ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 4 gennaio 2016

Leggende metropolitane.


La "misericordia" dei felici anni Settanta


rota
C'è una lettera della congregazione per la dottrina della fede del lontano 1973 che, ripescata oggi, è stata esibita per dimostrare che allora vigeva la "probata Ecclesiae praxis in foro interno" di consentire la comunione ai divorziati risposati, e che quindi oggi non si tratterebbe che di ripristinare quella felice pratica pastorale, purtroppo interrotta dai "rigorismi" di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
L'autore del ripescaggio, come riferito nell'ultimo servizio di "www.chiesa", è stato il vescovo di Albano Marcello Semeraro, molto prossimo a papa Jorge Mario Bergoglio.
Ma il "ballon d'essai" lanciato da Semeraro in vista dell'attesa pubblicazione da parte del papa delle conclusioni che egli trarrà dal sinodo sulla famiglia non è stato affatto accolto pacificamente dalla folta schiera dei contrari alla comunione ai divorziati risposati.

A loro giudizio, quella lettera del 1973 non rappresentava affatto una autorizzazione, da parte della Chiesa gerarchica, di una prassi "misericordiosa" per chi pur violava il sesto e il nono comandamento, che proibiscono l'adulterio.
Anzi, quella lettera – vi si leggeva – era stata scritta e trasmessa ai vescovi di tutto il mondo proprio per contrastare le "ragioni dottrinali o pastorali che qua e là vengono portate come argomento per giustificare gli abusi contro la vigente disciplina circa l'ammissione ai sacramenti di coloro che vivono in unione irregolare".
In realtà la questione era piuttosto complicata. In quei primi anni Settanta, nei paesi del mondo in cui era stato introdotto il divorzio nelle legislazioni civili, si era fatto impellente l'interrogativo su che fare con i cattolici sposati in chiesa e poi divorziati e risposatisi civilmente. Nella prassi pastorale c'era incertezza e alcuni confessori assolvevano e ammettevano alla comunione alcuni degli "irregolari", specie nel caso in cui il penitente si riteneva sicuro della nullità del suo precedente matrimonio, pur in assenza di una sentenza canonica che certificasse tale nullità.
La lettera del 1973, molto breve e non chiarissima, non risolse affatto quell'incertezza diffusa. Tant'è vero che ad essa seguì, due anni dopo, una puntualizzazione.
La richiesta di chiarimenti era venuta dagli Stati Uniti, e la congregazione per la dottrina della fede rispose con una lettera del suo segretario, il teologo domenicano e arcivescovo Jean Jérôme Hamer, indirizzata all’arcivescovo di Chicago Joseph Louis Bernardin, all’epoca presidente della conferenza episcopale degli Stati Uniti.
Questa seconda lettera, in data 21 marzo 1975, è rubricata come "Littera circa partecipationem" in "Leges Ecclesiae", vol, VI, n. 4657, p. 7605. E aggiunge alcune precisazioni circa l'applicazione agli "irregolari" della "approvata prassi della Chiesa in foro interno":
"Questa frase [probata Ecclesiae praxis] dev’essere intesa nel contesto della tradizionale teologia morale. Queste coppie [di cattolici che vivono in unioni coniugali irregolari] possono essere autorizzate a ricevere i sacramenti a due condizioni: che cerchino di vivere secondo le esigenze dei principi morali cristiani e che ricevano i sacramenti in chiese in cui esse non sono conosciute, in modo da non creare alcuno scandalo".
Non c'è chi non veda come le due condizioni qui richiamate sono le stesse della "Familiaris consortio" del 1981 del "rigorista" Giovanni Paolo II, con la sola differenza che l'impegno a "vivere secondo le esigenze dei principi morali cristiani" è stato ulteriormente esplicitato da papa Karol Wojtyla in impegno a "vivere in piena continenza" con chi non è il proprio coniuge.
È vero che anche dopo di allora ha continuato a riproporsi per i pastori l'interrogativo su che fare con chi si riteneva sicuro della nullità del suo precedente matrimonio ma trovava preclusa la via di una sentenza canonica che la certificasse.
È il caso che lo stesso Joseph Ratzinger – sia come cardinale che come papa – ha riconosciuto più volte come bisognoso di "ulteriori studi e chiarificazioni".
Ma è un caso che oggi è praticamente venuto meno, dopo che papa Francesco ha talmente facilitato il ricorso alle sentenza di nullità da rendere inutile il ripiego nel foro interno.
Con i nuovi processi matrimoniali, infatti, chi è certo in coscienza della nullità del suo matrimonio può ritenersi anche sicuro di veder certificata canonicamente tale nullità. Nel suo caso, il ricorso al foro interno non ha più ragione di esistere.
I fatti parlano. Prima ancora che il sinodo si concludesse e al di fuori delle stesse discussioni sinodali, papa Francesco ha già risolto a modo suo la "vexata quaestio" della comunione ai divorziati risposati: con la sua rivoluzione dei processi matrimoniali.
Sempre ammesso che tale rivoluzione vada in porto, visti i problemi che sta sollevando la sua applicazione.

Settimo Cielo di Sandro Magister 04 gen

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/01/04/leggende-metropolitane-la-misericordia-dei-felici-anni-settanta/

I divorziati e la Chiesa. Interviene don Nicola Bux: «Il sacerdote non è un notaio e il pentimento non basta»

Segnalata, rilancio volentieri questa recente intervista di don Nicola Bux sul tema assai dibattuto sulla Comunione ai divorziati risposati e se sia possibile l’assoluzione in foro interno (nella Confessione) al divorziato passato a nuove nozze che non manifesti alcuna intenzione di lasciare il neo-coniuge. Ancora una volta, da parte cattolica, una parola chiara, nonostante non manchino quelli che Riccardo Cascioli, in un suo recentissimo intervento suLa Nuova Busssola quotidiana, chiamava "i furbetti del sinodino", che vorrebbero "aprire" la Comunione ai divorziati risposati (v. Riccardo Cascioli, I furbetti del sinodino, in NBQ, 31.12.2015. L'articolo di Cascioli è pure rilanciato da Il Timone del 4.12.2016).

I divorziati e la Chiesa «Il sacerdote non è un notaio e il pentimento non basta»

La Basilica di San Nicola

BARI - Qualcosa è cambiato, nei rapporti tra i fedeli e la Chiesa Cattolica. La vicenda di un uomo divorziato e risposato, recatosi per la confessione a San Nicola alla vigilia di Natale, riaccende il dibattito su un concetto che con il Giubileo è diventato mediatico. In una lettera, che la Gazzetta ha pubblicato mercoledì 30 dicembre, l’interessato ha raccontato la propria delusione per l’assoluzione negatagli. E ha rivendicato la misericordia di Papa Francesco.
«Ma il sacerdote non è il notaio che ratifica una decisione già presa dal penitente» commenta don Nicola Bux, teologo, consultore in Vaticano, autore tra i più citati a livello internazionale. Il suo ultimo libro, “Come andare a messa e non perdere la fede”, è stato già tradotto in cinque lingue.

Ma l’assoluzione, ci ha scritto il nostro lettore, «va data a tutti quelli che si confessano».

«È un’affermazione assurda. Qui si confonde il perdono con il condono. Nella confessione, il sacerdote è allo stesso tempo giudice e medico dell’anima. Assolvere vuol dire “sciogliere”, ossia slegare il penitente dal legame con il peccato. È il sacerdote, non il fedele, che valuta se ci sono le condizione per assolvere o meno».

Il pentimento non basta?

«Il pentimento vero implica la disponibilità del fedele a sciogliere quel legame. Nel Vangelo Gesu Cristo dice: Va', e non peccare più. Mica va' e continua a fare di testa tua».

Il sacerdote ha ritenuto che non vi fossero le condizioni di cui parla?

«Certamente. Non si può pretendere l’assoluzione senza il fermo proposito di non peccare più».

E qui entra in gioco il Giubileo della misericordia.

«Concetto parecchio frainteso, negli ultimi tempi. Le regole non sono cambiate e i sacerdoti si attengono alla solita dottrina, tutti allo stesso modo, esattamente come tutti i giudici si attengono alla legge, senza eccezioni. Perché questo concetto è dato per scontato in tribunale e vorremmo sovvertirlo nelle chiese?».

È chiaro da che parte stia don Bux.

«Dalle parte di Gesù Cristo, ovviamente. Nessuno, su questa terra, ha l’autorità di cambiare le regole della sua Chiesa. Tant’è vero che dal sinodo è uscito un documento che non cambia assolutamente nulla, in materia di disciplina dell’eucaristia ai divorziati risposati».

Però, papa Francesco, a molti sembra intenzionato a cambiare rotta.

«Un altro enorme fraintendimento. Lo ha spiegato molto chiaramente il cardinale Muller, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, ossia il custode della fede cattolica, il quale afferma: “La dottrina non è una teoria costruita dagli uomini. Il magistero del Papa e dei vescovi non è superiore alla Parola di Dio”».

A giudizio del sacerdote il nostro lettore sarebbe ancor più peccatore in quanto faceva la comunione, nonostante avesse divorziato e si fosse poi risposato.

«E vorremmo fare una colpa al sacerdote? È Gesù Cristo che, nel Vangelo, decreta l’indissolubilità del matrimonio. E San Paolo mette in guardia dal ricevere il sacramento indegnamente. Come si può pretendere di accedere all’eucaristia, se non si è più in comunione con la propria moglie? È una contraddizione in termini. Ed altre ne emergono, da quella lettera».

A cosa si riferisce?

«Innanzitutto il dato di partenza. Il lettore si definisce “cattolico credente”, ma anche divorziato e risposato, il che tradisce l’indissolubilità del vincolo coniugale. Poi parla, testualmente, di uno “schiribizzo”, che lo avrebbe spinto a confessarsi dopo dodici anni di assenza dal confessionale. Ma almeno una volta all’anno, i cattolici hanno l’obbligo di confessarsi e di comunicarsi. È un tipico esempio di “cristianesimo fai da te”, che dovrebbe adattarsi alla nostre esigenze. Un fenomeno dal quale ci aveva messi in guardia il papa Benedetto XVI».

Ultima questione. La porta santa aperta nella Basilica, non rappresenta un percorso penitenziale speciale?

«Anche su questo bisogna fare chiarezza. Il peccato, un po’ come il reato, comporta la colpa ed una pena. La confessione assolve dal peccato, non dalla pena che sarà scontata nell’aldilà a livello soprannaturale. È a questo punto che entra in gioco il Giubileo che, in via straordinaria, serve ad assolvere anche dalla pena. Le porte della misericordia, nella Chiesa, erano, sono e saranno sempre aperte. Ma alle consuete condizioni. E i sacerdoti sanno che non devono cedere, non devono lasciarsi intimorire dalle opinioni dominanti».

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