NAHUM GOLDMANN
dal processo di Norimberga al Concilio Vaticano II
Goldmann e Norimberga
Molte informazioni sul processo di Norimberga (1945/46) come vendetta ebraica le troviamo nel libro autobiografico del Presidente del “Congresso Ebraico Mondiale” dr. Nahum Goldmann, libro intitolato Staatmann ohne Staat. Autobiographie, (Koln-Berlin, 1970), in cui l’autore si vanta di essere stato il primo ad aver lanciato nel 1942 l’idea di una corte di giudizio destinata a punire i militari tedeschi come criminali, fondandosi sull’idea di responsabilità collettiva di tutti i tedeschi nelle decisioni del loro Führer.
Goldmann e “Nostra aetate”
Si noti che il medesimo Nahum Goldmann, Presidente del “Congresso Mondiale Ebraico”, negli anni Sessanta ha influenzato in senso giudaizzante il Concilio Vaticano II, negando, questa volta, la responsabilità collettiva dell’ebraismo rabbinico nell’uccisione di Gesù decretata dal suo Sommo Sacerdote Caifa e ratificata dalla folla presso il pretorio di Pilato col grido: “che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” (Mt., XXVII, 25).
Infatti – come egli stesso scrive – incontrò a Roma il 26 ottobre 1960 il card. Agostino Bea (Staatmann ohne Staat. Autobiographie, Koln-Berlin, 1970, pagg. 378 ss.), il quale chiese a Goldmann una bozza per il futuro documento del Concilio sui rapporti cogli ebrei (Nostra aetate) e sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae). Il 27 febbraio 1962 il memorandum fu presentato a Bea da Nahum Goldmann a nome della Conferenza Mondiale delle Organizzazioni Ebraiche.
Come si vede i vincitori della seconda guerra mondiale hanno portato la sovversione sin dentro l’ambiente ecclesiale (1962-65) e poi in interiore homine con il 1968, guidati dal giudaismo internazionale e dall’ebraica ‘Scuola di Francoforte’.
Vaticano II alla luce della shoah secondo Ben Horim
Anche secondo l’ex ministro presso l’Ambasciata d’Israele in Italia, incaricato dei rapporti con la S. Sede dal 1980 al 1986, Nathan Ben Horim (Nuovi orizzonti tra ebrei e cristiani, Padova, Messaggero, 2011), il nuovo rapporto tra giudaismo e cristianesimo è dovuto «a tre eventi: la shoah, la nascita dello Stato d’Israele e il concilio Vaticano II» (ibidem, p. 11).
Infatti la shoah imporrebbe riflessioni storiche, politiche e morali di enorme portata, alle quali nessuno – nemmeno la Chiesa – potrebbe sottrarsi. Dalla shoah (1942-45), passando per Norimberga (1946), è nato lo Stato d’Israele (1948), che ha soprattutto un significato etnico ed anche normativo-religioso per l’ebraismo. Da queste riflessioni storiche, morali, politiche, etnico-religiose (dacché il giudaismo è un popolo o stirpe che si riconosce in una certa pratica etica o religiosità) è nato il Concilio Vaticano II (1962-65), che «segna una svolta epocale nella storia della Chiesa cattolica. […] Uno dei mutamenti più significativi del Concilio ha riguardato il rapporto con gli ebrei, […] “che rimangono ancora carissimi a Dio”» (ivi).
Il diplomatico israeliano ammette che «il cambiamento, nella visione cristiana degli ebrei, non sarebbe mai avvenuto se non ci fossero state la shoah, Norimberga e la nascita dello Stato d’Israele» (ibidem, p. 12). Egli definisce il giudaismo col trinomio “Torah, Popolo, Terra” (ib., p. 107). Poi cita il maitre à penser di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Martin Buber: “Terra e Popolo, predestinati l’una all’altro per realizzare assieme il regno del Signore in questo mondo” (ib., p. 108). Il diplomatico israeliano ci spiega che i maestri del Talmud cercarono subito dopo la distruzione del Tempio di salvare Israele affermando che “la residenza in Terra d’Israele equivale all’osservanza di tutti i comandamenti della Torah: chi vi risiede ha parte al mondo futuro [che non è l’aldilà, ma questo mondo nell’avvenire], chi la lascia somiglia a chi non ha Dio” (ib., p. 111).
Il problema del Concilio è sostanzialmente legato alla giudaizzazione del cristianesimo (Nostra aetate, 28 ottobre 1965) ed è indissolubilmente legato a quello della shoah, della vendetta al processo di Norimberga e del sionismo. Chi non vuole ammetterlo o è incapace di vedere la realtà o non vuole ammetterla, poiché non gli fa comodo.
I Documenti postconciliari sul dialogo ebraico/cristiano
Dopo Nostra aetate son venuti altri Documenti post-conciliari sui rapporti ebraismo-cristianesimo. Il primo è Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della Dichiarazione ‘Nostra aetate’ n. 4 (1° dicembre 1974). Esso è assai significativo ed esplicita la Dichiarazione Nostra aetate. Infatti gli Orientamenti esortano a studiare l’ebraismo post-biblico a partire da come gli ebrei odierni si auto-definiscono, ossia secondo la letteratura talmudica e post-biblica (ibid., p. 14).
Inoltre gli Orientamenti esplicitano, dopo circa 8 anni, l’affermazione conciliare – ancora molto sfumata ed imprecisa – secondo cui l’Alleanza tra Dio e popolo ebraico “permane” (ivi) e da essa i Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo (26 giugno 1985), dopo altri 10 anni, esplicitano la portata non solamente spirituale o religiosa dell’ebraismo attuale, ma soprattutto “etnico-religioso-culturale, con una sua storia legata ad una Terra precisa” (ib., p. 15) ossia “la questione della Terra e dello Stato d’Israele” (ib., p. 44), la quale ha portato, 8 anni dopo, al Concordato della S. Sede con Israele (30 dicembre 1993, iniziato formalmente e giuridicamente il 29 luglio 1992), che “era la conclusione logica del cammino cominciato circa trent’anni prima con Nostra aetate, n. 4” (ib., p. 44).
In breve l’ebraismo attuale è l’appartenenza etnica ad un popolo, schiatta o “razza”, che può o comportare una certa religiosità o meglio moralità o pratica spirituale, ma che ha come elemento principale ed essenziale il legame di sangue tra ebrei e storico-geografico con la Terra Santa, poi Palestina ed oggi Stato d’Israele. Questo è l’ebraismo odierno e post-biblico. Per cui non si può parlare di esso riferendosi solo all’aspetto religioso, che è del tutto contingente nel giudaismo (può esservi o no, non modifica essenzialmente, ma solo accidentalmente l’ebraismo), ma bisogna mettere in luce l’unità etnica o razziale e il legame che tale popolo pretende di avere ancora oggi dopo 2000 anni con la Terra dei propri padri, la Terra Santa, la Giudea, poi Syria-Palestina ed oggi Stato d’Israele: «Trattandosi di ebraismo è praticamente impossibile tracciare una separazione netta e assoluta fra il livello interreligioso e quello dei rapporti politici con lo Stato d’Israele» (ib., p. 43).
L’ermeneutica della continuità rispolverata da Francesco I
Accettare il Concilio (alla luce della Tradizione, purché lo si accetti, è in fondo una questione pratico-pratica, ultimamente priva di spessore dottrinale e rilanciata a parole il 26 novembre 2013 da Francesco I, che la contraddice quotidianamente coi fatti) equivale ad accettare l’Alleanza permanente tra Dio e l’ebraismo odierno, l’unicità etnico-razziale del popolo ebraico (per cui si è ebreo solo se si è figli di madre ebrea e nipoti di nonna materna ebrea e non se si pratica la religiosità ebraica), lo Stato d’Israele (che implicitamente vorrebbe smentire la profezia di Cristo sulla distruzione del Regno d’Israele) ed accettare l’evento che ha fatto prendere coscienza di tutto ciò sia agli ebrei, che si stavano assimilando nel XVIII secolo coll’Illuminismo al mondo cristiano o laico europeo, sia ai cristiani che si erano separati dalla “Sinagoga di satana” (Apoc., II, 9) coll’insegnamento del Nuovo Testamento interpretato unanimemente dai Padri ecclesiastici e dal Magistero costante della Chiesa sino a Pio XII.
L’ebraismo, attuale “Padrone di questo mondo”, domanda a tutti di riconoscere la shoah, sotto pena di vendetta (una “Norimberga costante”), la permanenza della sua Alleanza con Dio e il diritto di dominio sulla Terra Santa (1900 a. C. con Abramo sino alla distruzione del Tempio 70 d. C.), poi (dal 70 al 1948) Syria-Palestina, che oggi (dal 15 maggio 1948) viene ingiustamente chiamata Stato d’Israele.
L’ambasciatore Ben Horim racchiude in un sillogismo l’inconciliabilità tra dottrina cattolica tradizionale e quella pastorale del Vaticano II: «L’esilio dopo la distruzione di Gerusalemme era stato interpretato dal cristianesimo come il castigo e la prova del rigetto. Il ritorno a Sion costituiva […] una provocazione per la teologia cristiana […]. Ora, Nostra aetate, cancellando l’accusa di deicidio e affermando la validità perenne delle promesse di Dio [Antica Alleanza] con le sue implicazioni, dovrebbe avere rimosso definitivamente l’ostacolo teologico. Quindi, la promessa della Terra [d’Israele] e il ricongiungimento del popolo [ebraico] con essa non dovrebbero essere escluse» (ib., p. 67).
È per questo che parlando di ebraismo bisogna tenere presente l’elemento etnico, di “sangue e suolo”, di un popolo che possiede in perpetuo una Terra, che è in perpetua Alleanza con “Dio” (anche se non ci crede, infatti il sionismo è un movimento laicista ed agnostico o a-religioso se non addirittura ateo). I cristiani hanno ribaltato la loro visione pre-conciliare dell’ebraismo, che aveva rifiutato Cristo, Messia e Dio, e che era stato abbandonato da Dio, il quale aveva istituito una Nuova ed Eterna Alleanza con tutti (pagani ed ebrei fedeli a Cristo), per cui il giudaismo era stato scacciato dalla sua Patria, distrutta nel 70 e rasa totalmente al suolo nel 135 da Roma.
Questa rivoluzione per diamentrum dei rapporti ebraico-cristiani è stata iniziata da Nahum Goldmann (l’ispiratore nel 1942 della vendetta ebraica di Norimberga del 1946) nel concilio Vaticano II con Nostra aetate (28 ottobre 1965) ed è approdata 28 anni dopo al riconoscimento dello Stato d’Israele da parte di papa Giovanni Paolo II (30 dicembre 1993) alla luce della shoah (1943-45).
Shoah, Alleanza permanente di Dio col popolo d’Israele e Stato ebraico formano un tutt’uno. Se si toglie uno solo di questi tre tasselli, si nega tutto l’ebraismo attuale, nel suo desiderio di dominio del mondo, quale popolo eletto, “regale e sacerdotale”, “olocaustizzato”, ma vendicato a Norimberga e “risorto” come “padrone di questo mondo” assieme alla sua creatura: l’americanismo, che gli ha dato la potenza bellica per impiccare e terrorizzare chiunque osi “dubitare”.
L’ebraismo si auto-presenta in primo luogo come popolo, poi come Stato e tutto ciò alla luce della shoah, che gli ha fatto ritrovare la sua identità, la quale stava per essere smarrita con l’assimilazione durante l’Illuminismo. Il Vaticano II e il post-concilio (Orientamenti, 1° dicembre 1974; Sussidi, 26 giugno 1985; Concordato tra S. Sede e Israele, 30 dicembre 1993) hanno recepito la lezione del rabbinismo farisaico e scomunicano chiunque metta in forse anche uno solo di questi tre “dogmi laici”.
Lo spirito del Vaticano II è lo stesso del Talmud
Quindi accettare il concilio Vaticano II significa accettare il giudaismo talmudico, che è la contraddizione del cristianesimo fondato da Gesù su Pietro (unità e Trinità di Dio, divinità di Cristo, Nuova ed eterna Alleanza con tutti i popoli che credono in Gesù, vero Dio e vero uomo, e nella SS. Trinità, Alleanza che ha rimpiazzato la Vecchia perfezionandola nel Sangue di Cristo).
Ben Horim stesso riporta la convinzione che quasi tutti i cristiani hanno, ma che nessuno osa dire, mentre è espressa esplicitamente dai “Fratelli maggiori”: «La dottrina tradizionale [è un dogma di Fede] extra Ecclesiam nulla salus è in contrasto con il discorso del papa [Giovanni Paolo II] agli ‘esperti cattolici per l’ebraismo’, nel quale parlava della possibilità per ebrei e cristiani di raggiungere per vie diverse, ma finalmente convergenti, una vera fraternità della riconciliazione» (ib., p. 59). Ecco qui smentita autorevolmente l’ermeneutica della continuità dai nostri “Fratelli maggiori nella Fede” (Giovanni Paolo II, 1986) o “Padri nella Fede” (Benedetto XVI, 2011). Ben Horim poi cita la frase di Giovanni Paolo II a Magonza nel 1980 sull’«Antica Alleanza mai revocata» e conclude che “tali parole implicherebbero la coesistenza di due Alleanze valide” (ib., p. 60). Ma allora il Figlio a che pro si è Incarnato ed è morto in Croce per la salvezza di tutti gli uomini e non di una sola razza, se vi è un’Alleanza Antica ancora in piedi che garantisce la salvezza di chi ne fa parte?
Dialogo a senso unico
È interessante quanto dice l’Autore sulla reciprocità dei rapporti ecumenici ebraico/cristiani. Vale a dire: se il cristianesimo si è giudaizzato col Vaticano II, anche l’ebraismo dovrebbe cristianizzarsi (p. 76). Egli risponde nettamente che l’argomento vale solo a senso unico, ossia per i cristiani verso l’ebraismo, mentre non è assolutamente applicabile per gli ebrei verso il cristianesimo.
Infatti 1°) il cristianesimo ha fatto soffrire il giudaismo sino alla shoah, mentre mai il giudaismo ha perseguitato il cristianesimo. Al che si risponde facilmente citando i Vangeli e gli Atti degli Apostoli, i quali rivelano divinamente la persecuzione continua del giudaismo contro Gesù, gli Apostoli e i primi Discepoli cristiani. Inoltre la storia ha dimostrato ampiamente che le persecuzioni attuate dalla Roma pagana contro i cristiani vennero aizzate dal giudaismo (v. Umberto Benigni, Marta Sordi ed Ilaria Ramelli, autori citati in articoli comparsi su questo sito). 2°) Il cristianesimo è nato dal giudaismo, mentre il giudaismo non deve nulla al cristianesimo. Anche qui la risposta è sin troppo semplice. Il cristianesimo è nato da Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, che hanno decretato ab aeterno l’Incarnazione del Verbo nel seno della Vergine Maria. Ciò è rivelato nell’Antico Testamento (dalla Genesi sino ai Maccabei). Per cui l’Antico Testamento era tutto relativo al Nuovo Testamento e a Gesù Cristo. Onde Mosè e i Profeti annunziarono Cristo venturo, che fu rigettato dal ‘falso Israele’ ed accolto dal ‘vero Israele’, ossia da coloro che, fedeli allo spirito dell’Antico Testamento, hanno accolto il Messia Gesù Cristo venuto, una “piccola reliquia d’Israele” (San Paolo) alla quale si è unito il resto del genere umano (i Pagani). Il giudaismo attuale è il ‘falso Israele’ fedele alla lettera della Torah, anche se la “lettera uccide mentre è lo spirito che vivifica” (San Paolo). Quindi il cristianesimo non ha ricevuto nulla di positivo dal giudaismo post-biblico o attuale, mentre il giudaismo mosaico o vetero-testamentario è relativo ed ordinato totalmente al cristianesimo senza il quale non avrebbe avuto ragion d’essere. Per cui il giudaismo odierno si trova oggettivamente in uno stato di errore e di accecamento, avendo rifiutato il Messia e l’Unico Salvatore del mondo e deve convertirsi a Cristo.
La posizione giudaico-cristiana (sia da parte del Vaticano II, sia da parte ebraico-talmudica) è completamente capovolta e distorta, in rottura per diametrum e non in continuità con le ‘Fonti della Rivelazione’. Ma l’Autore persevera nell’indurimento di cuore e nell’accecamento della mente dei suoi antenati, asserendo: «Non c’è nell’ebraismo alcun elemento costitutivo della sua natura, che esiga un confronto col cristianesimo. […]. Pertanto attese cristiane riguardo la possibilità di cambiamenti teologici significativi nell’ebraismo saranno inevitabilmente deluse» (ib., p. 77). L’invocazione “Il suo Sangue ricada su di noi e sui nostri figli” continua a riecheggiare sulla bocca degli ebrei talmudisti.
Il caso Koch/Di Segni
Recentemente un caso pratico di ‘monologo’ analogo è scoppiato il 7 luglio del 2011 tra il card. Kurt Koch e il rabbino Riccardo Di Segni. Infatti il cardinale aveva scritto su L’Osservatore Romano (7 luglio 2011) che «La Croce di Gesù è il permanente ed universale Yom Kippur […] per ebrei e cristiani». Ma siccome già l’8 ottobre 2008 il rabbino Di Segni su L’Osservatore Romano aveva spiegato che la festa dello Yom Kippur [perdono] ebraico esprime le “differenze inconciliabili tra i due mondi” ebraico e cristiano e che l’ebraismo avendo il Kippur “non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla Fede cristiana”, ha risposto di nuovo sempre su L’Osservatore Romano al cardinal Koch il 29 luglio 2011: “Se i termini del discorso sono quelli di indicare agli ebrei il cammino della croce, non si capisce il perché di un dialogo e il perché di Assisi”. Il cardinale allora ha rispolverato la neo-dottrina conciliare scrivendo che per il cristianesimo «L’Alleanza di Dio con il popolo d’Israele ha una validità permanente e [anche] la fede nella redenzione universale in Gesù Cristo». Quel che non si riesce a capire è come Gesù possa essere Salvatore universale se l’ebraismo permane in Alleanza con Dio. Clericalmente e rabbinicamente si dovrebbe dire che Gesù è Salvatore di tutti… i non-ebrei.
Il problema di Cristo e del cristianesimo per l’ebraismo non esiste. Non è un ‘dialogo’ (discorso tra due parti), ma un ‘monologo’ del solo Israele, che vorrebbe indottrinare sub specie boni il cristianesimo e vi riesce con gli attuali prelati postconciliari, accecati ed induriti di cuore come i Sommi Sacerdoti ai tempi di Gesù. Questo è un “mistero d’iniquità”.
Pericoli per l’antimodernismo
È l’analogo rischio che corre attualmente il mondo legato alla Tradizione postolica nel “dialogo” col neo-modernismo, il quale si risolve in un ‘monologo’ sotto apparenza di bontà e dolcezza facendolo passare abilmente per ‘dialogo’, ma col fine di assorbimento e di cedimento dell’antimodernismo alle novità conciliari e post-conciliari. È rivelatrice la frase di Ben Horim quando scrive: «Non è la questione della verità [che conta], ma se c’è un pathos comune [un sentimento, una passione]. La questione suprema è se siamo vivi o morti alle aspettative del ‘Dio vivente’. […]. Spetta a noi, ebrei e cristiani, lasciando alle spalle conflitti e rivalità, affrontare assieme le sfide del nostro tempo» (ib., p. 78).
Il 16 settembre 2011 – secondo il rabbino Levi Brackman – alcuni gruppi ebraici specialmente statunitensi (Abraham Foxman Direttore dell’ADL del B’nai B’rith e il rabbino David Rosen dell’American Jewish Committee) “hanno espresso la loro preoccupazione che il Vaticano potrebbe rimettere in discussione 40 anni di progressi nelle relazioni ebraico-cattoliche”. Essi quindi avvertono che Nostra aetate, 4 e Lumen gentium, 16 (“i doni di Dio [Antica Alleanza] sono irrevocabili”) “non possono essere messi in discussione e lasciati al libero dibattito”. Se così non fosse il dialogo ebraico-cristiano cesserebbe. Dubito seriamente che Benedetto XVI sia tentato di rivedere 40 anni di teologia giudaizzante, della quale è stato un pioniere sin da giovane studente tedesco toccato dalla “tragedia abissale” della shoah. Questo lo ha sempre chiaramente detto, scritto ed anche fatto (nei vari incontri ecumenici nella sinagoghe del mondo).
Spero che da parte del mondo legato alla Tradizione non si voglia capitolare su tutto basandosi sull’illusione che il liberalismo di Francesco I conceda loro tutto senza chieder nulla. Tuttavia la premessa pro-shoah del 2009 ed anti-revisionista lascia qualche perplessità, poiché shoah, sionismo e Nostra aetate fanno un tutt’uno. Parvus error in principio magnus est in fine? Speriamo di no, almeno in questo caso. Sarebbe veramente una “catastrofe” (in ebraico “shoah”).
Agire assieme, conoscersi da vicino, interloquire è la stessa vecchia tattica del neo-comunismo verso i ‘cristiani adulti’, che li faceva agire assieme ad esso, per renderli simili a sé. Agere seguitur esse, si agisce come si è. Ora se agisco assieme al comunismo, parto da una posizione tendenzialmente simile ad esso e pian piano divengo inevitabilmente eguale ad esso; se agisco assieme al giudaismo odierno, poco alla volta giudaizzo e – Dio non voglia – se agisco assieme al neo-modernismo, immancabilmente divengo neo-modernista, prima almeno praticamente (i ‘neo-modernisti anonimi’) e poi anche speculativamente. Il primato della prassi sulla teoresi è un caposaldo del talmudismo, del comunismo e del modernismo. Caveamus! Latet in erba anguis. “Bisogna agire come si pensa, altrimenti si giunge a pensare come si vive”.
Conclusione
Perciò non è esagerato affermare che il giudaismo mondiale nel secondo dopoguerra ha contribuito in massima parte a distruggere materialmente e intellettualmente la civiltà greco/romana classica e cristiana nell’Europa occidentale ed ha bolscevizzato l’Europa orientale. L’americanismo giudaizzante ha trionfato sulla vecchia Europa e si appresta oggi a sovvertire i governi forti (come aveva fatto nel 1914 e 1939 con quelli europei) del mondo arabo mediterraneo: Egitto, Libia, Tunisia, Libano e Siria per regnare sul mondo intero, dopo aver riversato il veleno talmudico sin nell’ambiente ecclesiale col Vaticano II.
d. Curzio Nitoglia
2/12/2013
http://doncurzionitoglia.net/2013/12/06/nahum-goldmann-dal-processo-di-norimberga-al-concilio-vaticano-ii/
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