6 maggio 1967: minigonna e minimessa
6 maggio 1967: in Vaticano, papa Paolo VI riceve
esponenti del mondo dello spettacolo e giornalisti. Indossate da Claudia
Cardinale e da Antonella Lualdi, compaiono per la prima volta le minigonne.
Riportiamo il commento di Tito Casini a questo episodio,
segno della intrusione della mondanità nella Chiesa: sono gli anni in si
accorciarono le gonne e si accorciò anche la Messa...
«Minigonna» e «Minimessa»
Di corto metraggio, in altro senso da quello che comunemente
s'intende (e che intese a nostro proposito il cardinale Lercaro), voglio dir di
vestiti corti, si parlò molto, nei giornali di quel giorno e dei successivi, e
la data resterà negli annali della basilica di San Pietro, che parve poter far
proprie, quel giorno, le parole di Geremia per Gerusalemme: Vidit
gentes ingressas Sanctuarium tuum, de quibus praeceperas ne intrarent... Sicure
di non esserne, dai soliti rigidi custodi, impedite, donne del mondo, donne del
cinema, donne del teatro, donne d'ogni varietà di spettacoli, notoriamente
adultere, notoriamente concubine, notoriamente «divise» non meno che
notoriamente «accoppiate», fanciulle e madri di figli d'incerto padre non
marito, si presentarono, infatti, ed entrarono a fronte ben alta nel Santuario.
Scese da lussuose automobili, e al braccio dei loro amanti, esse salivan
superbe la gradinata - superbe di tanti occhi, di tanti obbiettivi puntati su
loro, sui loro visi, i loro seni, le loro gambe - per essere ricevute dal Papa,
dal Vicario di Colui che ricevette ben anche la Maddalena, ma non per portare
al Papa, Maddalene pentite, i loro profumi: cosi poco infatti pentite da far
della loro carne la più ostentata ostensione. Ve n'erano, infatti, quanto al
vestire, di cosi corto metraggio che l'orlo inferiore della
gonna era vicino alle cosce più assai che al ginocchio: un sanculottismo, un pauperismo,
in quanto a misura, così sfarzoso in quanto al resto, che sarebbe eccessivo
volerne fare un portato della cosiddetta Chiesa dei poveri, come
mostrava di temere quel fine furbo che su L'Ordine firma L'ingenuo (ed
è un prete), scrivendo appunto, per l'occasione, «Tutto è possibile: la suprema
nostra speranza è che non si appellino, in questo, al Concilio Vaticano II o
all'Enciclica Populorum progressio».
Tutto è possibile, nil admirari, e
qui ci sembra, per verità, che il «tutto» e il «nil» abbian raggiunto dei bei
livelli! Quel povero Forese di Dante credeva di dirla grossa quando prevedeva
che si sarebbe arrivati a dovere interdir «dal pergamo» (come non bastasse il
buon senso non bastasse la coscienza!) «alle sfacciate donne fioretine l'andar
mostrando con le poppe il petto», e chi gli avesse detto che non fuori ma in
chiesa, in San Pietro, alla presenza del Papa, si sarebbe visto quel che s'è
visto il 7 maggio 1967!
Era il trionfo, era la rivincita della «minigonna», bocciata
per indecenza da un giovane ingegnere poc'anzi all'esame di guida. Trionfo e
rivincita contro il no di genitori «matusa» o «salme», di parroci «non
aggiornati», cui si è potuto impertinentemente rispondere: «La tale è andata
così in San Pietro davanti al Papa». Impertinentemente, ossia in maniera non
pertinens, non appropriata, quasi che il Papa avesse potuto
sapere che la tale si sarebbe presentata in abiti così da paradiso terrestre o
dirle come quell'ingegnere disse a quella ragazza: «Vada a vestirsi», e per me,
come per chiunque ragioni, era anche superfluo che l'Osservatore
Romano ci spendesse come fece un lungo corsivo per dirci che tali
«esibizioni» furono «inavvertite dall'Ospite» e «non implicano approvazioni o
tolleranze di principio». Si capisce, come si capisce che dicendo a quella
medesima: «Sia serena... sia d'esempio», non intendeva dirle: «Lei è a posto:
continui a far come ha fatto»; ma, con altre parole, ciò che il Maestro disse a
quell'altra: Vade et iam amplius noli peccare... Il guaio, in
questo, l'han fatto gli altri, e non tanto dico gli «uffici particolari» che
hanno «organizzato l'invito» nel «presupposto della sensibilità dei
partecipanti consapevoli del luogo sacro e delle circostanze religiose di
quell'incontro», quanto di chi ha salutato l'«incontro» quale è avvenuto,
l'ingresso della «minigonna» in San Pietro, proprio come un'applicazione del
Vaticano II, o della Populorum progressio. Non per niente
l'ingenuo furbo di or ora tornava poi sull'argomento osservando che c'è chi
parla ormai di «minimorale» per definir la morale, lo spirito dei tempi nuovi,
Concilio o Enciclica quali si vogliono intesi, ossia «l'andazzo del tutto
permesso», e ne vede un'applicazione in quella che chiama «la «mini-liturgia».
«Mini-liturgia», o mini-messa. Facciamo
nostro l'appellativo, di fronte alla nuova ondata di distruzioni e di
innovazioni che, sotto il titolo di Instructio altera, per
una beffarda pertinentissima coincidenza i giornali ci comunicavan lo stesso
giorno che la minigonna entrava in San Pietro... Minigonna, Minimessa: stessa
data, stesso spirito, stessa vittoria del grande «loico» che va
placandosi quaggiù della caduta di lassù, con
una progressiva avanzata di cui ogni tappa chiama l'altra, prepara l'altra:
vittoria tanto più allegra in quanto ottenuta con l'astuzia, mostrandosi non
nell'aspetto del «nero cherubino» sceso a contendere a Francesco l'anima del
conte Guido, ma seducente, come la «biscia» della valletta del Purgatorio tra
l'erbe e i fior delle premure pastorali, del bene delle anime, della
nostra «partecipazione alla Messa più cosciente e più attiva».
È la seconda grossa puntata del romanzo Riforma: un
«giallo» pieno di morti, in cui muore finalmente, freddato da una serie
di etiam, il grande ferito delle altre: l'odiato
latino... Freddato sotto gli occhi del Papa, di Paolo VI, che aveva pur
poc'anzi levato la sua voce a difenderlo, a ricordare, in sua difesa, il
Concilio. E poiché vedo, qui, le ciglia a tanti, onesti ignari, inarcarsi come
a chiedere se sia mai possibile questo; e poichè i miei avversari mi hanno,
TUTTI, d'ogni colore, con una concordia che variava solo di accenti e di tinte
nella gara di superarsi in accanimento, mi hanno denunziato e additato come
ribelle al Papa, ecco qui - non per loro, settari fino a serrare gli occhi
davanti al sole e dire: Non c'è - ecco qui, per gli onesti ignari, ciò che il
Papa, Paolo VI, scriveva pochi mesi avanti l'Instructio altera...
Trascrivo, più distesamente che non abbia fatto fin qui,
dalla sua Lettera Apostolica «Sacrificium Laudis», che si è cercato, anche
questa, di tenere nascosta:
«Siamo venuti a conoscenza che nell'uffizio di Coro si vanno
richiedendo le lingue volgari e si vuole ancora che il canto, cosiddetto
gregoriano, si possa qua e là sostituire con le cantilene oggi alla moda; addirittura
da alcuni si reclama che la stessa lingua latina sia abolita. Dobbiamo
confessare che richieste di tal genere ci hanno gravemente turbato e non poco
rattristato; e sorge il problema donde mai sia nata e perchè mai si sia diffusa
questa mentalità e questa insofferenza prima sconosciuta... Le cose che abbiamo
sopra denunciato accadono dopo che il Concilio Vaticano II ha espressamente e
solennemente pronunciato, sopra questo argomento, la sua sentenza... e dopo che
norme chiare e precise sono state emanate»(e il Papa le richiama, titoli e
date), nelle quali «si riconferma quello stesso precetto e se ne adduce nel medesimo
tempo la ragione del vantaggio spirituale dei fedeli ... Né
poi qui si tratta», prosegue, «solamente della conservazione della lingua
latina - lingua che, lungi dall'essere tenuta in poco conto, è certamente degna
di essere vivamente difesa, essendo nella Chiesa Latina sorgente fecondissima
di cristiana civiltà e ricchissimo tesoro di pietà ma si
tratta anche di conservare intatti il decoro, la bellezza e
l'originario vigore di tali preghiere e di tali canti... Desta dunque
meraviglia il fatto che, scossa da improvviso turbamento, quella maniera di
pregare sembri ad alcuni ormai trascurabile... Quale lingua, quale canto potrà
sostituire le forme della cattolica pietà, di cui finora vi siete serviti? Gli
uomini desiderosi di ascoltare le sacre preghiere continuerebbero a frequentare
così numerosi le vostre chiese, quando non vi risuonasse più l'antica ed
originaria loro lingua, congiunta con un canto pieno di gravità e di decoro?»
Una domanda, questa, che ricorda tempi gloriosi per la Chiesa, quando la
liturgia lingua e canto - le attraeva gli estranei, così come oggi le aliena i
fedeli. Attraeva, quella liturgia, alla fede, attraeva a Dio, al servizio
stesso di Dio suscitando le vocazioni ecclesiastiche, ed è così che il Papa
prosegue: «Quelle preghiere, piene di forza e di nobile maestà, continueranno
ad attrarre a voi i giovani chiamati al servizio di Dio; il Coro - al contrario
- a cui si togliesse quel linguaggio che supera il confine di ogni singola
Nazionee che si fa valere per la sua mirabile forza spirituale, il Coro a cui
si togliesse quella melodia che sale dal più profondo dell'animo - il canto
gregoriano, vogliamo dire - sarebbe simile a un cero spento, che più non
illumina, più non attira a sè gli occhi e la mente degli uomini... Non vogliamo,
per il bene che vi portiamo, accordarviciò che potrebbe essere origine forse di
non poco danno a voi stessi, e sicuramente indebolire e intristire la Chiesa
tutta di Dio. LasciateCi proteggere, anche vostro malgrado, il vostro
patrimonio...»
Così il Papa, Paolo VI, verso il quale io sarei un ribelle
difendendo il latino; ed ecco alle sue considerazioni, ai suoi non
licet, ai suoi non possumus, la
risposta dei «fedeli», ecco l'articolo 28 della Instructio altera, di
poco posteriore alla Lettera: «Lingua vernacula adhiberi valeat,il
vernacolo si consideri valido, etiam in Canone Missae... etiam in
recitatione chorali... etiam...» Dovunque, per dirla in breve, e del
latino non rimanga che questo per sentenziarne la morte: per cuocere, come
a dire, il capretto nel latte materno. E il «cero»? Il «cero»,
pff! ecco fatto; pff! ed ecco fatto il Concilio; pff! Ed ecco risolta in
radice, col metodo della «soluzione finale», la quaestio digna ad quam
diligenter eccetera eccetera. Visum est Nobis, a
noi del Consilium è più non si domandi. Ai vescovi che non
parevan convinti e si attaccavano a quell'adhiberi valeat per
mantenere comunque acceso, in quella segreta parte della Messa, il «cero» ormai
ridotto a un cerino, il Praeses, nella sua stessa
circolare del 21 agosto in cui lamentava la babele liturgica, ordinava di
adeguarsi al disposto e spengere la fiammella, percorrendo cosÌ «l'ultima tappa
per la graduale estensione del volgare» (a tutta la liturgia), in attesa dei
nuovi riti, delle «nuove creazioni» che il gran Consilium porta
in seno e darà alla luce «quando verrà il momento», disperdendo del «cero» pur
l'ultima traccia di fumo e di aroma... salvo sentire di questi giorni il padre
Bugnini, il ginecologo del Consilium, che esclama (Osservatore
Romano): Qualcuno «ha creduto che la Chiesa intendesse rinunciare alla
lingua latina nella liturgia. Neppur per sogno». E par davvero di sognare, ma
senza possibilità d'illudersi circa le forme del nascituro. Cade ben qui di
ricordare che vernacolo deriva da «verna», il bastardo nato da schiava.
Poveri vescovi, cosÌ costretti a rimangiarsi, davanti al
loro clero, davanti ai loro diocesani, disposizioni come questa, impartita,
«per il decoro della liturgia», dal vescovo di Verdun, monsignor Boillon, nel
gennaio scorso e riportata, a titolo di richiamo per tutti, dal giornale
vaticano: «Le preghiere dell'Offertorio, quelle del Canone e le tre orazioni
che precedono la Comunione debbono essere assolutamente recitate in
latino». A-s-s-o-l-u-t-a-m-e-n-t-e !
Poveri vescovi, e onore e gratitudine ai nostri, alla
maggior parte dei nostri, italiani, che han tutelato col proprio il decoro
della liturgia, del culto, rispondendo il loro ragionato non
possumus a chi, per la stessa ragione, aveva già ugualmente
detto: non possumus, ed è precisamente il cardinale Lercaro.
Precisamente, e onore e gratitudine a un vescovo della mia Toscana, il già
nominato monsignor Romoli, di Pescia, che in sua lettera del giugno alla
presidenza della CEI diceva fra l'altre cose anche questa: «La Costituzione
sulla Santa Liturgia prescrive: Linguae latinae usus, salvo
particulari iure, in ritibus latinis servetur... Ma con
l'adozione della lingua volgare nel Canone e nelle lezioni del Divino Ufficio,
anche se celebrato in coro... non resterà nulla della lingua latina... tutto
sarà celebrato in lingua italiana. Il latino viene interamente bandito dalle
celebrazioni liturgiche. Si nota, allora, con meraviglia, che il citato
articolo della Costituzione liturgica non sembra venir rispettato, ed è impossibile,
poi, non rilevare l'acuto contrasto esistente tra questo allargamento della
riforma e le direttive impartite dai Sommi Pontefici, fino ai nostri giorni, a
tutela della lingua latina come lingua della Santa Liturgia e della Chiesa».
Accennato, qui, con garbo, al pericolo che il latino vada
del tutto alle ballodole, per il clero, anche fuor di chiesa, mandando nei
medesimi posti anche «i testi classici della patristica e della teologia,
scritti tutti in questa lingua», il vescovo si chiede, da vescovo: «Ma quali
benefici poi di ordine pastorale si attendono... ?» E risponde.: «Osservo
avanti tutto che il Canone non e preghiera del popoio ma del sacerdote. E non
sono io, a dir vero, che affermo questo, ma una persona ben più competente e
autorevole di me Sua Eminenza Reverendlsslma il Signor Cardinale Lercaro, il
quale nella lettera che indirizzò ai sacerdoti della propria diocesi,
rispondendo al quesito se della lingua latina non sarebe rimasto più nulla
nella Messa, scriveva testualmente: "Restano da dirsi in latino le
preghiere personali (apologie) del sacerdote e la grande prece eucaristica o
anafora (prefazio e canone) che, essendo preghiera di consacrazione, è
ovviamente preghiera sacerdotale e non del popolo"».
«Ovviamente» (come a dire: logico, certo, indiscutibile) e
ovviamente noi ci chiediamo a chi dobbiamo credere, perchè l'opposizione non è
più, qui, Lercaro-Pio XII, Lercaro-Giovanni XXIII, Lercaro-Paolo VI,
Lercaro-Concilio, ma Lercaro-Lercaro, e voglio sperar che non mi si accusi di
averlo accostato a chi m'intendete se ricordo le parole di Gesù ai
farisei: Omne regnum in seipsum, divisum desolabitur; e
non accosto ma deduco, se davanti a certe desolazioni dico che mi sembra sentir
quel tale che ghigna, in faccia a chi ne mostra stupore: Tu non pensavi
ch'io loïco fossi! «In secondo luogo», continua il Vescovo dicendo del
Canone ciò che val per l'intera Messa, certo per tutto l'Ordinarium, «noto
che il popolo, usando il messalino bilingue, può benissimo, dopo breve tempo
seguire con facilità anche questa preghlera», e, dato e non concesso che il
volgare favorisse maggiormente «la partecipazione del popolo alla Santa Messa»,
«questo vantaggio», egli aggiunge, «non compenserebbe affatto gl'inconvenienti
appena appena accennati con l'abolizione del latino...»
Popolo, popolo... È il caso di dire, parafrasando
bonariamente una celebre frase: «Popolo, popolo, quante corbellerie si
commettono in tuo nome!» Un po' meno di demagogia, un po' più di demopsicologia
avrebbero fatto intendere quanto fosse rischioso per la fede e la devozione del
«popolo» questo continuo cambiare, questo parlare e succedersi di «esperimenti»
(come si trattasse di concimi o di razze), per cui ci si chiede, ogni domenica,
,andando alla chiesa: «Come sarà oggi la Messa?» e Dante faceva, al confronto,
l'elogio della costanza quando diceva alla sua Firenze: ... a mezzo
novembre non giugne quel che tu d'ottobre fili.
In compenso queste messe «comunitarie» son piene, voglio
dire che non lasciano all'individuo licenza o modo di dire una preghiera, di
rivolgere a Dio un pensiero che sia per sè e non per il comune (o per «la
comune»): per sè, per le sue necessità personali o familiari, dacchè Dio ci ha
fatti a uno a uno e non in serie come macchine, e il silenzio, come nel canto la
pausa, fa parte della preghiera, è preghiera - Tibi silentium
laus... - e lo ricorda in quella sua lettera monsignor Romoli: «...
nella celebrazione del Divin Sacrificio non resterebbe più posto al
"sacrum silentium" che pure concilia il raccoglimento e la
devozione». Il popolo... Sì, il popolo, qui a Firenze, ha trovato il giusto
vocabolo definendo «messa-gallinaio» questa «messa comunitaria» tutta
chiacchiera, senza - aggiungo io - un chicchirichì o sia pure un buon coccodè
che rompa a quando a quando il fastidio, non avendone di sicuro il valore le
«cantilene oggi alla moda», come detti da Paolo VI i nuovi canti in volgare.
Il don Marranci che ho già citato (e mi scusi se lo cito
ancora, col rischio che ho già detto per lui!) ci riferisce di un «santo prete»
(la santità è con noi: padre Pio continua a dir la sua Messa in latino) che,
seccato di tutto questo cambiare e abbattere, di tutto questo impoverire, di
tutto questo, per così esprimermi, far «mini», ha manifestato il timore che di
questo passo ci levino, alla fine anche la Consacrazione, e sembra si sia di
fatto su questa strada. Il loro nuovo vocabolario teologico ha già i nuovi
termini, «transfinalizzazione», «transignificazione» da sostituire a
«transustanziazione», e la Instructio altera tende a ridurre
ancora, a minimizzare al massimo, i segni e gli atti di adorazione per l'Ostia.
Istruendo, su questa Instructio, dietro
l'istruzione del segretario del Consilium, i sacerdoti
della mia diocesi, il nostro liturgo raccomandava loro dl recitare, «in
ltaliano, a voce alta, pacata, come un racconto», tutte le parole
del Canone, ed è lecito domandarsi s'egli creda, dunque, che fra quelle parole
del Canone non ce ne siano almeno quattro da leggersi... in maniera diversa,
non propriamente «come un racconto» (i santi, come il nostro Filippo Neri,
n'erano sollevati da terra, il Curato d'Ars ci si perdeva): quelle
quattro per cui accade che un frammento di pane, lì fra le mani del sacerdote,
diventa Corpo di Gesù Cristo. Diventa... e, di schianto, come folgorato, come
gli apostoli sul Tabor, il sacerdote cade adorando... No: cadeva, e c'era nei
termini stessi delle rubriche il senso della folgorazione: «Quibus prolatis
verbis, STATIM genuflexus adorat». Statim, all'istante
(e si vedevano sacerdoti fiaccare, più che piegare, il ginocchio a terra e
restarvi), mentre ora si vuole, si ordina: post, «dopo», e si
ordina in forma negativa, limitativa, di economia sul bilancio: tantum, «solamente»: Celebrans
genuflectit tantum... post elevationem hostiae (le minuscole son del
testo, come si trattasse ancora di pane, ancora di vino, come si
trattasse di simboli): «Il celebrante genuflette solamente dopo
l'elevazione dell'ostia e dopo l'elevazione del calice» Due volte, dunque,
invece delle quattro (all'istante e dopo, statim e rursus) di
prima, ed è, anche per questo capitolo Consacrazione-Elevazione, una bella
economia, aggiunta agli altri risparmi di questa messa tutta omittitur, omittuntur, omitti
potest, e sono orazioni e sono genuflessioni e son baci e sono
segni di croce e son parti di paramenti: sono atti e segni di adorazione, di
pietà, di riverenza, che il Suo amore aveva ispirato a santi e pontefici e
avevano, agli occhi dei fedeli, come quel sacerdote ha scritto, «un volto di
eternità». Quanti erano? Nessuno, fin qui, s'era posto la domanda, nessuno li
aveva contati. Conta, forse una mamma i baci, i segni di tenerezza che riceve
dai propri figli, o dice loro: «Son troppi: riduceteli: non più che tanti»?
È ciò che han fatto questi gelidi riformatori luterani in
ritardo, anelanti a ricuperar la distanza. «Sono troppi!» e ce ne scherniamo,
così come i primi cristiani si gloriavan dei loro tanti segni di croce: «Ad
ogni passo» (è Tertulliano che lo dice, ai pagani non battezzati del suo
tempo), «ogni volta che si entra o si esce nel vestirci, nel legarci i calzari,
nel lavarci, nel mangiare, nell'accendere la luce, nel coricarci, nel sederci
in ogni incontro noi tocchiamo la fronte col segno delia Croce». «Sono troppi!»
Leggo proprio così, con l'esclamativo a conclusione di un inventario dei baci,
«la serie degli otto o nove», sparsi lungo la Messa, in quella Rivista
di pastorale liturgica che mi ha onorato del suo disprezzo; e mi
domando se questo ragioniere, se questo calcolatore, che ha fatto lo stesso per
le genuflessioni e gli altri «santi segni» (come li ha chiamati Guardini), mi
domando se questo pianificator dell'amore (forse un prete, secondo il cuore
della Riforma) abbia mai fermato il pensiero su quel tratto di san Luca, su
quelle parole di Gesù a un certo Simone fariseo: «Vedi tu questa donna? Sono
entrato in casa tua e tu non m'hai dato acqua per i piedi, mentre lei... Tu non
m'hai dato il bacio, e lei, dacchè è entrata? non ha smesso di baciarmi
i piedi: non cessavit osculan pedes meos», e mica le disse, a lei:
«Basta: son troppi!» bensì disse, di lei: «Le san rimessi i
suoi molti peccati, perchè molto ha amato».
L'amore non ha certo ispirato, voglio dire che ha ispirato
meno di tutte, questa Instructio altera, che altera,
che «desacralizza» così sfrontatamente l'Atto più sublime del culto, sebbene
quasi inavvertitamente agli occhi del popolo, il quale, non avendo mai contato
ma solo venerato quei baci, quelle genuflessioni, quei segni di croce della
Messa, non li conterà neanche ora, non s'avvedrà di quanto è diminuito lo
«spreco». Tra l'erbe e i fior venia la mala striscia... Non
s'è avvisto e non s'avvedrà, altro che per caso, di una variante che può
sfuggire a chi non guardi di proposito le mani del sacerdote dopo la
Consacrazione, e di cui proprio non si vedeva la necessità o l'opportunità, a
meno che per gli autori delle nuove rubriche quel pane e quel vino non sian
rimasti pane e vino, non siano davvero che simboli. Dicevano le non nuove: «et
genuflexus iterum adorat: nec amplius pollices et indices disiungit...
usque ad ablutionem digitorum», e significavano, ai nostri occhi, quel
pollice e quell'indice stretti assieme, quanto fosse divinamente prezioso quel
minimo dell'Ostia toccata che poteva, magari per la stretta dell'estasi,
esservi rimasta: significavano, ricordavano, come si cantava processionando
quel divino giorno di giugno: ... tantum esse sub fragmento quantum
toto tegitur... Dicono le nuove: «Post consecrationem» (minuscola)
«celebranti licet pollices et indices non coniungere» e
significa che se il «fragmentum hostiae» (minuscola) rimasto fra le dita non è
molto rilevante si può anche lasciar perdere (conformemente vediamo i «nuovi
preti» raccattar come se fosse una moneta da dieci la particola caduta per
terra nel comunicare, lasciando che il punto dov'è caduta sia pesticciato dal
plotone avanzante, che non può, per necessità d'ordine, fare alt o segnare il
passo) e san di scherno le parole con cui il Consilium risponde
no, per «motivo igienico», a chi gli chiede se l'abluzion delle dita sussista
ancora: «Bere l'acqua con cui ci si è lavati le dita, specialmente dopo la
distribuzione della comunione, non è certo un gesto ... consigliabile». Dal
Gesù importuno, sopra l'altare, siamo così arrivati al Gesù antigienico, nell'acqua
che raccoglie, ne pereant, i divini fragmenta, e
pregate che tale Egli non sia per voi, quel giorno!
Lo spirito della Mysterium fidei, di
questa soavissima enciclica che s'apre con l'immagine dello «Sposo» (Cristo) in
atto, direbbe Dante, di «mattinar la Sposa perché l'ami»,
porgendole, con l'Eucaristia, la prova, il pegno più grande del suo sconfinato
amore, «immensae caritatis pignus», non aleggia, certo, in questa messa tutta
negativa, tutta contro gli sprechi, ut quid perditio haec? In
fatto di manifestazioni di amore. Sembra, difatti, ch'essa «la enciclica più
ispirata», «il documento più alto», come bene hai detto e scritto tu, amico
Belli, «del magistero di Paolo VI») non goda di buona stampa, no, neanch'essa,
fra i novatori. La rivista bresciana che m'ha onorato come or ora dicevo mette
avanti, fra le «Proposte per la Riforma del Canone Romano», ossia per «la
correzione del Canone attuale», quella di un teologo, il Küng, che
n'escluderebbe (oltre all'in primis, ai due memento, al communicantes, all' hanc
igitur, al nobis quoque e non basta) anche
«l'inciso mysterium fidei», lasciandaci, così, scusatemi, un
mini-Canone che a quello dell'economia, della brevità, aggiungerebbe per
l'appunto il vantaggio di far fuori le due parole da cui l'enciclica prende
nome.
Essa ha, fra l'altro, agli occhi degli olandesi d'Olanda
come di tutti gli altri paesi bassi, il grave torto di equiparare,
a dir poco, la messa «comunitaria» (anzi, «cosiddetta "comunitaria"»)
alla Messa senz'aggettivi e senza volgare, condannando l'esaltazione di quella
nei confronti di questa quale un esempio di deviazione «dalla dottrina della
Chiesa»: «Non enim fas est, ut exemplo rem confirmemus, Missam quam
"communitariam" dicunt ita extollere, ut Missis quae privatim
celebrentur derogetur». E Dio mi guardi dall'attribuire ai nostri riformatori
l'eresia «secundum quam in Hostiis» (maiuscolo) «consecratis,
quae expleta celebratione supersunt, Christus Dominus praesens amplius non
sit», ossia che all'Andate in pace anche Nostro Signore lasci
l'altare (e sarebbe scusabile, con certi «altari», in certe «chiese»), lasci lì
le particole e torni in cielo. Ma è certo che un po' di dubbio ci scappa, a
leggere quell'articolo 31 che raccomanda ai fedeli di comunicarsi con le ostie
(minuscolo) consacrate durante la Messa («comunitaria»): «hostiis in ipsa Missa
consecratis», quasi che l'altro, quello del Tabernacolo, fosse un Gesù... meno
buono, meno fresco ... per non dire stantio o addirittura andato a male. Ed è
vero, purtroppo, che càpita raramente, sempre più raramente, entrando in chiesa
fra giorno, di vedere davanti al Tabernacolo fedeli e preti in ginocchio con la
loro corona o il loro Breviario fra le mani.
Effetto, questo, non tanto, forse, o soltanto, del dubbio se
Nostro Signore sia ancora no sia partito, sia andato in pace con l'ultimo
celebrante in ritiro verso la sagrestia, quanto di quell'inaridimento, di quel
«dessèchement de la piété», di quel «mépris des dévotions chères à l'Eglise»,
che un degnissimo sacerdote francese ha lamentato (pagando caro il suo
coraggio!) e per cui «on ne voit plus les prètres prier ni visiter le Saint
Sacrement. Les Saluts et les autre Offices ont pratiquement disparu... Les
signes extérieurs de la foi, les emblèmes, les statues les insignes ne sont
plus appréciés; nombreux sont le~ prètres qui proscrivent le chapelet et
l'image du divin Crucifié est bannie mème des églises»: frutto di un vento, di
uno «spirito nuovo», che spira come un «simun» nella Chiesa e ne fa «un Peuple
sans foi définie, sans vitalità sacramentelle, sans force morale, un Peuple qui
n'aura bientot plus de prètres ni de religieuses, plus de moines ni de
missionnaires, plus de convertis ni de défenseurs animés d'une fidelité
exclusive et absolue...»
Cose della Francia? Parlando, giorni addietro, nel Duomo di
Milano, il cardinale Dell'Acqua concludeva così una lunga accorata diagnosi dei
mali che affliggono oggi «la Chiesa»: «Oggi - anche da parte nostra, cari
Sacerdoti - si prega meno di ieri; e questo forse non è l'ultimo dei motivi e
della spiegazione dei guai in cui ci dibattiamo...» E tale il quadro di tali
guai, seppur tracciato dalla mano di un diplomatico in un incontro d'amicizia,
da far suonare come un grido d'allarme la ripetuta esortazione finale: «Bisogna
pregare di più!»
Dio mi guardi, anche qui, dal dire o dal pensare che
l'intenzione non fosse meno che retta, in chi compose e impose questa Instructio
altera che «per motivo pastorale» riduce ancora e ancora l'orazione
- In Missa unica dicatur oratio -, che toglie il Placeat, che
amputa di due notturni il Matutino, di due salmi le Laudi e il Vespro, facendo
capir che n'è rimasti anche troppi. Dio mi guardi, ma certo è che (mi si
conceda un'ultima volta!) l'anima di papa Giovanni non era con questi
defalcatori dell'orazione «per motivo pastorale», lui che per questo
motivo, lui divenuto pastore di tutta quanta la Chiesa, aumentò la
propria orazione. «15 agosto 1961» (è dal suo Diario che
io trascrivo). «Continuerò a curare a perfezione gli esercizi della pietà:
santa Messa, rosario tutto intero, e grande e continua intimità con Gesù,
contemplato in immagine: bambino, crocifisso; adorato in sacramento... Oh, che tenerezza
e che delizia riposante, questa mia Messa mattutina! Il rosario, che
dall'inizio del 1958 mi sono impegnato a recitare devotamente, tutto intero, è
divenuto esercizio di continuata meditazione tranquilla e quotidiana, che tiene
aperto il mio spirito nel campo vastissimo del mio magistero e ministero di
pastore massimo della Chiesa, e di padre universale delle anime». Il rosario! E
per i suoi rosari, per la sua grande pietà, come per tutte le sue virtù, egli
onorava e venerava un suo antecessore papa il cui solo nome fa inorridire i
nostri cattolici «progressisti»: il papa, dico, del Sillabo! «Io
penso sempre» (è ancora il suo Diario) «a Pio IX di santa e
gloriosa memoria; ed imitandolo nei suoi sacrifici, vorrei esser degno di
celebrarne la canonizzazione»: cosa che chiese e sperò, invano, dal Concilio.
«Imitandolo nei suoi sacrifici...» Era l'altro dei due
maggiori motivi per cui il santo papa Giovanni pensava sempre al santo papa Pio
IX; e questo mi consente di credere che la sua anima non aleggiasse, no,
sul Consilium, sui redattori di questa Instructio, allorchè,
proseguendo in quello che un mio amico veneziano ha chiamato «lo spogliarello
della Messa», essi decretavano (articolo 25) l'abolizione del manipolo, che non
pesava, sicuramente, che non era un sacrifizio portare, ma
ricordava, simboleggiava il sacrifizio. «Merear, Domine, portare manipulum
fletus et doloris»: così chiedeva nel metterselo il buon sacerdote d'un tempo,
e lo baciava (cominciava di qui la «serie»), per poi aggiungere, per poter
aggiungere: «ut cum exsultatione recipiam mercedem laboris»; ma il
«pianto», ma il «dolore», in una parola la croce, par non s'addicano alla
Chiesa d'oggi, questa Chiesa «postconciliare» tutta «religio commoda», tutta
concessioni e dispense, dal venerdì alla domenica al fumo di Londra e alla
cravatta per i preti, ai matrimoni con gli eretici nelle chiese degli eretici;
e l'abolizione del «segno» (c'è bene, al centro del manipolo, una crocellina) è
giusto un segno del fatto. «Bisogna tornare alla liturgia come celebrazione
della Pasqua del Risorto»: è il cardinale Lercaro che così dice, e dice bene,
commenta quel giornale di Como, diretto da un prete, che non voglio più
nominare per non finir di comprometterne un altro; ma, aggiunge, «il pericolo è
che si parli di Risurrezione senza sottolineare la Morte, e di Risorto senza
insistere sul Crocifisso... Lo "spirito del nostro tempo" non vuole
la Croce. Ora sarà un errore insistere "soltanto" sul sacrificio (ma
Gesù come parlava?) però è necessario sottolineare che cosa costa la
risurrezione».
Come a dire che si vorrebbe una Settimana Santa ridotta -
«mini», anch'essa - ossia senza Venerdì Santo, e non dico che anche la domenica
delle Palme vada bene, con tutto quel «trionfalismo», quel Gesù che invece di
entrar, col «popolo», a piedi, entra in sedia gestatoria, entra
a cavallo in Gerusalemme, su una cavalcatura di lusso, riservata, sulla quale «nullus
hominum sedit», lussuosamente bardata dai discepoli coi loro abiti, passando su
quelli stesi per terra da quei poveri (invece di dire: «Figlioli, non vi costan
nulla questi vestiti?») e ordina che gli si prepari un cenacolo da signori
signorilmente addobbato, «coenaculum grande, stratum», non «una qualunque
baracca» come il mio caro padre Fabbretti (caro, sicuro! io ricordo ancora
l'ardente novizio che mi chiedeva l'epigrafe per il santino della sua prima
Messa) vorrebbe le chiese.
Il Venerdì Santo? La Morte? Non potendola levar dal mondo,
questa importuna «sorella», si cerca almeno dai riformisti, di farla
dimenticare, al contrario dei vecchi predicatori che ne inculcavano la
memoria: Memorare novissima tua...! e se non si è ancora
provvisto a riformare il Memento, homo sostituendo magari la
brillantina alla cenere e traducendo quel sinistro latino con qualche cosa di
equivalente ma a conclusione più allegra, come La vita è breve, morir
si deve eccetera eccetera, s'è provvisto a togliere dalla liturgia il
colore, il «niger», che la rammenta.
«Negli Uffici e nelle Messe dei defunti», dice ben anche
(articolo 23) questa Instructio, «si può usare il colore viola
o «un altro colore liturgico che sia conforme alla mentalità del popolo, non
offenda il dolore umano...» e peccato che su questo punto il padre Bugnini non
ci abbiaparticolarmente istruito, perchè la «mentalità del popolo», il «dolore
umano» hanno sempre associato al lutto, privato o pubblico, il «nero»: nelle
gramaglie, nelle vesti, nei necrologi, nelle lettere, nelle bandiere... e
offesa al defunto, da parte dei congiunti, sarebbe ritenuto il contrario, per
cui sarebbe improprio parlare, qui, di laicismo in chiesa, tanto si è
sorpassato, anche in questo, il «laos».
A Torino la Curia arcivescovile ha vietato dal giugno scorso
i cortei funebri, ordinando: «Feretro ed accompagnatori dovranno recarsi, con
mezzi motorizzati» (Les morts vont vite!) «dalla casa del
defunto alla chiesa dove si svolgerà la cerimonia religiosa», risparmiando,
così, alla vista e al traffico, non che alla mente dei frettolosi cittadini,
quel lento proceder della bara fra quelle strofe già rituali del Miserere e
quelle avemarie del rosario che antiche confraternite, nelle loro antiche
cappe, salmodiavano o recitavano via via... E chissà che allo stesso fine di
non turbare con quella parola i lieti pensieri dei cristiani «postconciliari»,
non si decida, in una revisione dell'avemaria come se ne fanno per accordar con
quelle dei protestanti le nostre antiche preghiere, di levare o cambiare l'«in
hora mortis», dicendo magari, per usare un'espressione moderna e degna degli
altri testi: «nell'ora del nostro decesso».
«Morte» o «decesso», quell' «ora» verrà per tutti (eh, sì,
anche in Russia ne son convinti: «Ot smierti niet selia: contro la
morte non c'è erba») e beato chi potrà accoglierla come il nostro cardinale
Ruffini, al quale giunse improvvisa, nel giugno scorso, ma non temuta, ma ben
accetta francescana «sorella»: gli era accanto, infatti, la Madre, e lo disse
con un sorriso che aveva già del sorriso eterno: «Sto morendo ma son
tranquillo: sono con la Madonna».
Era dei nostri, e come lui noi siamo, nella nostra
sofferenza, tranquilli, come lui sentendo vicino a noi la Madonna. Le abbiamo
affidato la nostra causa, con l'umile amorosa fede con cui - la ricorrenza
centenaria del fatto ce lo ricorda - gli abitanti di un paese del Sud-America,
il Paranà, allora capitale della Confederazione Argentina,La eleggevano, la
«Virgencita del Rosario», capo della loro provincia, dandole per primo ministro
l'altro «candidato», il più favorito dopo di Lei, l'arcangelo Gabriele, che noi
pur Le mettiamo accanto venerandolo e invocandolo Cavaliere della Santa
Vergine, Preposito del Paradiso, Messaggero della Santissima Trinità, Patrono
della Chiesa Cattolica, Diacono delle Liturgie Celesti, Corifeo dei Nove Cori,
alle quali e coi quali aggiungiamo, una voce) la nostra
quotidiana lode al Tre Volte Santo.
La cultura cattolica in Italia
6 maggio, 2016
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