Fine della “riforma della riforma” (/2): una necessaria verifica per “Summorum Pontificum”
Le notizie diffuse nelle ultime settimane dal fronte lefebvriano, le esternazioni imprudenti del Prefetto della Congregazione per il Culto divino e la Nota della Sala Stampa sul rapporto tra “rito ordinario” e “rito straordinario” impongono un supplemente di riflessione.
Circa 9 anni fa, nel luglio del 2007, le disposizioni che il Motu Proprio “Summorum Pontificum” (=SP) introduceva nella esperienza liturgica ecclesiale avevano bisogno di accurata verifica, come lo stesso documento indicava con chiarezza. Possiamo riassumere gli “steps” di quei primi anni in questo modo:
b) Condizionava inoltre la efficacia del MP ad una verifica 3 anni dopo;
c) La verifica fu fatta nel 2010 in una forma molto vaga e precaria, secondo uno stile molto diverso dal quello inaugurato da Francesco. Molti vescovi risposero alla Commissione Ecclesia Dei con la preoccupazione di non “smentire” le intenzioni di Benedetto XVI. Compiacevano il pontefice di allora per conservare la comunione, ma non esprimevano lo stato reale della liturgia diocesana
d) La Istruzione “Universae Ecclesiae” (=UE), l’anno successivo, pretese di ampliare i compiti di SP, quasi facendolo diventare uno strumento pastorale “ordinario”.
Ora, dopo le precisazioni della Nota della Sala Stampa del giono 11 luglio si configura una condizione decisamente nuova. Ciò che la Istruzione UE prevedeva nel 2011 deve essere profondamente rivisto, corretto e modificato. La centralità che tale Istruzione pretendeva di dare al “rito straordinario” è tornata a riguardare la periferia. Occorre provvedere quanto prima a rimettere in equilibrio la esperienza liturgica cattolica.
Di fronte a questa nuova situazione, sarebbero opportune una serie di decisioni, che potrei così configurare:
- una nuova verifica, schietta e sincera, come luogo di parresia ecclesiale, in cui i singoli Vescovi possano liberamente dichiarare quale sia stato l’impatto del MP nella propria diocesi; scopriremmo molte verità che la comunicazione curiale ha provveduto finora a censurare; dovremmo applicare alla liturgia quella schiettezza che papa Francesco ha chiesto in occasione del Sinodo: che i Vescovi esprimano realmente quello che vivono, non quello che pensano possa gratificare i superiori. Questo esige la comunione: dire la verità.
- si dovrebbe evitare che fosse la Commissione Ecclesia Dei a valutare questi giudizi: in molti casi, infatti, questo organo ha dimostrato di non essere affatto “super partes”, ma di orientare ogni sua attività ad una progressiva “espansione” (anche fittizia, persino con la alterazione dei criteri di valutazione) della esperienza di “rito straordinario”. Nella Istruzione UE troviamo esempi preoccupanti di questi criteri “autoreferenziali” di giudizio, che immunizzano la istituzione dalla realtà effettuale.
- occorrerebbe restituire ai Vescovi diocesani la pienezza della autorità in ambito liturgico, superando il regime eccezionale introdotto da SP, e che poteva essere giustificato – possibilmente – solo in vista di una “pace con i lefebvriani”, cosa che oggi risulta decisamente impossibile. Mancando questo presupposto, non ha più senso che il potere dei vescovi in re liturgica sia loro sottratto a favore di una Commissione che non può tener in alcun conto le specificità locali e le esigenze delle singole diocesi.
Questo attuale sviluppo – di necessaria verifica e di nuova decisione – si rende necessario in ragione di una rinnovata istanza di “decentramento”, che contrasta troppo fortemente con l’esautorazione episcopale realizzata prima con SP e poi con UE. Essa onorerebbe anche la esigenza di una chiesa non autoreferenziale, che spesso ha cercato – e ahimè anche trovato – proprio nel rito preconciliare quella “tenda” sotto cui pretendeva di sostare per sempre, chiudendosi sempre più non solo al mondo e alla storia, ma allo stesso Vangelo.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.