Che tipo è e cosa pensa il custode di fede e dottrina tra la teologia di Ratzinger e il cuore pastorale di Francesco
L’ultimo colpo del “Grande Inquisitore”. Non riuscì a trattenersi, Hans Küng, quando venne a sapere che l’ex Sant’Uffizio era finito nelle mani di monsignor Gerhard Ludwig Müller, vescovo di Ratisbona e già professore di Teologia dogmatica. Tutto era ormai chiaro, non serviva più discutere: il Grande Inquisitore, vale a dire Joseph Ratzinger, stava riportando la chiesa al suo sistema romano medievale, totalitario, spietato. Il completamento della restaurazione dello status quo ante Concilium. Parlava di teologi dotati di museruola, di fine della speranza che il Vaticano II e il suo spirito avevano ingenerato nei tormentati anni Sessanta. Müller, per Küng, altro non era che una “Katastrophe!”, l’annuncio della fine dei tempi ormai imminente, la settima e ultima tromba descritta da Giovanni nell’Apocalisse che fece alzare nel cielo voci potenti e prostrare gli anziani d’Israele.
La presunta aura progressista non deve ingannare; il fatto che sia figlio di un “semplice operaio della Opel a Rüsselsheim” e di una casalinga non deve creare fraintendimenti. Müller è l’ennesimo conservatore, e per di più giovane, messo lì a museizzare il depositum fidei, facendolo ammuffire, e a erigere alti bastioni a protezione del tesoro più prezioso della chiesa, ben più dei calici pregiati conservati in teche di vetro o di paramenti seicenteschi barocchi tessuti in filo d’argento.
Curiosamente, alla sciagura gridarono anche i tradizionalisti, i lefebvriani, che prendevano estratti dall’immensa produzione letteraria del neo prefetto della Dottrina della fede per indicare che il prescelto era “un esponente delle cosiddette forze progressiste”, un eretico, uno che è arrivato al punto di negare perfino la verginità di Maria Santissima – in “Katholische Dogmatik” Müller scrive che la verginità di Maria non ha a che fare con specifiche proprietà fisiologiche del processo naturale della nascita – e la transustanziazione. Un pericoloso luterano, dunque, posto diabolicamente a guardia dell’ortodossia. Poco ci mancava che i seguaci di Marcel Lefebvre citassero, a irrobustire la loro tesi, perfino Paolo VI, il Papa che aveva visto il fumo di Satana insinuarsi da qualche fessura nel tempio di Dio. Ma Benedetto XVI non si curò di loro, né dell’ira che infosca la mente di Küng, né dell’esame di ortodossia promosso a Ecône. Ricordava bene, il Papa oggi emerito, le critiche (spesso veementi) alle quali fu sottoposto nel corso del suo più che ventennale mandato all’ex Sant’Uffizio. E il suo secondo successore in quelle stanze, oggi sempre più vicino a essere ciò che Ratzinger fu per Giovanni Paolo II, colui che irrobustisce di dottrina e teologia il messaggio del cuore, ribadisce che “il nostro compito principale è quello di annunciare il Vangelo e di esporre in modo concreto la dottrina della chiesa”. Riprendendo poi il titolo della dichiarazione “Dominus Jesus” firmata dal teologo tedesco nel 2000 – “Dominus Jesus” è anche il motto episcopale di Müller –, l’attuale prefetto chiariva che “non c’è alternativa alla rivelazione di Dio in Gesù Cristo”; una rivelazione che “risponde alle grandi domande degli uomini di ogni tempo”.
Neppure la mai celata vicinanza alla Teologia della liberazione, sorta in America latina negli anni del Concilio, ebbe un peso sulla decisione di Ratzinger. Müller, infatti, non ha mai fatto mistero della sua amicizia con Gustavo Gutiérrez, uno dei tanti padri spirituali della Teologia della liberazione. Si conobbero nel 1988, quando l’allora professore della Ludwig Maximilian’s Universität di Monaco partecipò a un seminario con il prete peruviano. “Ci sono andato con qualche riserva”, avrebbe raccontato più di vent’anni dopo, “perché conoscevo bene le due dichiarazioni della congregazione per la Dottrina della fede pubblicate nel 1984 e nel 1986”. Un rapporto così stretto, tra i due, che Gutiérrez è stato introdotto nelle spartane stanze di Santa Marta proprio dal prefetto tedesco, che l’ha presentato un paio di mesi fa a Francesco, scatenando l’ira del cardinale arcivescovo di Lima, Juan-Luis Cipriani Thorne, Opus Dei, che per ben due volte ha bollato come ingenuo il capo dell’ex Sant’Uffizio. Una riabilitazione in piena regola, quella di Gutiérrez, con tanto di paginate sull’Osservatore Romano, l’organo ufficiale della Santa Sede, il giornale del Papa.
Dopotutto, Müller ha sempre sottolineato che Ratzinger – nel suo ventennale ruolo di custode dell’ortodossia cattolica – mai aveva condannato il sacerdote peruviano.Anzi, se si vanno a rileggere con attenzione i documenti centrali nella lotta di Roma alla Teologia della liberazione, la “Libertatis nuntius” e la “Libertatis conscientiae”, si scoprirà che oltre alle critiche c’è anche altro, come il plauso a chi vuole “rispondere con generosità e con autentico spirito evangelico alla opzione preferenziale per i poveri”. Ho potuto constatare, diceva Müller, “che bisogna distinguere tra una Teologia della liberazione sbagliata e una corretta. Ritengo che ogni buona teologia abbia a che fare con la libertà e la gloria dei figli di Dio. Di certo, però, una mescolanza della dottrina di un’auto-redenzione marxista con la salvezza donata è da respingere”.
L’ex vescovo di Ratisbona più di una volta ha sottolineato che da quei due documenti usciti dalla penna di Joseph Ratzinger si aprì la strada “a una vera Teologia della liberazione che è strettamente legata alla dottrina sociale della chiesa e che nel mondo di oggi deve levare la propria voce”. Müller parlò allora di “visione che, partendo dalla fede, realizza la realtà intera, storica dell’uomo, come singolo e come società, offre orientamenti comportamentali non solo a singoli cristiani, ma anche sul piano delle decisioni politiche ed economiche”. Parole che non passarono inosservate, tanto che qualcuno, nei corridoi della curia, avanzò dubbi sull’opportunità che Benedetto XVI volesse affidare proprio al professore di Teologia dogmatica tedesco il dicastero da lui guidato per più di due decenni con inflessibile rigore. Ma quella era una scelta personale del Papa, esattamente come lo era stata la nomina di Tarcisio Bertone sei anni prima. I detrattori, si disse, dovettero arrendersi. A ogni modo, già nel dicembre del 2011, l’Osservatore Romano pubblicava un lungo articolo dell’allora vescovo di Ratisbona uscito qualche settimana prima sulla Tagespost. Nel testo – cui il giornale del Papa diede ampia visibilità, quasi fosse una riabilitazione – Müller ricordava che Ratzinger aveva sì messo in guardia sui pericoli della Teologia della liberazione, ma ne aveva mostrato anche i “princìpi positivi”. A finire sotto la scure dell’ex Sant’Uffizio era stato solo l’uso di un’ermeneutica marxista, quel riduzionismo socializzante contro il quale si era speso con forza, sei anni fa ad Aparecida, lo stesso cardinale Jorge Mario Bergoglio. Ma agli oppositori, perplessi dalla scalata di quell’alto e austero professore tedesco cui Ratzinger aveva affidato la cura della sua opera omnia teologica, continuavano a mostrarsi perplessi. Leggevano e rileggevano la sua biografia, scandagliando il curriculum, gli studi, le pubblicazioni. E soprattutto andando a cercare nomi e cognomi dei suoi maestri.
Ed è qui che la scelta di Benedetto appariva quantomeno sorprendente. Gerhard Ludwig Müller, infatti, studiò filosofia e teologia a Magonza, Monaco e Friburgo, e nel 1977 presentò la tesi sulla teologia sacramentale di Dietrich Bonhoeffer, il teologo luterano martire del nazismo, che nel 1933 chiedeva “un grande concilio ecumenico della santa chiesa di Cristo da tutto il mondo” per “invocare la pace di Cristo sul mondo delirante”. Relatore della tesi di dottorato fu il futuro cardinale Karl Lehmann, allievo e assistente del gesuita Karl Rahner, perito conciliare di Franz König e definito dall’allora decano dell’Università Gregoriana, Juan Alfaro, “il massimo ispiratore del Concilio”.
Scrisse il britannico Tablet che Müller era “simile ma anche diverso” da Ratzinger.Simile perché entrambi raffinati teologi immersi nella cultura tedesca ricca di pensiero e storia. Diverso perché, pur mostrandosi sempre moderato e prudente, Müller aveva risentito negli anni giovanili dell’influenza di Lehmann, uno dei capofila della storica e mai conclusa battaglia del cattolicesimo tedesco contro il centralismo romano. Eppure, tanto quanto Joseph Ratzinger (e anche questo è uno dei capi di imputazione mossi da Küng), lui è fedelmente romano: “L’impronta fondamentale della mia famiglia è romana. A Magonza si è ancora molto consapevoli di questa eredità, e ne siamo orgogliosi. Avere un orizzonte romano nel cuore della Germania ha lasciato un segno. E quando si è cattolici le due realtà si collegano automaticamente”.
Insediandosi all’ex Sant’Uffizio, parlò di un “certo scoramento che si sta diffondendo in alcuni ambienti” che va superato. Porte aperte ai lefebvriani, massima disponibilità a ricucire la ferita, ma con paletti ben precisi, robusti e chiari: “Lo scopo del dialogo è quello di superare le difficoltà di interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, ma non possiamo negoziare sulla fede rivelata, questo è impossibile”. Punto fondamentale è il riconoscimento del Magistero dei pontefici da Giovanni XXIII in poi, e ancor di più capire che l’assise aperta da Angelo Roncalli nel 1962 “non è un salto rispetto alla tradizione perché altrimenti la chiesa deflagrerebbe”.
In dottrina, Müller non sbanda. I suoi interventi sono chiari e puliti, degni di un professore di Teologia certo che “la fede cattolica corrisponda alle esigenze intellettuali più elevate”. Una convinzione maturata in gioventù, dalla lettura di “Introduzione al cristianesimo”, il libro del professor Ratzinger pubblicato nel 1968: “L’ho assorbito come una spugna”, raccontava Müller all’Osservatore Romano, che aggiungeva: “In quegli anni nei seminari c’era incertezza. Nel libro, la professione di fede della chiesa viene esposta in modo convincente, analizzata con l’aiuto della ragione e spiegata con maestria. Si tratta un tema importante che caratterizza l’intera opera teologica di Joseph Ratzinger, fides et ratio, fede e ragione”.
Da prefetto, si è dimostrato sempre un convinto sostenitore della linea impostata da Benedetto XVI, secondo la quale si deve lavorare all’inclusione di gruppi, fazioni e correnti esterne, dai seguaci di Lefebvre alle suore americane ribelli che marciano in tailleur chiedendo che la messa venga celebrata anche da donne e non solo da sacerdoti maschi. La sua risposta è semplice: “Esiste un’unica rivelazione di Dio in Gesù Cristo che è stata affidata all’intera chiesa. Per questo non ci sono trattative sulla parola di Dio, e non si può credere e al contempo non credere. Non si possono pronunciare i tre voti religiosi e poi non prenderli sul serio. Non posso fare riferimento alla tradizione della chiesa e poi accettarla solo in alcune sue parti”. Invitava, Müller, “a rinunciare alle polemiche e all’ideologia e a immergersi nella dottrina della chiesa”.
E chi sbaglia, chi svia dalla strada maestra, va richiamato all’ordine e riportato sulla giusta carreggiata: “La chiesa, a volte, corregge chi sbaglia. Se non lo facesse, verrebbe meno alla sua missione di mater et magistra”.
E chi sbaglia, chi svia dalla strada maestra, va richiamato all’ordine e riportato sulla giusta carreggiata: “La chiesa, a volte, corregge chi sbaglia. Se non lo facesse, verrebbe meno alla sua missione di mater et magistra”.
Madre, appunto, ma anche maestra. Lo spiegava bene, qualche anno fa, Benedetto XVI nel corso di un’omelia pronunciata nella basilica di San Pietro: “Il pastore ha bisogno del bastone contro le bestie selvatiche che vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano il loro bottino”. Accanto al bastone, però, “c'è il vincastro che dona sostegno e aiuta ad attraversare i passaggi difficili”. E ambedue le cose, bastone e vincastro, rientrano pure nel ministero della chiesa, aggiungeva Ratzinger. Perché la chiesa è chiamata a “usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio di amore”.
Una lezione che il suo secondo successore alla congregazione per la Dottrina della fede ha imparato bene, come dimostra la recente eruzione di ortodossia promanata dal palazzo del Santo Uffizio. Così, se Francesco è impegnato a sanare le ferite nel suo ospedale da campo, infondendo amore e riscaldando il cuore degli uomini, invocando misericordia e carità, Müller di quell’ospedale da campo àncora saldamente a terra i paletti, così da poter resistere a venti impetuosi e scosse improvvise. Ricorda, riportando in auge il pensiero del cardinale Alfredo Ottaviani – ultimo capo della Suprema Sacra Inquisizione Romana e Universale e tra gli esponenti di spicco del Coetus Internationalis Patrum, la fazione conservatrice presente al Concilio – che la rectitudo fidei è la condizione primaria per la rectitudo morum. Parla di pastorale familiare, di divorziati risposati e di teologia sacramentaria, il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede. Mette in guardia dal “falso richiamo alla misericordia” in cui si incorre, finendo per “banalizzare l’immagine stessa di Dio, secondo la quale questi non potrebbe far altro che perdonare”. Spiega, Müller, che “al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia” e “se si nascondono questi attributi di Dio e non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia”.
Giorni dopo, riprendendo le riflessioni di Joseph Ratzinger sul sacramento dell’ordine, Müller indagava la “crisi d’identità” cui si giunse all’indomani del Concilio, “paragonabile solo con le conseguenze della Riforma protestante del XVI secolo. Difendeva il celibato contro chi – anche dentro la chiesa stessa – apriva alla possibilità di aggiornamenti e colpi di spugna: “Se la relazione simbolica che appartiene alla natura del sacramento viene oscurata, il celibato sacerdotale diviene il relitto di un passato ostile alla corporeità e viene additato e combattuto come l’unica causa della penuria di sacerdoti”. L’essenza primaria e più profonda di questa crisi, diceva, “è anche il risultato di un radicale disorientamento dell’identità cristiana di fronte a una filosofia che trasferisce all’interno del mondo il senso più profondo e il fine ultimo della storia e di ogni esistenza umana, privandolo così dell’orizzonte trascendente e della prospettiva escatologica”. E alla radice della crisi ci sono anche ragioni che Müller definisce infra-ecclesiali, come “l’apertura da parte di tanti ambienti cattolici all’esegesi protestante in voga negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso”. L’ex vescovo di Ratisbona, con i suoi interventi, contributi e riflessioni, sembra riportare la “Suprema” al suo ruolo originario, di strumento di servizio al Papa per diffondere la dottrina rivelata, custodirla e interpretarla.
Notava amaramente, il cardinale Ottaviani, che con il ridimensionamento del Sant’Uffizio e la sua progressiva trasformazione in congregazione per la Dottrina della fede cambiava il criterio ispiratore per il governo della chiesa: “Non si tratta di forma, di titoli, bensì di sostanza”. Temeva, Ottaviani, che a prevalere sarebbe stata non più la dottrina rivelata, l’ortodossia, bensì il criterio diplomatico e contingente. “Prevedo che la chiesa subirà molti danni, ma poiché è assistita dallo Spirito, prima o poi si riprenderà il criterio di governo che si ispira alla Rivelazione e ai suoi contenuti essenziali”, diceva. Non poteva prevedere che tre anni dopo la sua morte, nelle stanze da lui occupate per tanti decenni, sarebbe arrivato il professor Joseph Ratzinger, àncora fondamentale e imprescindibile per Giovanni Paolo II. Oggi, passato il tempo del Concilio e del post Concilio, Gerhard Ludwig Müller chiarisce la ragion d’essere primaria della congregazione: promuovere e rendere comprensibile la fede. Una fede che, puntualizzava il teologo tedesco, “deve essere difesa contro errori e svilimenti”.
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