Natale di lotta e di governo per Papa Francesco: da universale a globalizzato, da indulgente a misericordioso
Se dovessimo pubblicizzare l’Anno Santo con uno slogan diremmo che Francesco, nel suo terzo Natale da pontefice, ha lanciato una gigantesca operazione “porte aperte”.
Diecimila soglie sante, una media di tre per diocesi, che emergono dai siti e dai bollettini, approvate ufficialmente dai vescovi. Più il “sommerso”. Un numero indefinito di accessi “abusivi”, creativi, personalizzati: autorizzati direttamente da Dio e incoraggiati dal suo Vicario. La più grande “sanatoria”, e cura risanatrice, in due millenni di cristianesimo.
Da universale, quale è sempre stata, la Chiesa si ritrova d’improvviso globalizzata. Che non è esattamente la stessa cosa. Da indulgente, aggettivo tradizionalmente associato ai giubilei e oggi derubricato nel vocabolario, è diventata misericordiosa. Che è molto, ma molto di più.
E’ presto per capire che direzione, connotazione, conformazione stia prendendo, mentre si avvera poco a poco la profezia di Ratzinger, enunciata nel giorno del commiato, il 28 febbraio 2013: “La Chiesa si trasforma”. Verbo che lì per lì nessuno prese sul serio e comprese fino in fondo, forse nemmeno Bergoglio, il prescelto, che pure stava lì ad ascoltare, alla stregua dei pastori quando udirono la voce degli angeli.
“La Chiesa si risveglia nelle anime”, insistette il vecchio professore di Ratisbona nel suo discorso, l’ultimo da papa conservatore e il primo da teologo progressista, interiorizzando e al tempo stesso esternalizzando, delocalizzando e democratizzando il mistero del Natale, per tramandarne al successore una moderna e insuperata definizione con le parole di Romano Guardini, maître à penser di riferimento di entrambi: “La Chiesa di risveglia nelle anime che offrono a Dio la propria carne e diventano capaci di generare Cristo oggi nel mondo”.
A tre anni dall’avvento sul soglio di Pietro, il “risveglio delle anime”, unitamente alla benevolenza dell’opinione pubblica, che veglia su di lui dal cielo mediatico, rappresenta la vera forza di Bergoglio, di fronte al ritorno in forze della Curia. Il favore e il calore della stampa, dal giorno in cui Time lo ha consacrato uomo dell’anno, configurano la corazza invisibile ma infrangibile, lo scudo termico e luminoso contro le insidie del “lato oscuro”, nel passaggio tra il primo e il secondo Vatileaks, che si chiude per ora in situazione di stallo, preannunciando un terzo e immancabile capitolo della saga.
I mass-media dei paesi ricchi e le masse dei paesi poveri assommano e assemblano de facto le “divisioni del Papa”: un’alleanza inverosimile ma reale. Un’armata improbabile ma formidabile, da fare invidia a Stalin. Cavalleria satellitare, dalla CNN ad Al-Jazeera, e fanteria popolare, dai campesinos andini ai cartoneros metropolitani.
Dagli slum di Nairobi all’ostello della Stazione Termini, Francesco ha stravolto geografie e gerarchie, addentrandosi nei ridotti angusti dei monolocali come fossero capanne di Betlemme e irradiandone la luce dai monitor, lungo i sentieri augusti del prime time: “Se tu vuoi trovare Dio, cercalo nella povertà, cercalo dove Lui è nascosto: nei bisognosi, nei più bisognosi…”
Asfissiate dallo smog, le periferie assurgono così a riserve di ossigeno spirituale, alle quali Bergoglio attinge ricaricandosi ma generando a sua volta un carico si aspettative irrisolte: qualcosa di simile a un corto circuito teologico. Dal Riza Park di Manila, dove ha battuto il record delle cerimonie pontificie con sette milioni di fedeli, alla cattedrale di Bangui, dove ha voluto anticipare l’inaugurazione dell’Anno Santo, le immagini rimbalzano sulla fortezza romana del cattolicesimo come altrettanti missili e ne ribaltano la percezione di centralità, rendendo stridenti le contraddizioni dei suoi palazzi, che da tempo hanno smesso di essere sacri: “Lui non sceglie una grande città di un grande impero… non sceglie un palazzo di lusso”.
Come i cori angelici della Notte Santa, i media rivestono di gloria le favelas. E prossimamente il Chiapas, al seguito del Successore di Pietro. Ma come gli angeli dell’Apocalisse riversano i propri fulmini sulla Curia, in un clima di rivoluzione ormai permanente, tra colpi di sermone e di piccone, che Francesco da parte sua non perde occasione di assestare, diviso a metà tra il compito di Papa di governo e l’identikit di Papa d’opposizione, profilo inedito negli annali della cristianità.
Lunedì scorso nella Sala Clementina, incontrando i responsabili dei dicasteri per gli auguri, ha tracciato il disegno della Curia come dovrebbe essere, mentre la TV si soffermava di converso impietosa sulla Curia com’è, nei volti assorti e assenti, estraniati e straniti della nomenclatura. Una Bastiglia da espugnare, una classe dirigente asserragliata nelle proprie dimore da trecento metri quadri e assediata dalla marea montante dell’indignazione: per sortire dall’empasse, in cerca di un punto di fuga, la regia si è arrampicata solerte sulle pareti fino al dipinto della barca di Pietro, scossa dalla tempesta eppure indomita.
Nel terzo Natale romano il pontefice argentino ha perfezionato la sua simbiosi con il mistero del Bambino di Betlemme, incarnandone la umanità e tenerezza, ma pure la precarietà e debolezza. Determinato a portare avanti le riforme con “lucidità e risolutezza”, ma conscio di procedere a vista, tra opacità e incertezza, battute d’arresto e giri d’orizzonte: “Ogni tanto ci aiuta il fare un passo indietro e vedere da lontano. Il Regno non è solo oltre i nostri sforzi, è anche oltre le nostre visioni”, ha chiosato e concluso.
Il Papa che fu eletto all’insegna di una Chiesa in uscita da se stessa, ha forse avvertito e trasmesso l’impressione di sentirsi egli stesso, a sua volta e per la prima volta, in uscita dal papato: “Non possiamo fare tutto, però dà un senso di liberazione iniziarlo… Può darsi che mai vedremo il suo compimento, ma questa è la differenza tra il capomastro e il manovale. Siamo manovali, non capomastri, servitori, non messia. Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene.”
Mentre il “manovale” Bergoglio annuncia all’Orbe il Natale del suo capomastro e Signore, la loggia dell’Urbe, dove tre anni fa si affacciò sul villaggio globale, diventa il balcone del monte Nebo, e il Tevere il Giordano, quando Mosè vide da lontano la Terra Promessa, cioè il futuro di cui era profeta e che non gli apparteneva. Rassegnato a non poterlo raggiungere personalmente, ma consapevole di avere avviato un “esodo”, un cammino di “liberazione”, operando un taglio netto con il passato e lasciando al di là del mare, nell’immaginario del popolo di Dio, le caste piramidali e i carri del faraone: dei quali non si riusciva più a sopportare il giogo e che non sarebbero stati ammessi al prosieguo del viaggio.
Piero Schiavazzi,
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