Germania Argentina finale mondiali 2014. Muller Ratzinger e Messi Bergoglio: un'attesa che va oltre la finale (FOTO)
Alla vigilia del mondiale di Argentina del 1978, un futuro Papa tenne un discorso radiofonico che, a 36 anni di distanza, costituisce un riconoscimento tuttora insuperato della Chiesa Cattolica nei confronti del football. Un piccolo manuale di fenomenologia e teologia del tifo.
“In questi giorni”, disse, “ci accorgiamo che il calcio è un evento globale, che collega gli uomini in un solo e comune stato d’animo… una specie di ritorno a casa in paradiso”. Parole che d’istinto attribuiremmo a Jorge Bergoglio, sbagliando però porta e parte del campo, poiché invece a pronunciarle fu Joseph Ratzinger, che oggi abita duecento passi più in là, dall’altro lato della cupola.
“Se ci riflettessimo, il fenomeno di un mondo che impazzisce per il calcio potrebbe offrirci assai più di un semplice intrattenimento”: così concludeva l’allora cinquantenne arcivescovo di Monaco, mentre la sua nazionale s’involava verso Buenos Aires per difendere il titolo conquistato quattro anni prima in Baviera.
Una specie di “ritorno in paradiso”, dunque: dove il pallone diventa una capsula spaziale che ci proietta oltre, anzi “ultra”. Un assist invitante, che come tale va colto in elevazione, saltando a piè pari l’approccio umoristico dei vignettisti e disegnando un paragone alto, tecnico-tattico tra i due pontificati. Che non rappresentano solo due modi di essere Chiesa, bensì due visioni del mondo. Nonostante il solco anagrafico che li divide dai giocatori, tra i due papi e le rispettive squadre sussiste infatti un’affinità cromosomica. Genetica e generazionale.
Ci sarà pure una ragione se Francesco, battistrada di una Chiesa che esce da se stessa e si butta in avanti, proviene da una terra dove i delanteros, ossia gli attaccanti di ruolo, fioriscono rigogliosi come l’Erba delle Pampas, bella e ribelle nel suo spumeggiante pennacchio. E nella perfezione del proprio disordine armonico. Mentre la Germania, in difetto di punte, ha prodotto in compenso una nidiata di giovani Beckenbauer. Kantiani dal sangue misto, come Khedira e Özil, ma dalle geometrie purissime. Lineari e prussiane. Bipedi applicazioni del “logos”, lo spirito regolatore del mondo caro a Ratzinger, nascosto nelle pieghe della storia e pronto a materializzarsi nel mezzo del Maracanà, per trovarvi la sua consacrazione.
Visto dalla tribuna di un vaticanista, il derby della mente e del cuore tra Benedetto e Francesco, che torna alla ribalta con i mondiali e si esalta nella metafora sportiva, non termina con il fischio finale dell’arbitro ma descrive aspettative più vaste. Del resto l’avvento di Bergoglio, che ha insediato al potere la fantasia sulla cattedra di Pietro, è stato propiziato dal coraggio e passaggio in profondità di un Papa conservatore, da vero Beckenbauer della Chiesa. Dopo una vita da centromediano metodista, passata a presidiare la propria metà campo, Joseph Ratzinger ha scavalcato tutti con il lancio lungo delle dimissioni, scodellando nell’area del conclave un goal già fatto, sui piedi della minoranza progressista, incapace da sola di andare a rete.
Nasce da qui la deferenza, e riconoscenza, di Francesco nei confronti del predecessore, unitamente all’influenza moderatrice di un ascendente germanico di vecchia data, che il Pontefice argentino si porta dentro. Nel suo background di “allenatore”, all’indomani dell’esordio in panchina come provinciale dei gesuiti e prima di essere nominato vescovo da Wojytla, c’è infatti un breve ma istruttivo “stage” a Francoforte: nel fatidico 1986, in cui la nazionale albiceleste del difensivista Bilardo e del divino Maradona si affermava sui tedeschi a Città del Messico.
Come Sabella e a differenza di Scolari, Francesco ha pertanto schierato sin dall’inizio una formazione promiscua e prudente, confermando al centro della difesa e a guardia della dottrina, quale prefetto dell’ex Sant’Uffizio, il delfino e mastino di Ratzinger, Gerhardt Ludwig Müller. A centrocampo invece, per conferire al sinodo sulla famiglia una impostazione aperta e avvolgente, si è affidato a un “brasiliano” di scuola europea, il segretario generale Lorenzo Baldisseri, con ampi trascorsi sudamericani. Regista avanzato, d’indole e di idee, ma pronto a ripiegare in copertura quando necessario. Alla Paulo Roberto Falcao per intenderci.
Nonostante l’esortazione apostolica e gli appelli “zemaniani” a verticalizzare il gioco, dove notoriamente dichiara di preferire una Chiesa incidentata piuttosto che attendista, il Papa si mostra nei fatti attentissimo agli equilibri tattici. Bergoglio finora nelle sue fughe in avanti non è mai finito in fuori gioco, restando sempre al limite della linea dei difensori. Con il tempismo, la rapidità, la precisione millimetrica di Leo Messi.
Francesco ama impostare, non accentrare. Ma in caso di stallo interviene personalmente, determinista e determinato. Allo scadere dei tempi regolamentari come Messi con l’Iran. O addirittura dei supplementari, come con la Svizzera. Una eventualità che il Pontefice deve avere messo in conto e tiene in serbo per sbloccare il risultato del sinodo. Lo stesso conclave che lo ha eletto, in fondo, può considerarsi un “supplementare” rispetto a quello del 2005, per sottrarre la Chiesa in extremis ai “rigori” di una opinione pubblica ostile.
Analogamente, nel processo di riforma Bergoglio non mostra fretta, ma si dimostra in grado di imprimere improvvise accelerazioni, come il fuoriclasse suo connazionale con la Bosnia. “Motu Proprio”, dove il lessico canonico trasmette la percezione dello scatto, come la scorsa estate a seguito dell’arresto di Scarano, commentato con metafora in tema: “Quando nell’ufficio di governo uno va da una parte, ma gli tirano una pallonata dall’altra parte, la devi parare…”
L’approccio prediletto comunque, anche sul campo, rimane quello della tenerezza, che trova un’applicazione nel tiro da fermo, calibrato delicatamente all’incrocio o a filo palo, di cui abbiamo avuto uno splendido saggio nel secondo goal di Lionel Messi alla Nigeria. Da trenta metri. Immagine di un Papa che da lontano vede e trova lo spiraglio per raggiungere il cuore della gente. “Quel che rende questo Papa così importante è la velocità con cui ha catturato l’immaginazione di milioni di persone che avevano perso la speranza nella Chiesa”, ha scritto Time motivando il “pallone d’oro” di uomo dell’anno.
Velocità, potenza, speranza. Di più, potenza della speranza. L’esatto contrario dei tre aggettivi che, in uno studio comparato dell’università di Cambridge, ricorrono nei media per descrivere la débacle dell’Italia in Brasile: lenta, vulnerabile, pessimista. Chissà che alla fine la diagnosi non coincida, per curare contestualmente i mali della chiesa e del calcio italiani, ossia della CEI e della FIGC, che si accingono entrambe a eleggere un nuovo presidente. In una partita dall’esito aperto, dove la metafora insegna e fa prevedere che, insieme ai dirigenti, si cambieranno anche gioco e giocatori.
Alla vigilia del mondiale di Argentina del 1978, un futuro Papa tenne un discorso radiofonico che, a 36 anni di distanza, costituisce un riconoscimento tuttora insuperato della Chiesa Cattolica nei confronti del football. Un piccolo manuale di fenomenologia e teologia del tifo.
“In questi giorni”, disse, “ci accorgiamo che il calcio è un evento globale, che collega gli uomini in un solo e comune stato d’animo… una specie di ritorno a casa in paradiso”. Parole che d’istinto attribuiremmo a Jorge Bergoglio, sbagliando però porta e parte del campo, poiché invece a pronunciarle fu Joseph Ratzinger, che oggi abita duecento passi più in là, dall’altro lato della cupola.
“Se ci riflettessimo, il fenomeno di un mondo che impazzisce per il calcio potrebbe offrirci assai più di un semplice intrattenimento”: così concludeva l’allora cinquantenne arcivescovo di Monaco, mentre la sua nazionale s’involava verso Buenos Aires per difendere il titolo conquistato quattro anni prima in Baviera.
Una specie di “ritorno in paradiso”, dunque: dove il pallone diventa una capsula spaziale che ci proietta oltre, anzi “ultra”. Un assist invitante, che come tale va colto in elevazione, saltando a piè pari l’approccio umoristico dei vignettisti e disegnando un paragone alto, tecnico-tattico tra i due pontificati. Che non rappresentano solo due modi di essere Chiesa, bensì due visioni del mondo. Nonostante il solco anagrafico che li divide dai giocatori, tra i due papi e le rispettive squadre sussiste infatti un’affinità cromosomica. Genetica e generazionale.
Ci sarà pure una ragione se Francesco, battistrada di una Chiesa che esce da se stessa e si butta in avanti, proviene da una terra dove i delanteros, ossia gli attaccanti di ruolo, fioriscono rigogliosi come l’Erba delle Pampas, bella e ribelle nel suo spumeggiante pennacchio. E nella perfezione del proprio disordine armonico. Mentre la Germania, in difetto di punte, ha prodotto in compenso una nidiata di giovani Beckenbauer. Kantiani dal sangue misto, come Khedira e Özil, ma dalle geometrie purissime. Lineari e prussiane. Bipedi applicazioni del “logos”, lo spirito regolatore del mondo caro a Ratzinger, nascosto nelle pieghe della storia e pronto a materializzarsi nel mezzo del Maracanà, per trovarvi la sua consacrazione.
Visto dalla tribuna di un vaticanista, il derby della mente e del cuore tra Benedetto e Francesco, che torna alla ribalta con i mondiali e si esalta nella metafora sportiva, non termina con il fischio finale dell’arbitro ma descrive aspettative più vaste. Del resto l’avvento di Bergoglio, che ha insediato al potere la fantasia sulla cattedra di Pietro, è stato propiziato dal coraggio e passaggio in profondità di un Papa conservatore, da vero Beckenbauer della Chiesa. Dopo una vita da centromediano metodista, passata a presidiare la propria metà campo, Joseph Ratzinger ha scavalcato tutti con il lancio lungo delle dimissioni, scodellando nell’area del conclave un goal già fatto, sui piedi della minoranza progressista, incapace da sola di andare a rete.
Nasce da qui la deferenza, e riconoscenza, di Francesco nei confronti del predecessore, unitamente all’influenza moderatrice di un ascendente germanico di vecchia data, che il Pontefice argentino si porta dentro. Nel suo background di “allenatore”, all’indomani dell’esordio in panchina come provinciale dei gesuiti e prima di essere nominato vescovo da Wojytla, c’è infatti un breve ma istruttivo “stage” a Francoforte: nel fatidico 1986, in cui la nazionale albiceleste del difensivista Bilardo e del divino Maradona si affermava sui tedeschi a Città del Messico.
Come Sabella e a differenza di Scolari, Francesco ha pertanto schierato sin dall’inizio una formazione promiscua e prudente, confermando al centro della difesa e a guardia della dottrina, quale prefetto dell’ex Sant’Uffizio, il delfino e mastino di Ratzinger, Gerhardt Ludwig Müller. A centrocampo invece, per conferire al sinodo sulla famiglia una impostazione aperta e avvolgente, si è affidato a un “brasiliano” di scuola europea, il segretario generale Lorenzo Baldisseri, con ampi trascorsi sudamericani. Regista avanzato, d’indole e di idee, ma pronto a ripiegare in copertura quando necessario. Alla Paulo Roberto Falcao per intenderci.
Nonostante l’esortazione apostolica e gli appelli “zemaniani” a verticalizzare il gioco, dove notoriamente dichiara di preferire una Chiesa incidentata piuttosto che attendista, il Papa si mostra nei fatti attentissimo agli equilibri tattici. Bergoglio finora nelle sue fughe in avanti non è mai finito in fuori gioco, restando sempre al limite della linea dei difensori. Con il tempismo, la rapidità, la precisione millimetrica di Leo Messi.
Francesco ama impostare, non accentrare. Ma in caso di stallo interviene personalmente, determinista e determinato. Allo scadere dei tempi regolamentari come Messi con l’Iran. O addirittura dei supplementari, come con la Svizzera. Una eventualità che il Pontefice deve avere messo in conto e tiene in serbo per sbloccare il risultato del sinodo. Lo stesso conclave che lo ha eletto, in fondo, può considerarsi un “supplementare” rispetto a quello del 2005, per sottrarre la Chiesa in extremis ai “rigori” di una opinione pubblica ostile.
Analogamente, nel processo di riforma Bergoglio non mostra fretta, ma si dimostra in grado di imprimere improvvise accelerazioni, come il fuoriclasse suo connazionale con la Bosnia. “Motu Proprio”, dove il lessico canonico trasmette la percezione dello scatto, come la scorsa estate a seguito dell’arresto di Scarano, commentato con metafora in tema: “Quando nell’ufficio di governo uno va da una parte, ma gli tirano una pallonata dall’altra parte, la devi parare…”
L’approccio prediletto comunque, anche sul campo, rimane quello della tenerezza, che trova un’applicazione nel tiro da fermo, calibrato delicatamente all’incrocio o a filo palo, di cui abbiamo avuto uno splendido saggio nel secondo goal di Lionel Messi alla Nigeria. Da trenta metri. Immagine di un Papa che da lontano vede e trova lo spiraglio per raggiungere il cuore della gente. “Quel che rende questo Papa così importante è la velocità con cui ha catturato l’immaginazione di milioni di persone che avevano perso la speranza nella Chiesa”, ha scritto Time motivando il “pallone d’oro” di uomo dell’anno.
Velocità, potenza, speranza. Di più, potenza della speranza. L’esatto contrario dei tre aggettivi che, in uno studio comparato dell’università di Cambridge, ricorrono nei media per descrivere la débacle dell’Italia in Brasile: lenta, vulnerabile, pessimista. Chissà che alla fine la diagnosi non coincida, per curare contestualmente i mali della chiesa e del calcio italiani, ossia della CEI e della FIGC, che si accingono entrambe a eleggere un nuovo presidente. In una partita dall’esito aperto, dove la metafora insegna e fa prevedere che, insieme ai dirigenti, si cambieranno anche gioco e giocatori.
http://www.huffingtonpost.it/2014/07/13/muller-ratzinger-messi-bergoglio-attesa-oltre-finale_n_5581916.html?utm_hp_ref=italy
Argentina-Germania, di Papa ne resterà soltanto uno
E poi dicono che la Chiesa ormai non conta più nulla. Il potere temporale sarà anche tramontato, ma quello calcistico è più vivo che mai. Tra Eupalla - divinità di breriana memoria - e il Vaticano il feeling esiste, eccome; i santi dall’alto dei cieli non solo guardano con occhio particolare i rimbalzi della sfera più terrestre che ci sia, ma, a quanto pare, li indirizzano pure.
La finale mondiale sarà infatti una sfida Argentina-Germania. Che è come dire Francesco contro Benedetto XVI; il papa titolare, che ha acceso nuovi entusiasmi specie in partibus infidelium, contro quello che ha chiesto a sorpresa la sostituzione e si è messo in panchina a guardare come va a finire il match; il pontefice tifosissimo del San Lorenzo di Almagro (vincitore, guarda un po' il caso, a dicembre 2013 del Torneo Inicial) - che a scuola palleggiava con l’appena scomparso Alfredo Di Stefano - contro quel cardinale Ratzinger (nulla a che vedere con Reiziger, il bidone olandese del Milan) che nel 1985 interpretava il calcio come «un tentato ritorno al Paradiso»; il gesuita bonaccione che sembra avulso dal gioco («Chi sono io per giudicare?»), epperò ti frega con un’invenzione al primo contropiede non appena hai allentato il ritmo, contro il teologo dogmatico che avanza a pieno organico, tomi di San Tommaso alla mano, a tavoletta anche sul 7-0; il Santo Padre venuto in Europa dalla fine del mondo a miracol mostrare come Lionel Messi contro Seine Heiligkeit venuta a lavorare nella vigna del Signore con teutonica precisione come Thomas Müller. Insomma, domenica prossima al Maracanà di Rio de Janeiro andrà in scena una «partita divina» e sarà «guerra santa»…
Del resto, già nel cammino verso la finale le due nazionali hanno dimostrato di avere dalla loro aiutini in alto loco. Romero, paperone malsopportato alla Sampdoria, ha parato due rigori all’Olanda, e il palo colpito dallo svizzero Dzemaili all’ultimo minuto degli ottavi ancora trema; il vecchietto Klose ha superato Ronaldo nella classifica dei marcatori mondiali (e ditemi voi se non è un miracolo questo...), il grande Brasile pentacampeão massacrato quasi fosse un qualsiasi Südtirol, mentre anche Maometto, già bistrattato a Ratisbona, ha dovuto cedere il passo al fianco degli algerini. Ora ci mancherebbe giusto la Seleccion campione del mondo con una rete dell’interista Ricky Álvarez subentrato a uno stanco Messi; oppure il trionfo della Mannschaft grazie a una magia in acrobazia del difensore Mustafi (un altro sampdoriano).
Di sicuro, comunque, c’è solo una cosa: come degli immortali del film Highlander, il 13 luglio di papi ne resterà soltanto uno, braccia sollevate a esultare. Alla faccia dei dibattiti teologici su chi sia tra i due il vero pontefice, lo deciderà la dea Eupalla di cui sopra. Molto più affascinante, nel suo imperscrutabile dimenarsi, dei sottili esperti di diritto canonico.
di Miska Ruggeri
http://www.liberoquotidiano.it/news/11653007/Argentina-Germania--di-Papa-ne.html
Gelato al gusto “papa Francesco” a Santa Margherita Ligure
di Redazione Blitz
SANTA MARGHERITA LIGURE – Le bandiere dell’Italia e dell’Argentina raccontano le origini di Franco Lococo, italo argentino 46 anni, che a Santa Margherita Ligure ha creato un gelato ispirato al papa argentino. Il gusto si chiama papa Francesco.
“Ho voluto creare un gelato che ricordasse i gusti del Sud America: banana, cioccolato e dulce de leche, una specie di mou che in Argentina è molto consumato”.
E i clienti sembrano apprezzare: “Non faccio in tempo a riempire la vaschetta che subito finisce”.
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