ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 8 gennaio 2016

“Sopravvivere alla barbarie”.

                     Damnatio memoriae



Accade alle volte che la tecnologia operi secondo il volere recondito dell’uomo. Così sono andati smarriti tutti gli articoli scritti su questo sito negli ultimi due anni e mezzo. Francamente la cosa non mi ha particolarmente sconvolto. Quel che di “interessante” potrei aver scritto è stato già ripreso qua e là da siti amici. Il resto è andato in fumo. In ogni caso ho accolto volentieri questo oblio come un segno, una ammonizione: due anni e mezzo di rovina e decadenza che probabilmente non meritano alcun commento.
Non sono neppure certo che tale rovina si arresterà di colpo. Al contrario credo che finirà per peggiorare. E sono certamente abituato a frenare lo spirito “autenticamente cristiano” di coloro che mi hanno sempre sventolato contro il “non praevalebunt”, con una semplice risposta: è scritto che le porte degli Inferi non prevarranno, non vinceranno il conflitto finale, ma non è scritto da nessuna parte che una religione praticata (a parole o nei fatti) da svariati milioni di esseri umani non possa collassare o trascolorare in altro, lasciando vive solo poche fiammelle in angoli remoti del mondo. Siamo tutti vittime di questo collasso. Specialmente noi laici. E il paradosso è che ci tocca cercare strumenti di edificazione delle nostre anime di certo non negli sproloqui quotidiani dei chierici e del loro capo che dà di elleboro… Faccio mio il pensiero che mi è stato trasferito qualche mese fa da un sacerdote della FSSPX: “dobbiamo tornare a vivere come quei monaci che nel medioevo non sapevano neppure chi fosse il papa regnante”. Sì, continuare a zappare nell’orto, a ricopiare i codici, a coltivare le arti, ad esercitare le virtù. Si chiama “salvare la semente” o se preferite “sopravvivere alla barbarie”.
Ὁ τόπος μας εἶναι κλειστός, ὅλο βουνὰ
ποὺ ἔχουν σκεπὴ τὸ χαμηλὸ οὐρανὸ μέρα καὶ νύχτα.
Δὲν ἔχουμε ποτάμια δὲν ἔχουμε πηγάδια δὲν ἔχουμε πηγές,
μονάχα λίγες στέρνες, ἄδειες κι αὐτές, ποὺ ἠχοῦν καὶ ποὺ
τὶς προσκυνοῦμε.
Ἦχος στεκάμενος κούφιος, ἴδιος μὲ τὴ μοναξιά μας
ἴδιος μὲ τὴν ἀγάπη μας, ἴδιος μὲ τὰ σώματά μας.
Μᾶς φαίνεται παράξενο ποὺ κάποτε μπορέσαμε νὰ χτίσουμε
τὰ σπίτια τὰ καλύβια καὶ τὶς στάνες μας.
Κι οἱ γάμοι μας, τὰ δροσερὰ στεφάνια καὶ τὰ δάχτυλα
γίνουνται αἰνίγματα ἀνεξήγητα γιὰ τὴν ψυχή μας.
Πῶς γεννηθῆκαν πῶς δυναμώσανε τὰ παιδιά μας;
Ὁ τόπος μας εἶναι κλειστός. Τὸν κλείνουν
οἱ δυὸ μαῦρες Συμπληγάδες. Στὰ λιμάνια
τὴν Κυριακὴ σὰν κατεβοῦμε ν’ ἀνασάνουμε
βλέπουμε νὰ φωτίζουνται στὸ ἡλιόγερμα
σπασμένα ξύλα ἀπὸ ταξίδια ποὺ δὲν τέλειωσαν
σώματα ποὺ δὲν ξέρουν πιὰ πὼς ν’ ἀγαπήσουν.
La nostra terra è chiusa, tutta montagne
che hanno coperto il basso cielo giorno e notte.
Non abbiamo fiumi, non pozzi, non fonti,
solo poche cisterne, vuote anch’esse, che echeggiano e
che supplichiamo.
Un’eco immobile, uguale alla nostra solitudine
uguale al nostro amore, uguale ai nostri corpi.
Ci sembra strano che un giorno abbiamo potuto costruire
le case e i rifugi e le nostre stalle.
E i nostri matrimoni, le fresche corone e gli anelli
diventano enigmi inspiegabili per le nostre anime.
Come sono nati, come sono cresciuti i nostri figli?
La nostra terra è chiusa. La chiudono
le due nere Simplegadi. Nei porti
la Domenica quando scendiamo per respirare
vediamo luccicare al tramonto
lignei rottami di viaggi non terminati,
corpi che non sanno più come amare.
G. Seferis

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