UNA TEOLOGIA ALLO SPECCHIO
Son le leggi d’abisso così rotte? o è mutato in ciel novo consiglio? i teologi progressisti e modernisti non hanno capito nulla stanno lì a cavillare a fare le pulci ai grandi teologi di ieri dall’alto della loro piccolezza presuntuosa di F.Lamendola
Sono tre grossi volumi un po’ ingialliti, fitti di pagine, di concetti, di anima: qualche cosa di molto simile a un prontuario per le svariate evenienze della vita interiore, ma senza la puerile petulanza di certe opere che promettono di chiarire ogni dubbio spirituale con una risposta bella e pronta, stile “fate così e sarete felici”.
È un trattato di teologia “classico”, scritto da un professore dell’Accademia pontificia di Paderborn, Bernhard Bartmann, nato a Madfeld, oggi Brilon (Renania Settentrionale-Westfalia) il 26 maggio 1860 e morto a Paderborn, dopo una breve malattia, il 1° agosto 1938: «Manuale di Teologia Dogmatica» («Lehrbuch der Dogmatik», Herder, Freiburg im Breisgau, 1905), che ha avuto ben otto edizioni, l’ultima pubblicata nel 1932, ed è stata tradotta anche in francese e in italiano. La traduzione italiana, a cura di Natale Bussi, è apparsa per le Edizioni Paoline;nel 1949 era già alla terza edizione, e una nuova edizione, in volume unico, usciva nel 1952. Non ci sembra sia più stata ristampata; a partire dalla seconda metà degli anni Settanta del Novecento, le Edizioni Paoline hanno incominciato a cambiare, nel giro di un decennio non erano più la stessa casa editrice, se non esteriormente; del resto, buona parte del mondo cattolico, e la Chiesa stessa, stavano cambiando a loro volta.
Abbiamo citato il manuale del Bartmann come esempio di un’opera di teologica cattolica chiara, accurata, lineare, scrupolosa, estremamente documentata. Ogni argomento è vagliato per dritto e per traverso; si citano le possibili obiezioni, si espongono le dottrine divergenti dei protestanti o degli ortodossi; si segue sempre una linea di ragionamento rigorosa, di una trasparenza che fa bene al cuore e alla mente del lettore. Bartmann, del resto, non era uno qualunque; nel 1924 ebbe un alto riconoscimento dal papa stesso, Pio XI. Era un’autorità nel suo campo, e lo si vede; nella sua cultura e nel suo modo di procedere si coglie il riflesso della grande tradizione filologica e filosofica tedesca: nelle sue pagine spira un’aura di calma compostezza e di pacata razionalità, unite a una salda fede e a una perfetta umiltà culturale. È un grande che si fa piccolo, per lasciar parlare la dottrina della Chiesa, la sua saggezza due volte millenaria, e soprattutto per far brillare la luce della Rivelazione.Esattamente il contrario di tanti teologi d’oggi, che sfilano in passerella (anche televisiva) dalla mattina alla sera, per far vedere a tutti quanto sono belli e bravi e intelligenti, magari sputando un po’ di doveroso veleno “progressista” e modernista nel piatto ove hanno mangiato e ove, sovente, continuano a mangiare.
Non si capisce più se sono davvero dei teologi, e, soprattutto, se sono ancora dei teologi cattolici; sembrerebbe di no, dal momento che tacciono sulle cose più importanti, oppure le proclamano irrisolvibili, o si appellano alla coscienza individuale; in compenso, parlano - eccome - di cose che farebbero meglio a tacere; parlano con incredibile disinvoltura, come se duemila anni di Tradizione e di Patristica non esistessero, come se la Rivelazione fosse stata sempre fraintesa e solo adesso, per fortuna e per merito loro, qualche raggio di luce incominciasse a farsi strada in mezzo alle tenebre fitte dell’oscurantismo clericale. Alle idee chiare, lineari, piene di buon senso dei teologi come Bartmann, alla grande tradizione di san Tommaso d’Aquino, hanno sostituito uno sgangherato procedere a salti e a tentoni; improvvisano, esternano a ruota libera, buttano là delle frasi a effetto, delle ipotesi campate per aria, degli azzardi teologici al limite dell’eresia, eppure li fanno passare per moneta buona, rivendicano il proprio essere cattolici, sostengono, anzi, di essere loro, e loro soltanto, i veri depositari dello “spirito” della cristianità, che poi è lo “spirito” del Concilio Vaticano II. Verso i cattolici che essi chiamano “tradizionalisti” non hanno che disgusto e disprezzo: li trattano da lebbrosi, da appestati, da immondi; pare quasi che faccia loro schifo anche solo doverli nominare, che temano di contaminare le labbra parlando di loro. In compenso, si profondono in dichiarazioni di stima, di amicizia e di benevolenza verso tutte le altre fedi, e specialmente la giudaica e l’islamica; fraternizzano con gli intellettuali europei che vorrebbero distruggere le radici cristiane dell’Europa, così come, fino a non molti anni fa, fraternizzavano gioiosamente con i marxisti, gli stessi che gettavano in carcere o nei gulag milioni di cristiani russi, o cinesi, o di molti altri Paesi; dicono di capirne le ragioni, non smettono di levare altissimi lamenti per la sorte crudele riservata al povero Galilei quattro secoli fa; si battono il petto per i misfatti dell’Inquisizione, chiedono perdono per le Crociate, spariscono per la vergogna al pensiero della tratta dei negri (anche se una tratta identica, anzi, assai più crudele, era praticata sull’altro versante del continente africano, dagli Arabi musulmani; ma di quella nessuno parla mai, quindi non fa testo). Lutero, per loro, era nel giusto quasi in tutto; la sua protesta era sacrosanta; le sue ragioni, sostanzialmente condivisibili. Non è stato il distruttore della Chiesa e dell’unità cristiana: è stato un benemerito riformatore: tanto è vero che i cattolici dovrebbero imparare dai luterani e dai calvinisti dei nostri giorni, che sono tanto più progrediti e lungimiranti; e infatti, in Svizzera, in Germania ed in Olanda, già lo fanno. E se, dopo Lutero e Calvino, ci sono stati oltre cent’anni di guerre sanguinose, la colpa era notoriamente dei cattolici: loro soltanto si sono macchiati di atrocità imperdonabili, come la Notte di San Bartolomeo. Ma i protestanti, quando mai? Del resto, si sa, il lupo perde il pelo, ma non il vizio. La Chiesa cattolica è il lupo, e quel che tentò di fare contro i protestanti, ricalca quel che già aveva fatto contro gli albigesi. È sempre stata crudele e intollerante, oltre che corrotta; meno male che adesso è arrivata un’aria nuova, un’aria di pulizia.
Non parliamo, poi, dei temi etici. Condannare l’aborto, l’eutanasia, la contraccezione? Ma per carità: roba da Medioevo. E, se Paolo VI ha promulgato la «Humane vitae», è chiaro che sbagliava: non era in linea con i tempi, non era “dialogante”, non era “moderno”. Oggi i cattolici danno per scontato che, su questi temi, debbano esservi la massima apertura e la massima comprensione, nonché la massima tolleranza; sono ben altri, del resto i temi etici sui quali essi amano confrontarsi, oggi, con i “fratelli separati” e con gli esponenti delle altre religioni, nonché con la cultura laica e secolarizzata: l’inseminazione artificiale, la fecondazione eterologa, la manipolazione genetica, l’utero in affitto, le unioni di fatto, i matrimoni omosessuali, le adozioni dei bambini da parte di queste nuove figure di genitori. E, naturalmente, i teologi cattolici progressisti e modernisti non vogliono certo sfigurare, non vogliono apparire secondi a nessuno: vogliono far vedere che non hanno paura di uscire allo scoperto, di parlare il linguaggio degli uomini d’oggi, franco e pragmatico. Che non è certo quello del Magistero, o, almeno, di ciò che era il Magistero fino a pochissimi anni fa. In fondo, essi ragionano, è il Magistero che deve adattarsi alla cristianità; non la cristianità che deve ascoltare il magistero. Che cos’è questo residuo di mentalità gerarchica e monarchica, sopravvivenza di epoche passate e superate? Oggi è il tempo della democrazia; e, in democrazia, la maggioranza decide quel che va fatto e quel che va evitato; quello che è vero e quello che è falso; quello che è giusto e quello che è sbagliato. Il Magistero deve prenderne atto, e la teologia lo deve registrare e ratificare: così come i puristi dei vocabolari devono prendere atto dei cambiamenti e delle trasformazioni che subisce la lingua viva, quella parlata da milioni e milioni di persone. E tanto peggio per le grammatiche, se non sono d’accordo.
Oggi, manuali come quello del Bartmann non se ne scrivono più; e teologi come Romano Guardini o come Franco Amerio, ce li possiamo scordare. Oggi ci sono gli Hans Küng e i Vito Mancuso, per nostra fortuna. Siamo davvero fortunati a vivere in un’epoca teologicamente così progredita e illuminata, e ad avere delle guide religiose e spirituali così profonde e così rassicuranti. Al cristiano “maturo” non si addice il “Dio tappabuchi”, diceva Bonhoeffer; ma tanto varrebbe dire: non si addice più nessun Dio. Noi dobbiamo fare come se Dio non ci fosse, proclamavano codesti campioni della “teologia negativa” (curiosissimo e quasi surreale neologismo, il principe di tutti gli ossimori); e, dopo tutto, può darsi che non ci sia davvero. Chi siamo noi, per dire chi è o che cosa non è Dio? Sì, è vero: c’è stato un certo Gesù Cristo, che si diceva Figlio di Dio e che ha vissuto fra gli uomini, insegnando loro la Buona Novella; ma non è altrettanto vero che anche le altre religioni vantano i loro profeti e i loro messia? Non possiamo certo offendere la sensibilità di quei fedeli, lasciando intendere che consideriamo false le loro credenze, e falsi i loro profeti. Sarebbe una forma intollerabile di arroganza culturale. L’Europa non ha già perpetrato abbastanza prepotenze ai danni delle altre culture e degli altri popoli? È venuto il tempo che impari un poco di umiltà, che la smetta di credersi così importante. Se i cristiani hanno il loro Gesù, i giudei hanno Mosè, e i musulmani hanno Maometto, come i buddisti hanno Gotama Buddha, e tutti hanno la loro parte di verità, in tutti brilla qualcosa della Luce divina. Questo è il vero pluralismo culturale. E i mormoni, li vogliamo dimenticare? E i teosofi e gli antroposofi? E i seguaci del reverendo Moon, dove li lasciamo? Manca poco che anche nei seguaci di Scientology e nei culti dei dischi volanti brilli qualche raggio della Luce divina: se non altro, aspettano anche loro una discesa dal Cielo degli dèi. Di certo il Vudù, l’Umbanda e il Candomblé hanno la loro dignità, che non va sottovalutata; e perché no, anche lo spiritismo di Allan Kardec.
Va a finire che resterebbero fuori, esclusi dalla luce e alla salvezza finale, soltanto gli adepti della Chiesa di Satana. Ma come si può essere così poco misericordiosi, da rifiutarli senza possibilità di appello? Da negare anche ad essi un minimo di apertura, di dialogo, di confronto? Tutto sta a vedere se davvero Satana è irrecuperabile; se anche lui, viceversa, riuscisse a salvarsi, allora non si potrebbe certo escludere la speranza per i suoi seguaci. Ebbene, fior di teologi “cattolici” dicono oggi che l’Inferno non esiste; che, se pure esiste, potrebbe anche essere vuoto; che, se pure non è vuoto, ma pieno, un bel giorno finirà, perché Dio perdonerà tutti, diavoli e dannati compresi; che Satana in persona verrà riaccolto e riabilitato, e tornerà ad essere Lucifero, lo splendido angelo della luce. Perché no? Se Dio è Amore misericordioso, perché non potrebbe fare una cosa simile: perdonare e redimere anche il Diavolo? E lasciamo che i vecchi teologi alla Bartmann dicano, con fastidiosa pignoleria, che Dio è sommo Amore, certamente, ma anche somma Giustizia: e che, di conseguenza, non può perdonare chi non vuole essere perdonato, né può salvare chi rifiuta di essere salvato. Vecchi discorsi, vecchi sofismi! Dio può tutto: dunque, perché non dovrebbe volere anche la salvezza del Diavolo? E, se la volesse, potrebbe forse non poterla realizzare? Dio è onnipotente: dunque, è chiaro che lo potrebbe. Ed è chiaro che lo farà. Perché Dio è progressista e modernista, e la pensa proprio come Hans Küng e Vito Mancuso.
Il cristiano “maturo”, nel terzo millennio, non ha più bisogno di manuali di teologia. Forse non ha più bisogno neanche di Chiese; sì e no ha bisogno ancora della Messa. Ma per favore, non si dica che la Messa è un Sacrificio: né di Dio per gli uomini, rinnovando il sacrificio di Cristo sulla croce, né degli uomini per Lui, offrendogli il misero fardello delle loro pene e delle loro rinunce. Che cosa è mai tutto questo parlare di sacrifici e di tristezze? Il cristianesimo è la religione della gioia; è la religione dell’Uomo. Il cristianesimo è un Umanesimo all’ennesima potenza. Un prete, che doveva aver capito poco del Vangelo, disse una volta, dal pulpito, che, se fosse stato per lui, avrebbe fatto sparire tutti i Crocifissi, e li avrebbe sostituiti con altrettante immagini del Risorto. Ma la Risurrezione si può capire, e acquista un senso, solo passando attraverso la Croce: Gesù promette la risurrezione, ma predica la croce. La croce è il simbolo del cristianesimo, perché ne riassume l’intimo significato: che è quello del sacrificio. Il sacrificio di Dio per noi; e quello di noi per Lui. Solo così la croce, cioè la sofferenza, acquista un senso: venendo assunta volontariamente. La croce sopportata controvoglia non dà la salvezza, perché non apre il cuore a Dio. E Gesù non è un Superman che vince la morte con la Resurrezione, ma è Dio che si fa uomo e che soffre e muore, per poi risorgere: muore come uomo, risorge come Dio.
Ma i teologi progressisti e modernisti non hanno capito nulla di queste cose. Stanno lì a cavillare, a fare le pulci ai grandi teologi di ieri, dall’alto della loro piccolezza presuntuosa. Una certa Mary C. Boys, teologa americana molto sensibile al dialogo con il Giudaismo, rimprovera a Bartmann il suo supposto anti-giudaismo, peraltro tutto da vedere. È l’unica citazione di Bartmann che si trovi in rete: l’unico riferimento a quel grande studioso e alla sua magnifica opera. Non un elogio, né un grazie: silenzio totale da parte dei teologi odierni, e anche della Chiesa. Come se ci si vergognasse di lui e di quelli come lui. È molto triste. Si vede che i cattolici si meritano i Küng e i Mancuso…
«Son le leggi d’abisso così rotte? o è mutato in ciel novo consiglio?»
di Francesco Lamendola
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