus”, sì, non più “super”, ma “inter pares”.
Mattia Rossi
@1mattiarossi
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[Fonte: Il Foglio 30 luglio 2013]

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