Nel numero 160 della nota rivista mensile di apologetica “il Timone” di Febbraio 2017, è stata pubblicata in esclusiva una stupenda intervista al Cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, sulla permanente ed irrinunciabile importanza della Dottrina nella vita della Chiesa, sul suo primato assoluto che va al di sopra e al di là sia dei membri che dei ministri di essa, sul dovere che tutti abbiamo di conoscerla, viverla, difenderla e diffonderla e su come la fedeltà al “depositum fidei" costituisca una delle ragioni di essere della Santa Chiesa di Cristo, nonché il contenuto fondamentale della sua missione nel mondo. Riporto alcuni ampi stralci dell’intervista - realizzata dal Direttore de “Il Timone” dott. Riccardo Cascioli - che mi limiterò a commentare brevemente in un secondo momento (il testo integrale si può leggere nella fonte citata). Le evidenziazioni in neretto di alcuni punti sono mie.
[…] Per noi Dio è l’origine e il fine della nostra esistenza, per questo è necessario sapere ciò che Dio ha rivelato: è la cosa più importante per la creatura umana. Sapere da dove vengo e dove sono diretto, qual è il senso della sofferenza, della morte. E’ segno di una speranza che va al di là dei limiti che sperimentiamo nella nostra vita finita e debole.
Il Catechismo ci dice cosa credere nel Simbolo, cosa fare nei comandamenti, come unirci a Dio nella fede, speranza e amore, mediante la preghiera (Padre Nostro), come ricevere la grazia santificante nei sette sacramenti. Dio si è rivelato nella Sua Parola incarnata, Gesù Cristo, e questo significa che noi possiamo partecipare della conoscenza che Dio ha di sé stesso: conoscere Dio è la prima dimensione fondamentale della fede, perché la fede non è solo un sentimento religioso, una fiducia irrazionale, ma la fede è innanzitutto una conoscenza di Dio. Questo non significa vuoto intellettualismo, perché c’è sempre un’unità tra il conoscere Dio e amare Dio. Si tratta quindi di conoscere una persona intimamente, con la volontà di accettare ciò che è l’Altra Persona, ciò che Dio è nella Sua realtà Trinitaria, comunione di amore del Padre, Figlio e Spirito Santo. Per tutta la vita abbiamo bisogno di una catechesi, di una introduzione permanente - intellettuale e con il cuore - ai misteri divini che sono i misteri della vita. La dottrina dunque è la base per tutta la vita della Chiesa, altrimenti la Chiesa rimane solo una Onlus, una organizzazione caritativa come tante. L’identità della Chiesa invece è di essere Corpo di Cristo, chiamata a condurre tutti gli uomini verso l’incontro con Dio in questa vita e anche nella vita eterna. Per questo la dottrina è assolutamente necessaria per la salvezza e per l’eterna felicità dell’uomo in Dio.
Negli ultimi decenni la “dottrina” non ha avuto quella che possiamo definire “una buona stampa”. Spesso viene presentata come una serie di leggi, pesi insopportabili sulle spalle degli uomini, moralismo su ciò che si può o non si può fare. Quello che lei dice ribalta la questione.
Questa brutta nomea della dottrina è una eredità del razionalismo del XVIII secolo. La pretesa della religione di capire tutto del mondo, ma di essere impotente nei confronti del trascendente, ha ridotto la fede a un semplice sentimento valido per i semplici. Oppure la fede è vista come un giudizio soggettivo che arriva solo dopo che la religione ha riconosciuto il suo limite. La filosofia di Immanuel Kant, per esempio, ha negato la dimensione razionale della fede riducendola soltanto a un punto di riferimento per la morale. E la Rivelazione diviene così sostanzialmente superflua.
Per rispondere a queste derive filosofiche già il Concilio Vaticano I nella Costituzione “Dei Filius” ha chiaramente esposto la mutua relazione tra ragione e la fede, a partire da una ragione capace del soprasensibile. Quindi, nella teologia cattolica dobbiamo ribadire che la fede è una partecipazione del Logos di Dio, e per questo è sempre necessario sottolineare la razionalità dell’atto di fede. Si tratta di una esigenza importante per il nostro tempo che pretende di sapere tutto della materia e sembra quasi orgoglioso di essere ignorante per ciò che riguarda gli interrogativi capaci di dare un senso all’esistenza. La fede ci fa credere in Dio alla luce del Verbo incarnato e in forza dello Spirito Santo mediante la testimonianza della Chiesa (Bibbia, Tradizione e Magistero).
Si dice spesso, giustamente, che il fedele deve essere in ascolto della Parola. Ma comunemente si tende ad identificare la Parola con la Sacra Scrittura. Non è una visione riduttiva della Parola di Dio?
Certo. Noi non siamo una religione del libro, ma si tratta della Parola predicata in Gesù Cristo e della Parola di Dio nella Sua Scrittura. Gesù non ha scritto la Sacra Scrittura, Lui è la Parola viva di Dio. La Sacra Scrittura è il primo e fondamentale testimone della Parola di Gesù Cristo, ma nel contesto della testimonianza di fede degli apostoli e della Chiesa primitiva. La Chiesa è l’auditrice della Parola, e questa Parola adesso è presente nella coscienza della fede della Chiesa, intesa però non come un semplice archivio, ma come una ricerca dentro al cuore vivo della Chiesa che ritrova, nel passare delle generazioni, quella stessa Parola. Una Parola intesa solo come Sacra Scrittura è riduttiva e non cattolica.
Purtroppo il protestantesimo ha voluto sottovalutare il valore della viva tradizione della Chiesa. La Rivelazione è certamente presente nella Bibbia in modo unico e fondamentale, ma anche nella vita della Chiesa, negli scritti dei Padri, nei grandi concili, nella vita sacramentale. I sacramenti non sono semplicemente una memoria, lì il Cristo è presente, realmente e concretamente.
Se le cose stanno così, nella prospettiva dell’unità dei cristiani, la dottrina sembra diventare un ostacolo. Basti pensare ai sette sacramenti…
Per noi i sette sacramenti non sono un problema. Certamente non dobbiamo giustificarci perché abbiamo questi sette sacramenti, in quanto il loro riconoscimento è venuto dalla vita della Chiesa. Per la Chiesa Cattolica questi sette segni non solo significano la grazia, ma causano la grazia.
Quelli che devono giustificarsi sono i protestanti che hanno negato tutto questo. Non si può dire di accettare la tradizione solo fino a una certa data, come se lo Spirito Santo dopo il concilio di Calcedonia fosse sparito dalla vita della Chiesa. […] Noi dobbiamo sempre ricordare che senza il contesto vivo della Chiesa che è guidata dallo Spirito Santo, la Scrittura finisce per essere solo un documento archivistico. La fede non si costruisce dagli archivi. Per conoscere la fede rivelata occorre rivolgersi alla Chiesa, non all’archivio.
Quindi le differenze tra la Chiesa Cattolica e le altre confessioni cristiane non sono, per così dire, vuote rigidità apologetiche?
La riforma protestante non deve essere semplicemente intesa come una riforma da alcuni abusi morali, ma bisogna riconoscere che andava a incidere sul nucleo del concetto cattolico di Rivelazione. Come è possibile che la Chiesa abbia insegnato per 1500 anni che questi sacramenti sono necessari per la fede e ci si accorge, invece, che la Chiesa avrebbe guidato milioni di fedeli all’errore? Il fondatore della Chiesa l’ha abbandonata per secoli e secoli nel buio? La Chiesa avrebbe guidato le persone all’inferno? Questo non può darsi! Si può sempre riformare la vita morale, le nostre istituzioni, università, le strutture pastorali, è necessario anche sbarazzarsi di una certa “mondanizzazione” della Chiesa: tutto questo possiamo accettarlo dalle istanze della riforma protestante, ma dobbiamo dire che per noi ci sono errori dogmatici fra i riformatori che mai possiamo accettare. Con i protestanti il problema non sta solo nel numero dei sacramenti, ma anche nel loro significato.
L’ecumenismo non può avanzare con il relativismo o nell’indifferenza verso temi dottrinali: per cercare l’unità non possiamo accettare di “regalare” due o tre sacramenti, o accettare che il Papa sia una specie di presidente delle diverse confessioni cristiane.
Un altro argomento oggi di attualità è il rapporto tra dottrina e coscienza personale.
[…] Gli uomini sono chiamati a scegliere tra bene e male. Anche gli animali uccidono altri animali, ma noi siamo posti davanti alla domanda se questo è bene o male. Io so che per la natura della mia coscienza devo fare il bene e fuggire il male, questo è il giudizio fondamentale della legge inserita naturalmente nell’essere e, per noi cristiani, questa è espressamente dichiarata nei dieci comandamenti e nelle beatitudine evangeliche. Questo ci dice lo Spirito Santo, effuso nei nostri cuori, che illumina la mente e conforta la volontà.
Quindi non si può dare una contraddizione tra dottrina e coscienza personale?
No, è impossibile. Ad esempio, non si può dire che ci sono circostanze per cui un adulterio non costituisce un peccato mortale. Per la dottrina cattolica è impossibile la coesistenza tra il peccato mortale e la grazia giustificante. Per superare questa assurda contraddizione, Cristo ha istituito per i fedeli il Sacramento della penitenza e riconciliazione con Dio e con la Chiesa.
E’ una questione di cui si discute molto a proposito del dibattito intorno all’esortazione post-sinodale Amoris laetitia.
La Amoris laetitia va chiaramente interpretata alla luce di tutta la dottrina della Chiesa. Il sacramento della penitenza può accompagnarci verso la comunione sacramentale con Gesù Cristo, ma sono parte essenziale del sacramento della penitenza alcuni atti umani, guidati dallo Spirito che devono essere rispettati: la contrizione del cuore, il proposito di non peccare più, l’accusa dei peccati e la soddisfazione. Quando manca uno di questi elementi, o il penitente non li accetta, il sacramento non si realizza.
Questa è la dottrina dogmatica della Chiesa, indipendentemente dal fatto che la gente possa accettarla o meno. Noi siamo chiamati ad aiutare le persone, poco a poco, per raggiungere la pienezza nel loro rapporto con Dio, ma non possiamo fare sconti.
Non mi piace, non è corretto che tanti vescovi stiano interpretando Amoris laetitia secondo il loro proprio modo di intendere l’insegnamento del Papa. Questo non va nella linea della dottrina cattolica. Il magistero del Papa è interpretato solo da lui stesso tramite la Congregazione per la Dottrina della fede. Il Papa interpreta i vescovi, non sono i vescovi a interpretare il Papa, questo costituirebbe un rovesciamento della struttura della Chiesa Cattolica. A tutti questi che parlano troppo, raccomando di studiare prima la dottrina sul papato e sull’episcopato nei due concili vaticani, senza dimenticare la dottrina sui sette sacramenti (il Concilio Lateranense IV, di Firenze, di Trento e il Vaticano II). Il Vescovo, quale Maestro della Parola, deve lui per primo essere ben informato per non cadere nel rischio che un cieco conduca per mano altri ciechi. Così la lettera a Tito: “Il Vescovo deve essere fedele alla Parola, degna di fede che gli è stata insegnata, perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare i suoi oppositori” (Tt 1,9).
Però a questo proposito si parla spesso della possibilità di sviluppo del dogma. Come deve intendersi questo sviluppo?
La Chiesa è un corpo vivo, lo sviluppo è un movimento per comprendere meglio le profondità dei misteri. Però non è possibile superare dichiarazioni del magistero quando si tratta di dichiarazioni che riguardano la fede divina cattolica rivelata. La Rivelazione è compiuta in Gesù Cristo ed è presente nel depositum fidei degli apostoli. Abbiamo tante riflessioni sul tema dello sviluppo del dogma, come ad esempio quella del Beato J. H. Newman, o quella offerta dallo stesso Joseph Ratzinger. Qui possiamo trovare espresso il significato dello sviluppo del dogma in senso cattolico, per difendersi dal modernismo evoluzionista da una parte e dal fissismo dall’altra. Si deve dare uno sviluppo omogeneo nella continuità e non nella rottura. Ciò che è definito dogmaticamente non può essere smentito in alcun modo: se la Chiesa ha detto che ci sono sette sacramenti, nessuno, nemmeno un concilio potrebbe ridurre o modificare il numero o il significato di questi sacramenti. Chi vuole unirsi alla Chiesa Cattolica deve accettare i sette sacramenti come mezzi della salvezza.
Il fondamento per la omogeneità dello sviluppo del dogma è la preservazione dei principi base: l’arianesimo non è sviluppo sul dogma dell’incarnazione, ma è corruzione della fede. Così la Chiesa ha chiaramente espresso il riconoscimento del matrimonio come una unione indissolubile tra un uomo e una donna. La poligamia, ad esempio, non è uno sviluppo della monogamia, ma ne è la sua corruzione. Per questo possiamo dire che la Amoris laetitia vuole aiutare le persone che vivono una situazione che non è in accordo con i principi morali e sacramentali della Chiesa cattolica e che vogliono superare questa situazione irregolare. Ma non si può certo giustificarli in questa situazione. La Chiesa non può mai giustificare una situazione che non è in accordo con la volontà divina.
L’esortazione di san Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, prevede che le coppie di divorziati risposati che non possono separarsi, per poter accedere ai sacramenti devono impegnarsi a vivere in continenza. E’ ancora valido questo impegno?
Certo, non è superabile perché non è solo una legge positiva di Giovanni Paolo II, ma lui ha espresso ciò che è costitutivamente elemento della teologia morale cristiana e della teologia dei sacramenti. La confusione su questo punto riguarda anche la mancata accettazione dell’enciclica Veritas Splendor con la chiara dottrina dell’intrinsece malum [cioè sugli atti “intrinsecamente cattivi”, n.d.r.].
Diciamo in generale che nessuna autorità umana può accettare ciò che è contro l’evidente volontà di Dio, dei suoi comandamenti e della costituzione del sacramento del matrimonio. Ricordiamo che il matrimonio è un vincolo sacramentale che si imprime quasi come il carattere del battesimo: fino a quando i coniugi sono vivi questo vincolo matrimoniale è indelebile. In questo le parole di Gesù sono molto chiare e la loro interpretazione non è una interpretazione accademica, ma è Parola di Dio. Nessuno può cambiarla. Non bisogna cedere allo spirito mondano che vorrebbe ridurre il matrimonio a un fatto privato. Oggi vediamo come gli Stati vogliano introdurre una definizione di matrimonio che nulla ha a che vedere con la definizione del matrimonio naturale, e dobbiamo anche ricordare che per i cristiani vale la prescrizione di sposarsi nella forma della Chiesa: dicendo sì per sempre e solo a un “tu” esclusivo. Per noi il matrimonio è l’espressione della partecipazione dell’unità tra Cristo sposo e la Chiesa sua sposa. Questa non è, come alcuni hanno detto durante il Sinodo, una semplice vaga analogia. No! Questa è la sostanza del sacramento, e nessun potere in Cielo e in Terra, né un angelo, né il Papa, né un concilio, né una legge dei vescovi, ha la facoltà di modificarlo.
Come si può risolvere il caos che si genera a causa delle diverse interpretazioni che vengono date di questo passaggio di Amoris laetitia?
Raccomando a tutti di riflettere, studiando prima la dottrina della Chiesa, a partire dalla Parola di Dio nella Sacra Scrittura che sul matrimonio è molto chiara. Consiglierei anche di non entrare in alcuna casuistica che può facilmente generare malintesi, soprattutto quello per cui se muore l’amore, allora è morto il vincolo del matrimonio. Questi sono sofismi: la Parola di Dio è molto chiara e la Chiesa non accetta di secolarizzare il matrimonio.
Il compito di sacerdoti e vescovi non è quello di creare confusione, ma quello di fare chiarezza. Non ci si può riferire soltanto ai piccoli passaggi presenti in Amoris laetitia, ma occorre leggere tutto l’insieme, con lo scopo di rendere più attrattivo per le persone il Vangelo del matrimonio e della famiglia. Non è Amoris laetitia che ha provocato una confusa interpretazione, ma alcuni confusi interpreti di essa. Tutti dobbiamo comprendere ed accettare la dottrina di Cristo e della Sua Chiesa e allo stesso tempo essere pronti ad aiutare gli altri a comprenderla e a metterla in pratica anche in situazioni difficili. Il matrimonio e la famiglia sono la cellula fondamentale della Chiesa e della società, per ridare speranza a un’umanità affetta da un forte nichilismo occorre che questa cellula sia sana.
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L’intervista, come accennavo, non ha bisogno di commenti, per la sua straordinaria chiarezza ed assoluta impeccabilità sul piano dottrinale e dogmatico, anche come chiarimento di alcuni equivoci e polemiche che si vanno ingenerando a causa di chi, come afferma il Cardinale, a volte parla senza aver sufficientemente riflettuto e soprattuto studiato la sana dottrina della Chiesa, mentre farebbe bene a ricordare che compito (soprattutto) di sacerdoti e vescovi è fare chiarezza, non ingenerare confusione (criterio a cui, personalmente, ho sempre cercato di attenermi nell’adempimento del mio ministero).
In realtà, dietro queste splendide affermazioni, c’è un problema di fondo che è, a mio avviso, uno dei più grandi problemi che affliggono la Chiesa da oltre mezzo secolo: quello ermeneutico.
Molti anni fa, quando ancora ero seminarista, un esponente di rilievo di un noto movimento cattolico, biasimando alcuni miei dubbi, perplessità e domande che mi portavo dietro nel constatare tanta confusione e varie incongruenze, mi disse queste agghiaccianti parole: “caro Leonardo, tu non hai capito che la Chiesa è cambiata!”. Cosa?!?!? Cambiata la Chiesa?!?!? Ero seminarista e cominciai a chiedermi se davvero la Chiesa poteva “cambiare” (cosa di cui nell’intervista il Cardinal Müller parla in relazione all’ipotetico “sviluppo del dogma”). Del resto si sentiva da più parti interpretare il Concilio Vaticano II come una sorta di “punto zero”, nel senso che tutto ciò che c’era prima era da buttare, una sorta di letargo cominciato nell’era “constantiniana” (così la chiamavano certi teologi, riferendosi al momento in cui il Cristianesimo divenne religione dapprima tollerata poi ufficiale dell’Impero Romano) e finalmente terminato con la luce del Concilio. Mi ricordo che trascorsi un’estate intera a rileggere tutti i documenti del Concilio Vaticano II, dalla prima sillaba di Sacrosanctum Concilium (la prima costituzione conciliare) all’ultima parola della Gaudium et Spes (l’ultima). Ne rimasi edificato, ma non trovai nulla di così “rivoluzionario” nella pacatezza delle affermazioni conciliari. Indubbiamente c’era un linguaggio rinnovato, qualche prospettiva più consona ai tempi contemporanei, certamente anche qualche “apertura” (come oggi le si ama chiamare), ma, dentro la grande Tradizione di 2000 anni di storia, il Concilio appariva come un nuovo tassello, una nuova pietra nell’edificio spirituale, non una nuova costruzione eretta dopo che qualche strano “caterpillar” o “bulldozer” avesse provveduto a fare piazza pulita di tutto.
Benedetto XVI (per la verità già fin da quando era semplicemente il cardinale Ratzinger) avrebbe sintetizzato questo corretto approccio con la famosa espressione “ermeneutica della continuità”, che rappresenta la bussola da seguire in ogni situazione e il criterio unico da applicare per la soluzione di ogni apparente problema, controversia, confusione o “strana novità”. Come nota il Cardinale, non si può fermare l’azione dello Spirito Santo al Concilio di Calcedonia, oppure mettere in giro la persuasione che la Chiesa per 1500 anni avrebbe insegnato l’errore e indotto gli uomini a peccare. Domanda: è mai possibile una cosa del genere? Può Dio permettere una cosa tanto grave? E se questo fosse vero, con quale criterio si stabilisce un Concilio vero da uno falso, un papa buono da uno cattivo? Non ci si rende conto che con ciò si distruggerebbe istantaneamente tutta la Chiesa cattolica? Se infatti un solo Concilio fosse anche solo “sospetto”, io non potrei fidarmi dell’autorità di nessuno di essi, perché tutti potrebbero essere “sospetti”. Certi ambienti tradizionalisti sembrano affermare che i papi “buoni e validi” si siano fermati a Pio XII. Ma è mai possibile una farneticazione del genere? Se gli ultimi Papi fossero “falsi o fasulli”, chi potrebbe garantirmi che gli oltre duecento precedenti siano tutti veri?
La verità è molto più semplice: ogni Concilio e ogni Papa (con il suo Magistero) - tutti, nessuno escluso - sono da accogliere nella loro totalità, interezza e continuità, in base all’antico adagio “semel verum, semper verum”. E quando, in qualche documento, si dovessero incontrare espressioni un poco ambigue, talora non sufficientemente chiare (per tante ragioni), sempre e comunque devono essere lette alla luce del contesto intero della Dottrina Cattolica autentica e del depositum fidei, che non è a disposizione di nessuno, ma a cui tutti devono obbedienza e sottomissione.
La Chiesa ha passato tanti momenti difficili. Chi studia la storia della Chiesa lo sa bene. Cosa fare in questi momenti? Rimanere nella Chiesa e sempre ad essa fedeli, stare sempre con la Chiesa e difenderla ed essere sempre ad essa docili, soggetti, obbedienti, come umili servitori (cioè “in Ecclesia, cum Ecclesia e sub Ecclesia”). San Francesco visse in un tempo non certo aureo per la Chiesa. Eppure protestò obbedienza e rispetto verso tutte le autorità ecclesiastiche (compresi i sacerdoti notoriamente libertini, a cui amava baciare lo zoccolo del cavallo), pur avendo ricevuto da Gesù in persona il compito di “riparare la sua casa che andava in rovina”. Come ha fatto? Non con la critica, non con il disprezzo, non con il giudizio verso autorità ecclesiastiche, pur talora (ai suoi tempi) evidentemente e palesemente corrotte. Ma rimanendo nella Chiesa, stando sempre con la Chiesa e ad essa soggetto e cercando di fare le uniche cose utili al suo progresso e alla sua riforma: una vita intensissima di preghiera e penitenza, unitamente ad una predicazione sobria, semplice, essenziale e fedele alla Dottrina di sempre, che provocò infinite conversioni e tanta chiarezza in tanti cuori. Non c’è altra via, a mio avviso, benedetta dal Signore, per aiutare la Chiesa nella sua continua opera di crescita e di riforma di se stessa. Non c’è mai stata. E mai ci sarà.
Pubblicato da Don Leonardo Maria Pompe
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