ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 7 maggio 2016

La differenza fra chi è uomo, e chi no.

UOMINI E NO

    Ci sono uomini e ci sono esseri che hanno solamente l’apparenza di uomini. Gli intellettuali italiani: servi per 20 anni del fascismo per 70 anni del marxismo ora felicemente intruppati sotto le accoglienti bandiere del cattocomunismo 
di F.Lamendola  




Ci sono uomini e ci sono esseri che hanno solamente l’apparenza di uomini, ma non lo sono; sono qualcos’altro: vermi, corvi, o forse dèmoni.  Gli uomini “veri” sono quelli che stanno dalla propria parte ideologica; gli altri, sono quelli che si aggirano, con fare losco e con pessime intenzioni, nelle ideologie “altre”, esplicitamente o implicitamente nemiche. Così, almeno, la pensa l’intellettuale italiano tipico: sempre molto politically correct, sia che il vento soffi da sinistra, sia che soffi da destra o, magari, dal centro.
Un tipico intellettuale italiano, e tipicamente di sinistra, è stato Elio Vittorini: già fascista (oh, ma fascista di sinistra: mi raccomando, bisogna specificarlo!), poi “compagno” inossidabile del grande Partito dei lavoratori, delle persone oneste e serie, dell’Italia “giusta” (contro quella sbagliata, che comunista non era, né voleva esserlo).  E il suo più tipico romanzo è stato Uomini e no, scritto negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale e apparso in libreria nel 1945, portato dal soffio impetuoso del “vento del Nord” e della meravigliosa Liberazione (ma come, quale “liberazione”? la Liberazione per antonomasia, che discorsi; l’unica che vada scritta con la lmaiuscola).

Non ci soffermeremo a parlare di quel libro: non ne vale la pena. Basterà dire che è una “romantica” (si fa per dire) apologia dei G.A.P., cioè di quei Gruppi di Azione Patriottica che seminarono le città dell’Italia centro-settentrionale di assassinii mirati, per lo più contro obiettivi inermi; e valga per tutti il caso del filosofo Giovanni Gentile, freddato per la strada, a Firenze, il 15 aprile 1944: un vecchio di quasi settant’anni che girava senza scorta e che non aveva fatto del male a una mosca. Ma ci interessa evidenziare il modo di ragionare (anche se “ragionare” è, in questo caso, una parola grossa) dell’intellettuale tipico. Per Vittorini, i partigiani sono “uomini”; i fascisti e i tedeschi, no. Del resto, non vale la pena di dimostrarlo: è una cosa evidente. Non impiegano il loro tempo, i fascisti e i tedeschi, a far sbranare la gente dai cani? È con questa scena raccapricciante, in particolare, che Vittorini ritiene d’aver giustificato il titolo e la tesi del suo romanzo. C’è forse bisogno di spiegare perché chi commette azioni simili non è degno d’essere chiamato uomo?
Ora, proprio perché intendiamo mostrare la profonda disonestà intellettuale dei sedicenti intellettuali nostrani, con o senza i loro vittoriniani “astratti furori”, con o senza le loro “conversazioni in Sicilia” o in qualsiasi altro luogo, vogliamo subito chiarire che il fatto di cui parla il romanzo non è, purtroppo, inverosimile: perché cose simili, ahimè, accaddero. Il punto chiave non è la bestialità umana, specialmente nel furore di una guerra civile (già, appunto: perché se non si ammette, e gl’intellettuali italiani lo hanno negato per settant’anni, che quella del 1943-45 fu una guerra civile, si nega il contesto storico che rende possibile la vera comprensione dei fatti); il punto chiave è che tale bestialità non è solo quella dei “nemici”, ma anche degli “amici”. O si capisce questo, o non si è capito nulla. O si capisce questo, oppure – per dirla con il buon Vittorini – non si è uomini, ma scimmie ammaestrate, che parlano solo per schemi ideologici e riflessi condizionati. Che cosa avrebbe detto Vittorini di quel che fecero i “gloriosi” partigiani a Norma Cossetto, sventurata ragazza istriana che fu violentata innumerevoli volte prima di essere infoibata, dopo aver subito mutilazioni fisiche e l’introduzione di un pezzo di legno nella vagina, al principio di ottobre del 1943? Che cosa furono, quei partigiani: uomini, o che altro?
Passando ora su un terreno meno drammatico, ma sempre significativo, proviamo a chiederci che cosa distingua gli uomini dai non uomini, nel rapporto dialettico fra il pensiero e l’azione. Il pensiero è stato, ed è tuttora, importantissimo per l’agire politico: tutta la modernità, in particolare dall’illuminismo in poi, è stata contraddistinta dalla forza crescente delle ideologie. Il giacobinismo, il romanticismo, il liberalismo, il democraticismo, il radicalismo, l’anarchismo, il marxismo, il darwinismo (compreso quello “sociale”), il positivismo, il naturalismo, il decadentismo, l’estetismo, il nazionalismo, l’internazionalismo, il socialismo, il comunismo, il fascismo, il nazismo, il capitalismo, il consumismo, lo scientismo, l’esistenzialismo, il freudismo, l’ambientalismo, il femminismo, l’animalismo, l’omosessualismo… e potremmo continuare. Tutte queste ideologie, quasi per colmare un vuoto (la cacciata del Vangelo?), hanno preteso di offrire una interpretazione esaustiva e “perfetta” della realtà; hanno preteso di incarnare la Verità contro l’Errore: e, così facendo, hanno preteso una fedeltà religiosa dai loro seguaci, e un’implacabile inimicizia verso tutti gli altri. E tutte, dalla prima all’ultima, hanno fallito, sono cadute, o stanno cadendo.
Ebbene: la loro caratteristica essenziale è stata il disprezzo nei confronti del principio di realtà. Ciascuna di queste ideologie ha voluto fare della realtà solo ciò che essa riteneva giusto e vero e buono; e ha preteso di escludere dalla realtà tutto ciò che non rientrava nel quadro. Si è incominciato con la “santa ghigliottina” e si è proceduto con i ricoveri in manicomio per i dissidenti e gli oppositori. Logico: chi non apprezza il Paradiso in terra, chi rifiuta la nuove Tavole della Legge, è degno di morte, o, nel migliore dei casi, di un pronto internamento psichiatrico. Gli uomini fatti sbranare vivi dai cani e le ragazze violentate, torturate e uccise, dall’una e dall’altra parte politica, hanno questo in comune: che sono considerati nemici del Nuovo Ordine, dunque devono essere soppressi. Va da sé che fermarsi a compiangerli significa fiancheggiare il nemico, significa evocare i mostri del Vecchio Ordine: parlare di Norma Cossetto è da “fascisti”. Parlare dei sette fratelli Govoni è, del pari, da fascisti: bisogna parlare solo dei sette fratelli Cervi. I sette fratelli Cervi sono caduti per la Giusta Causa; gli altri, hanno pagato il fio d’avere servito la causa del Male. Giustizia è stata fatta. Come nel caso di Giovanni Gentile. Parola di Concetto Marchesi, altro tipico, tipicissimo intellettuale italiano di sinistra.
Il fatto è che la cultura italiana è stata egemonizzata dalla sinistra per circa settant’anni; fino alla caduta del comunismo in Unione Sovietica, e anche oltre (perché i nostri intellettuali erano, e sono, più realisti del re). Prima, per vent’anni, erano stati, in larga maggioranza, fascisti, pochi, come Indro Montanelli, lo hanno ammesso lealmente; alcuni hanno tirato fuori, come un’attenuante, la faccenda del “fascismo di sinistra”, come appunto Vittorini, Romano Bilenchi e Curzio Malaparte (e, quasi, quasi, anche il povero Cesare Pavese, Dio sa come; non lo fece lui, in verità, ma ci provarono gli storici della letteratura, anch’essi quasi tutti marxisti, come Carlo Salinari; e senza poi dimenticare gli storici dell’arte, come Ranuccio Bianchi Bandinelli, già cicerone di Hitler durante la sua visita in Italia nel 1938). Altri ancora hanno sventolato le loro benemerenze di emigrati interni (una assurdità linguistica e concettuale che sono in Italia è stata presa sul serio), a cominciare dal vecchio sultano, don Benedetto Croce, così poco “perseguitato” dal fascismo e così saldamente insediato nel suo feudo di Napoli, che poteva, come un signore medievale, imporre la servitù della gleba a una intera generazioni di giovani storici e filosofi, a livello nazionale.
La maggior parte, comunque, hanno sostenuto di essere sempre stati contrari al fascismo, senza “se” e senza” ma”; perfino quelli che rimasero indisturbati in Italia, che scrissero e pubblicarono durante il Ventennio, e che solo dopo il 25 luglio del 1943 resero pubblico il loro dissenso, la loro opposizione, il loro disprezzo per lo sciagurato regime; perfino quelli, come Ruggero Zangrandi, i quali, forse, avrebbero fatto meglio a tacere, e che si vantarono, sì, d’avere servito il fascismo, ma solo per “minarlo” e indebolirlo dall’interno, insomma per sabotarlo: persino costoro salirono sulla cattedra del giudice, alzarono la voce e pronunciarono, con tono d’incontenibile, fremente indignazione, la loro inappellabile sentenza contro il fascismo, cumulo e punto d’arrivo di tutto un tortuoso percorso di bassezza morale, viltà, opportunismo, cialtroneria (ma sempre da parte degli altri; mai di se stessi).
Insomma: servi per vent’anni del fascismo; servi per settant’anni del marxismo; e ora, felicemente intruppati sotto le accoglienti bandiere del cattocomunismo, il che permette loro di risparmiarsi la pena di abiurare i loro passati errori e anzi, semmai, di sfidare il mondo intero, sostenendo che il tempo ha dato loro ragione e che, alla fine, si è visto da che parte stessero i veri valori: cioè dalla parte del Vangelo; che, guarda caso, avendoli accolti più che a braccia aperte, è come se avesse reso loro testimonianza d’aver servito la Verità, nonostante le vili insinuazioni dei soliti “fascisti”.
Resta il fatto che né allora, né oggi, costoro hanno imparato a fare i conti con il principio di realtà. Essi avevamo torto quando vestivano la camicia nera, perché il fascismo, se pure era sorto con l’intenzione di ricompattare il popolo italiano, diviso e lacerato da ancestrali lotte di fazione, intorno all’idea luminosa della Patria, rappresentata dagli eroi del Piave e di Vittorio Veneto, dai sacrifici sopportati in guerra per la salvezza comune, aveva poi sprecato la sua grande occasione – ma non fu colpa solamente sua – trasformandosi in una banale, retorica, imbolsita dittatura, fatta di slogan e di proclami, dove “tutto veniva cambiato, affinché nulla mai cambiasse”. E lo si vide dopo il 25 luglio del 1943, quando si scoprì che nessuno era mai stato fascista. In Sicilia, fra parentesi, lo si scoprì qualche giorno prima: non appena i primi soldati angloamericani sbarcarono sull’isola e si videro venire incontro frotte di podestà e gerarchi ex fascisti, i quali proclamavano la loro inveterata fede democratica, lamentavano l’oppressione ventennale cui erano stati sottoposti, e leccavano i polsini e gli stivali dei loro provvidenziali e attesissimi liberatori. Ma avevano torto anche durante gli anni dell’egemonia marxista, dal 1945 fin quasi ad oggi. Perché mentre in tutto il mondo, e specialmente in Unione Sovietica, venivano a galla i crimini del comunismo (che non furono soltanto di Stalin, quasi si fosse trattato d’un mero incidente di percorso), solo in Italia gli intellettuali continuavano a farneticare di comunismo, di collettivismo, di Libretti Rossi, di Lunghe Marce; a discettare su Che Guevara e a tener convegni su Antonio Gramsci; solo in Italia essi pretendevano di monopolizzare la vita culturale, dalla poesia al teatro, dal cinema alla pittura, rifiutandosi di vedere e di ascoltare tutto ciò che non rientrava nel loro quadretto idillico della lotta di classe e della dittatura del proletariato. Solo in Italia si rifiutavano di leggere Solženicyn o di trarre le debite conclusioni dal modo in cui erano stati trattati Bulgakov o Pasternak. E solo in Italia si continuava a presentare Cuba come il Paradiso tropicale dei lavoratori. Sarebbe stato un po’ più onesto dire che il blocco economico statunitense aveva esasperato le tendenze autoritarie che già erano insite nella concezione e  nella prassi politica castrista; invece no: si negava il fatto della dittatura, lo si riduceva a “normale” repressione contro il pericolo d’un ritorno dei nostalgici di Fulgencio Batista. Così, g’intellettuali di sinistra gettavano via anche quella parte di ragione che pur c’era, nei loro ragionamenti: per avere tutta la ragione, negavano il principio di realtà, e si facevano dare torto dai fatti. Ma la realtà non fa sconti; chi nega il principio di realtà è destinato a cadere, e male.
Gl’intellettuali moderni, sempre politicamente corretti, negano il principio di realtà. Le cose che riescono loro sgradevoli – che sono, poi, quelle che riescono sgradevoli alla cultura imposta dal totalitarismo finanziario: ben misero destino, per tutti codesti post-marxisti! – le negano, le aboliscono per decreto, fanno finta che non esistano. Arrivano, forse, a non vederle davvero. La malattia, la vecchiaia e la morte, per esempio: sono sgradite alla cultura edonista e materialista oggi imperante; dunque, le si nega. E le si esorcizza. Come si fa ad esorcizzare la malattia? Attaccandosi all’idea di una scienza medica che sconfigga, una dopo l’altra, tutte le malattie; oppure negando la malattia stessa, come nel caso di quella mentale. Ma la malattia non è la somma delle varie malattie: lemalattie si possono sconfiggere; la malattia, no. Fa parte dell’uomo, che è una creatura e, quindi, imperfetto. Ma ciò non piace a quei signori. Dunque, bisogna esorcizzarla. La vecchiaia piace ancor meno; dunque, cancellata anch’essa. Recitava lo slogan di un manifesto pubblicitario, a Milano, una ventina d’anni fa, giunta rosso-verde (lo notava Vittorio Messori): Vecchio sarai tu! E lo gridavano, con arroganza, degli ultrasettantenni. Truccati da vecchi-non vecchi; pardon, da “anziani” non veramente anziani. Perché non si deve dire a nessuno: vecchio; sarebbe un’offesa; bisogna dirgli: anziano. Quello, è rispetto. E poi sbatterlo in casa di cura, affinché non rompa le scatole con la sua fastidiosa presenza (fastidiosa, perché bisognosa di assistenza). Basta cambiare le parole, e il gioco è fatto: un vecchio non è più vecchio, ringiovanisce; un handicappato non è più tale, se si chiama disabile, o meglio ancora, diversamente abile: e il gioco è fatto. La morte, poi: lo scandalo degli scandali. Come! Dopo tanta idolatria dell’ego, bisogna crepare e lasciar tutto ai vermi? Oibò, non sia mai: dunque, vietato parlare della morte! Vietato, soprattutto, pensarci seriamente.
Questa è la differenza fra chi è uomo, e chi no. Gli uomini si confrontano con il principio di realtà; e riconoscono d’aver sbagliato, quando se ne sono allontanati. Gli altri, no: continuano a litigare con i fatti, a dar torto ai fatti (cioè all’universo mondo), per sentirsi sempre i nobili araldi della Verità…

Uomini e no

di Francesco Lamendola

BENIGNI E DANTE

    Benigni, Zeffirelli Dante e l'inguaribile prosopopea degli intellettuali. Da Petrarca in poi gli intellettuali italiani sono stati dei cortigiani nel senso letterale della parola non hanno mai perso l'antico vizio di leccare il sedere di F. Lamendola  
  

Recentemente, in una recente intervista , il regista Franco Zeffirelli si è espresso con toni sprezzanti e arroganti nei confronti delle letture dantesche del comico Roberto Benigni. Il succo del discorso era che il gran padre Dante è una cosa seria e bisogna lasciarlo alle persone serie; e che, se il poeta fiorentino tornasse in vita e assistesse a una serata dantesca di Benigni, ne resterebbe inorridito. Anche perché Benigni è di Prato e l'accento di Prato, per recitare Dante, "è una bestemmia, sa di  montanari dell'Appennino e non di Firenze". Figuriamoci, aggiungiamo noi, se si azzardasse a recitare Dante un attore di Torino o di Palermo!
Ora, siamo d'accordo sul fatto che Benigni, quando legge Dante, lo fa senza mai riuscire del tutto a spogliarsi di quel tono toscaneggiante dai sottintesi umoristici, che è lo stile abituale del comico di professione. Tuttavia, prima di liquidarlo con tanta supponenza, dovremmo soffermarci a fare qualche breve, semplice riflessione.
Certamente Dante è uno scrittore polisenso: che si offre, su diversi piani di poesia e di filosofia, a differenti generi di lettori. Dire che è uno scrittore per tutti, farebbe semplicemente ridere. Però egli volle essere anche, su un piano più semplice e immediato, uno scrittore per il popolo: altrimenti non avrebbe scelto di scrivere la Commedia in volgare, cosa che gli intellettuali del tempo non gli perdonarono mai. Tant'è vero che non solo non gli concessero il lauro poetico, ma neppure un qualunque insegnamento universitario: mai. Non era degno di insegnare nelle università italiane, secondo loro; non aveva i titoli. In effetti, la sua colpa era grave: non aveva la puzza sotto il naso, il gran padre Dante, come ce l'hanno alcuni suoi scudieri, autoproclamatisi censori e custodi della Cultura con la "c" maiuscola.
Più in generale, questo episodio - di per sé quasi insignificante - ci offre l'occasione per svolgere una riflessione sul ruolo (mancato) degli intellettuali italiani come promotori di una sana e bene intesa cultura popolare. Tale dovrebbe essere la loro funzione naturale, si dirà; ma, da noi, quel che dovrebbe essere ovvio e naturale non lo è mai.
Prendiamo il caso della musica leggera. In Francia c'è stata la splendida stagione degli chansonnier (che, indirettamente, ha promosso la stagione dei cantautori italiani, specialmente genovesi): musica raffinata, ma pur sempre popolare: un ponte fra la "cultura alta" e quella "bassa". Un signor ponte, in verità. Oppure prendiamo il caso del cinema; si pensi ai film di René Clair o, più recentemente, di Eric Rohmer: cinema d'autore, coi fiocchi; ma cinema capace di dialogare anche con un pubblico popolare, di interessarlo, di avvincerlo. S'intende che un film di Clair o di Rohmer può essere usufruito a diversi livelli di complessità: in ogni caso, sono opere che non respingono lo spettatore privo di una specifica cultura cinematografica, ma che, al contrario, lo attraggono e, in qualche misura, lo educano.
Da noi, no.
Da noi gli intellettuali scrivono, dipingono, compongono musica e fanno teatro non per il pubblico, ma per gli altri intellettuali. Se la fanno e se la godono tra di loro.
E il popolo? Per lui ci sono i sotto-intellettuali, i mestieranti, i guitti, i buffoni che gli ammanniscono prodotti scadenti confezionati su misura. Da noi, tanto per fare un esempio, si passa direttamente dalle altezze sublimi di Fellini, dagli ermetismi di Bertolucci e dalle raffinatezze di Visconti alle centinaia di filmetti e filmacci per militari in libera uscita, popolati dalle inesauribili grazie di Edwige Fenech (prima maniera), Anna Maria Rizzoli e Nadia Cassini o dalle smorfie e boccacce di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.
Intendiamoci: nulla di male a girare filmetti come quelli di Franchi e Ingrassia; il male è quando tutta la produzione cinematografica, eccezion fatta per alcuni capolavori e film "impegnati" d'autore, si esaurisce su quel livello; o, magari, scende ancora più in basso. Questo è il male: che gli intellettuali di nome non abbiano cercato, almeno qualche volta, di parlare il linguaggio delle classi popolari; e che queste ultime siano state interamente abbandonate alla sottocultura del disimpegno,  nelle sue forme più banali e grossolane.
Oppure, prendiamo il caso della letteratura. Dai virtuosismi sperimentalistici della narrativa di Gadda e della poesia di Zanzotto, si precipita direttamente ai "gialli" tascabili da leggere in treno o ai "rosa" per commesse romantiche in attesa del Principe Azzurro.
Ogni qual volta uno scrittore di talento ha provato a scegliere un registro linguistico fruibile anche al livello di un pubblico più semplice, è stato coperto d'insulti e di sberleffi dai suoi intelligentissimi e impegnatissimi colleghi "seri". 
Chi non ricorda la definizione di "Liala" data dal Gruppo 63 a Giorgio Bassani e a Carlo Cassola? Eppure, Bassani e soprattutto Cassola erano due scrittori tutt'altro che banali. Osiamo dire che Carlo Cassola è stato uno dei più grandi narratori italiani del Novecento; e non solo ne Il taglio del bosco (sulla cui eccezionale qualità di scrittura tutti convengono), né solo per l'arci-famoso La ragazza di Bube(portata al successo dal film interpretato da Claudia Cardinale), ma proprio per quei romanzi intimisti e "minimalisti" che tanto i suoi arcigni detrattori gli rimproveravano: Storia di Ada, Un cuore aridoGisella. È stato grande perché ha saputo fare poesia, e altissima poesia, con gli ingredienti più semplici e disadorni che si possano immaginare. Chi, nei suoi romanzi psicologici, non ha saputo vedere altro che malinconie crepuscolari e monotoni interni piccolo-borghesi privi d'interesse umano, non ha capito proprio niente. Non occorre trattare la guerra di Troia per fare della grande letteratura.
Come per la pittura di Carlo Carrà: non è il soggetto augusto che crea la grande opera; è il genio poetico che rende sublime anche il soggetto più umile.
E dal momento che abbiamo nominato Liala, vogliamo dire un'altra cosa: che se Liala ha avuto milioni di lettrici (e, magari, di lettori) - come, del resto, e prima di lei, li ha avuti Carolina Invernizio - forse, dopotutto, se li è anche meritati. Certo i suoi romanzi sentimentali erano pieni di luoghi comuni e di situazioni sdolcinate; però non erano volgari, non erano stupidi e non erano nemmeno scritti tanto male. Non tutti possono toccare le corde del sublime come Eco o Sanguineti; non tutti possono fare del romanzo una miccia per innescare l'immancabile rivoluzione, come Balestrini.
E qui, è inevitabile, giungiamo a toccare un altro aspetto della spocchia aristocratica dei nostri intellettuali: il predominio insindacabile di una casta di artisti, e soprattutto di critici, di formazione marxista che, dopo il cinquantennio del sultanato intellettuale idealista di Benedetto  Croce, ci ha regalato un altro cinquantennio di regno incontrastato del mito comunista, peraltro in una delle sue versioni più mediocri: quella togliattiana e sub-staliniana.
Per cinquant'anni sono stati giudicati belli solo i quadri di Guttuso, solo i romanzi di Moravia, solo i film di Scola. Ufficialmente perché erano opere impegnate, che riflettevano le lotte e le problematiche del popolo lavoratore lanciato verso la sua irresistibile liberazione o perché fustigavano, con inflessibile intransigenza, i vizi palesi e nascosti della borghesia nostrana; in realtà, perché erano iscritti -honoris causa - alla confraternita degli intellettuali "promossi" dal tribunale dei critici neo-stalinisti. Non occorre fare nomi; tanto li sappiano tutti. E non importa che i quadri di Guttuso, specialmente quelli di soggetto sociale, siano - guardati con mente sgombra da pregiudizi ideologici - tutt'altro che dei capolavori; che i romanzi di Moravia, tolti Gli indifferenti, siano men che mediocri, quando non scadono addirittura nella più sciatta pornografia; e che non tutti i film di Scola siano all'altezza della sua fama.
Per parecchi decenni, tutto ciò che non era problematica sociale, tutto ciò che non sapeva di critica marxista era robaccia reazionaria o, nel migliore dei casi, "arte individualistica", "narcisismo piccolo-borghese", "degenerazione intimistica e decadente". Alberto Asor Rosa e Carlo Salinari presiedevano questo tribunale ideale del politicamente corretto e decidevano chi meritava il biglietto immediato per il Paradiso degli artisti, chi per il Purgatorio (ancora affetto da decadenza borghese, tuttavia rivedibile) e chi, senza pietà, per il fondo dell'Inferno.
Ma, proprio come i gesuiti dei bei tempi andati, questi critici inesorabili potevano salvare anche l'artista più ferocemente reazionario, purché si convertisse e abiurasse la fede passata: tale fu il caso di Curzio Malaparte, primo della serie. Lui, però, era famoso già sotto il Ventennio e perciò doveva fare pubblica abiura; altri, molti altri, sono riusciti a sgattaiolare dalla parte "giusta" risparmiandosi la pubblica umiliazione; oppure sostenendo, senza batter ciglio, di aver solo fatto finta di adulare il Fascio, mentre in realtà aspettavano il momento giusto per mostrare tutto il loro coraggio. Quante code di paglia, nel panorama degli intellettuali italioti dopo il 1945! Consigliamo una lettura altamente istruttiva in materia: il libro di Nino Tripodi Intellettuali sotto due bandiere, con un lungo (e malinconico) elenco di nomi e cognomi.
Viceversa i relapsi, coloro che, ammoniti una prima volta dalla Santa Inquisizione marxista, perseveravano nell'eresia e ricadevano nell'errore, non meritavano alcuna pietà e ogni mezzo era buono per distruggerli, moralmente e materialmente. Tale fu il destino riservato a Ignazio Silone - che, come scrittore, valeva cento volte più di Moravia - e anche a Pier Paolo Pasolini, ma non tanto - nel suo caso - per ragioni ideologiche, quanto moralistiche: non gli perdonarono mai la sua dichiarata omosessualità. Perché, anche in questo, i sultani del marxismo nostrano somigliavano terribilmente ai gesuiti dell'epoca d'oro dell'Index librorum prohibitorum: per il loro assoluto, roccioso, granitico puritanesimo; anche e specialmente in materia sessuale.
Certo, quei tempi sono finiti, ma i danni che ha subito la cultura popolare in Italia sono stati immensi e, forse, irreparabili. Anche in questo campo le classi dirigenti nostrane hanno mancato clamorosamente alla loro funzione storica:  mai hanno saputo o voluto tentare un dialogo con le classi popolari, se non con la mente ingombra di pregiudizi paternalistici. Ad ogni modo, Alessandro Manzoni, nel suo sforzo di scrivere un romanzo che fosse nazionale e popolare, sia per la lingua che per i contenuti, fa molta più bella figura di tutti i puristi di ieri e di oggi, che vorrebbero imbalsamare le nostre glorie letterarie come tante mummie e metterle dietro una teca di cristallo, in modo che neppure l'alito del volgo ignorante le possa infastidire.
Torniamo al punto da cui eravamo partiti, e ci avviamo a concludere.
Zeffirelli trova scandaloso che un comico come Benigni legga Dante agli Italiani?
Noi, invece, troviamo scandaloso che in Italia siano proprio dei comici a dover supplire, in campo culturale così come in campo politico - e qui pensiamo a Beppe Grillo - alla colpevole latitanza di coloro che, per professione, dovrebbero fare cultura e dovrebbero fare critica politica: gli intellettuali usciti dalle nostre accademie e dalle nostre università. Sta di fatto che Grillo riempie le piazze d'Italia e Benigni fa registrare ascolti televisivi da record. Certo non è solo oro quello che dicono; ma, perdio, almeno loro si sforzano di innalzare il livello dello spettacolo verso le regioni alte della cultura e della riflessione politico-sociale. Riempiono un vuoto: un vuoto, quello sì, scandaloso.
Gli intellettuali di professione, in questi decenni, sono stati troppo occupati a parlare difficile tra di loro, a imbastire schermaglie civettuole tra di loro, a scambiarsi complimenti avvelenati e a farsi lo sgambetto, mentre fingevano di parlare in nome di una cultura puramente disinteressata. Oppure a scambiare la forma per la sostanza, realizzando film elegantissimi, ma assolutamente poveri di contenuto; e scrivendo libri di filosofia che nessuno riesce a capire, tranne - forse - loro.
In effetti, si tratta di un retaggio storico. Da Petrarca in poi, gli intellettuali italiani sono stati dei cortigiani nel senso letterale della parola; e non hanno mai perso l'antico vizio di leccare il sedere al potente di turno.
Così è stato per secoli e secoli; così è anche oggi: anzi, oggi più che mai. Sono cambiati i padroni, ma il vecchio vizio è rimasto. Leccare il sedere dei potenti e fare cultura solo per gli altri membri della casta, non certo per le classi popolari - se non, forse, a parole: ecco il ritratto, impietoso ma sostanzialmente veritiero, dell'intellettuale italiano medio.
Con qualche onorevole eccezione.
Che conferma la regola.
BENIGNI,  ZEFFIRELLI,  DANTE E  L'INGUARIBILE  PROSOPOPEA  DEGLI  INTELLETTUALI

di Francesco Lamendola
Articolo d'archivio

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