Proclamazione della Verità e condanna degli errori
La brava maestra della scuola elementare spiega, ai suoi piccoli allievi, la grammatica e l'aritmetica. Il giorno dopo assegna però a loro un compito e poi lo corregge, con la penna rossa e, se gli errori si ripetono per alcune volte, dovrà necessariamente sanzionarli con un brutto voto.
L'allenatore di calcio illustra ai suoi atleti i ruoli e gli schemi di gioco. Se la partita si concluderà tuttavia con una sconfitta egli sarà costretto a riprendere i giocatori e, magari, ne dovrà costringere qualcuno a restare in panchina nell'incontro successivo.
Il medico espone al suo paziente le cause della sua malattia e prescrive la conseguente terapia. Egli dovrà inoltre avvertirlo che, se non dovesse essere scrupoloso nella cura, rischierà di esporsi ad un peggioramento delle condizioni di salute e potrebbe rischiare addirittura la morte.
Tutte queste situazioni appaiono assolutamente logiche e normali. Nessuno stimerebbe una maestra che si rifiutasse di correggere i compiti, un allenatore che non sostituisca gli atleti poco efficienti o un medico che non avverta il paziente dei rischi connessi ad una sospensione delle cure.
In ognuna di tali circostanze l'autorità si esercita naturalmente in due momenti distinti ma strettamente connessi fra di loro: l'insegnamento positivo e la necessaria confutazione degli errori.
Eppure oggi, la "Mater et Magistra" per eccellenza sembra aver dimenticato queste autentiche ovvietà.
Dal famoso discorso, pronunciato da Giovanni XXIII, in occasione dell'apertura del Concilio Vaticano II sono sempre di più i pastori che si affannano a predicare, in nome di una supposta Misericordia, l'inutilità dei giudizi, delle condanne, delle pene canoniche. Al massimo si concede, bontà loro, l'invito a mostrare la bellezza della Verità o a predicare l'infinito amore dell'Onnipotente.
Questa impostazione catechetica è tuttavia, a mio parere, oltre che sbagliata sul piano dottrinale, anche assolutamente controproducente a livello pratico e pastorale.
Abbiamo infatti mostrato, con gli esempi sopra portati, come l'insegnamento si componga necessariamente di entrambi i momenti positivo e negativo.
Rinunciare dunque per principio ad una delle due dimensioni significa, per continuare con le similitudini, quasi sostenere che si corra più veloci con una gamba sola anzichè utilizzandole entrambe, o che si nuoti meglio facendo leva su un solo braccio invece che su due.
Si tratta di autentiche sciocchezze, di un vero non senso.
Ma le assurdità di questo atteggiamento "pastorale" non si fermano quì. Spesso è infatti assolutamente impossibile esprimere la bellezza della Verità prescindendo dall'esposizione delle conseguenze negative per chi non vi si conforma.
Facciamo qualche ulteriore esempio:
Come si può proporre la bellezza del digiuno o della penitenza se si dimentica di parlare del peccato e del rischio di finire all'inferno?
Come si può osannare la bellezza del matrimonio indissolubile se si evita di parlare del diritto naturale che vincola tutti gli uomini?
Come si può proclamare la bellezza della procreazione senza condannare il crimine dell'aborto procurato?
Appare dunque evidente che, in una prospettiva meramente umana, senza la dimensione trascendente e senza la confutazione degli errori, il digiuno non ha alcun senso, il matrimonio indissolubile appare un peso ed ancor di più, specialmente al giorno d'oggi, la famiglia numerosa.
L'agnostico e il laicista spesso quindi sorridono o deridono certe enunciazioni enfatiche di valori, espresse però in modo esclusivamente generico e sentimentale. Non si sentono coinvolti e, in un certo senso, hanno anche ragione. Se la Fede è infatti essenzialmente soltanto un sentimento, loro quel sentimento non lo provano, e quindi... va tutto sommato bene così.
Mi permetto infine un' ultima notazione, sempre incentrata sul senso pratico. Spesso i nostri pastori si giustificano, di fronte a questo autentico scempio comunicativo, con la seguente scusa:
"Gli uomini del nostro tempo non capirebbero il linguaggio e le argomentazioni classiche sulle quali la Chiesa ha sempre impostato sia la catechesi, che l'apologetica e l'impegno missionario. Occorre un linguaggio 'moderno' ed accessibile ai contemporanei".
Mi permetto di affermare che questa è un'autentica sciocchezza nella misura in cui, come sempre accade, si intende la comunicazione moderna come sinonimo di linguaggio sfumato, allusivo, emotivo, sentimentale.
Al contrario: la comunicazione è tanto più efficace quanto essa risulta breve, precisa, inequivocabile, definita. I documenti ecclesiali contemporanei non possiedono alcuna di queste fondamentali caratteristiche. Sembrano fatti apposta per non essere compresi o per essere, quanto meno, fraintesi.
Il problema è dunque probabilmente un altro e mi scuso se sarò, come al solito, brutale nella sua enunciazione: per convincere bisogna innanzitutto credere a ciò che si dice, bisogna crederci e dimostrare di crederci. Non si può pretendere di convincere di cose di cui non si è convinti.
Bisogna, in altre parole, avere il coraggio di dire la Verità, tutta la Verità e nient'altro che la Verità.
Ciò premesso passa davvero in secondo piano la distinzione sulla metodologia comunicativa più efficace.
Marco Bongi
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