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giovedì 6 aprile 2017

Lo sanno forse le teologhe?

Cattive maestre: Cristina Simonelli e le teologhe italiane (prima parte) – di Marco Manfredini


Il contributo femminile al disorientamento teologico.   

Un giorno, passando casualmente davanti ad una libreria delle paoline, sono entrato per vedere se vi fosse qualche pubblicazione interessante. Quasi subito il mio occhio è stato colpito da una copertina arancione chiaro con un titolo che evocava qualcosa di piuttosto familiare. Era “Dio, patrie, famiglie”.
L’ho preso in mano, qualcosa non mi tornava. Non erano al singolare tutte e tre le parole una volta? Era stata aggiornata anche la famosa triade di antica memoria, e nessuno mi aveva avvertito? Sottotitolo: “le traiettorie plurali dell’amore”. Inizio ad insospettirmi. Nome dell’autrice: Cristina Simonelli. Chi è costei? Leggo: Presidente delle teologhe italiane.
Come? Esiste un’associazione delle teologhe italiane? Beh, se esiste il ministero per le pari opportunità – ho pensato – può esistere anche l’associazione delle teologhe italiane. Un ente inutile non si nega a nessuno in fondo. Titolo e sottotitolo del libro e titolo dell’autrice non promettevano niente di buono, quindi ho abbandonato il bizzarro oggetto al suo destino. Ma nei giorni successivi la curiosità di conoscere a che punto era arrivato il pensiero teologico al femminile era troppa: dopo un paio di settimane, cercando di non dare troppo nell’occhio, me ne sono procurato una copia presso la locale biblioteca. Questo ne è il resoconto.

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Andiamo per ordine, perché il libro non annoia e le cose da segnalare sono tante: praticamente ogni pagina è una sorpresa.
Già dalle primissime righe dell’introduzione infatti si respira un’aria di terzomondismo, o meglio, di migrantismo, di femminismo e di obliquità dichiarata:
Anche queste pagine sono dunque “oblique” e le traiettorie che rintracciano sono forse per questo plurali ed inclusive.
L’autrice, mossa da sincero anelito inclusivista, dichiara la sua difficoltà nell’accettare che le si possa dire, come taluni fanno:
Vi rispetto [voi cattolici], ma ormai non mi interessa più quello che pensate di me e della mia situazione familiare.
Evidentemente secondo l’autrice i cattolici, per non urtare gli altri, non dovrebbero più avere il diritto di pensare qualcosa di preciso su una situazione familiare. Non esprimere un giudizio, avere un’idea se una situazione è oggettivamente buona o meno. No, occorre osservareaccettareaccogliere tutto, senza quasi più traccia nemmeno dell’accompagnare e del discernere, non si sa mai che uno accompagni l’errante verso la giusta direzione e discerna che un’idea è cattiva e va rifiutata, cioè gettata nei rifiuti. Una vera e propria mutilazione dell’annuncio salvifico cristiano, travestito da equivoca bontà, la quintessenza del misericordismo così ben rappresentato e incentivato dagli attuali vertici.
C’è, sempre secondo l’autrice, “un debito collettivo” che i cristiani, colpevoli evidentemente di ogni nefandezza moralista, devono sanare nei confronti del mondo.
Si respira tuttavia forte entusiasmo per un nuovo “magistero prismatico”, o un “poliedro di valore”, secondo un’efficace espressione che l’autrice dice provenire dall’A.L.. Espressione che rende bene la molteplicità di idee e di modi di vedere e valutare la realtà che l’autrice ha in mente, e che riconosce come tutti egualmente validi e rispettabili. Tutti, sospettiamo, tranne quelli del magistero tradizionale cattolico, in quanto esclusivo per definizione di quel singolare poliedro. Il massimo per una teologa cattolica.
Secondo questa visione:
[…] se un sistema esclude anche solo una persona è da rifondare e riformulare.
Come la mettiamo se quella persona non vuole essere inclusa nel sistema? Lo riformuliamo in eterno? Gesù ha forse riformulato la verità in modo che piacesse a tutti? La verità include tutti perché riguarda tutti, ma occorre accoglierla com’è, altrimenti diventa qualcos’altro.
In un solco di iper-ortodossia, non alla fede cattolica ma al politicamente corretto, perfino la parola “stranieri” viene messa al bando:
Stranieri: parola-territorio, parola-simbolo, che si rivela tanto insensata quanto pressante. Insensata resta, perché il mondo è, a dispetto delle recinzioni e dei muri, sempre più connesso: per gli spostamenti, inevitabili, ma ancora di più per le reti di comunicazione globale, nonché per le relazioni finanziarie. Eppure, parola presente, insistente, spesso a misura del disagio e dell’ignoranza.
Ma perché snaturare una parola innocua come questa riempiendola di discutibili significati, se non a scopo ideologico? Oggi più che mai sarebbe di utilità riconoscere le differenze tra l’essere “locali” e l’essere “stranieri”, perché non tutte le culture sono assimilabili (molte neanche accettabili), non tutte le provenienze possono garantire pace, integrazione, convivenza. A volte nemmeno sopravvivenza. Sembrerà strano alle teologhe ma nemmeno tutte le religioni sono vere, anzi, si dà il caso contrario, cioè che tutte, a parte una, siano false. Quale cecità porta costoro a non vedere che l’annullamento degli spazi e dei confini si traduce in un annullamento delle identità umane, a tutto beneficio di chi vuole ordo ab chao?
La teologa denuncia che vi sarebbero tutta una serie di frontiere da abbattere: la frontiera dell’ “ossessione identitaria”, quella “delle diverse forme di convivenza familiare”, quella “antropologica che segna le persone sole”… insomma ciò che serve per arrivare ad una società più che liquida, completamente evaporata.
Tramite tale Francesco Remotti (uno dei più stimati antropologi italiani secondo l’UAAR, e par di capire anche secondo la Simonelli), viene reso esplicito che
il senso del nostro discorso non consiste nel sostenere che un tipo di famiglia è “migliore dell’altro”, ma nel far vedere quanti tipi di modelli e di soluzioni familiari esistono nel mondo.
Nell’intento di accettare tutto ciò che è inaccettabile e denigrare l’unica fonte di salvezza per l’uomo, si sostiene inoltre che
[…] la tradizione cristiana sulla questione matrimonio ha anche diversi scheletri nell’armadio: ufficialmente censurate, infatti, le posizioni encratite, che professavano disprezzo nei confronti della realtà materiale e in particolare della sessualità, sono troppo spesso rientrate, per così dire, dalla finestra, quanto meno nelle forme gerarchizzate degli ‘stati di vita’ ecclesiali.
Travisando così completamente il profondo valore del celibato sacerdotale, del voto di castità, così come nascondendo che è stato il cattolicesimo ad elevare l’atto unitivo degli sposi a livelli di significato anche spirituale impensabili prima di Cristo.
L’autrice prosegue poi lamentando il fatto che durante giubileo del 2000 Giovanni Paolo II, nelle sue tante richieste di perdono per atteggiamenti avuti dalla Chiesa, perse l’occasione per un bel mea culpa sul disprezzo cristiano nei confronti della sessualità e del matrimonio, ed elogiando l’A.L. per aver preso distanza dalle precedenti posizioni “sessuofobe”. Accuse che sinceramente hanno qualcosa di grottesco. In una situazione storica in cui la sessualità viene sfruttata, calpestata, mercificata e tocca i suoi più infimi livelli proprio perché l’uomo e la donna, allontanandosi dall’insegnamento cristiano, sono stati ingannati e convinti di poter utilizzare il proprio corpo a piacimento, generando fiumi di miseria, infelicità, e sangue (dei figli abortiti), si rimprovera la Chiesa di aver fatto il suo mestiere cercando di evitare tutto ciò, intimandole di sottomettersi alla malvagità del mondo scristianizzato.
Dopo essersi rallegrata che la presenza della Santa Famiglia di Nazareth nell’A.L. Sia “sobria” e “poco retorica” (cioè molto diluita e resa inoffensiva), la Simonelli cerca di interpretare quella presenza in chiave dissacratoria, se non apertamente blasfema, descrivendo Maria come la “compagna” (sic) di Giuseppe, dando credito a “narrazioni parallele” che parlano di come Gesù fosse figlio di “un soldato di passaggio”, o di una “violenza subita”, o altre leggende ancor più ridicole.
La Santa Famiglia viene descritta dunque come “imperfetta”, e già che ci siamo, ovviamente, anche “irregolare”. Del resto anche la genealogia di Gesù è piuttosto “obliqua” (sic), figurando in essa delle donne di dubbia serietà, una prostituta (Rahab), due “madri surrogate” (sic, intendendo le schiave che partorirono al posto delle mogli).
Visto? – protesta l’autrice – Anche la famiglia di Gesù era allargata, era “di quelle che anche in questa stagione ecclesiale non si aggirano con disinvoltura fra le coppie di un gruppo parrocchiale”.
La Santa Famiglia diventa “un’icona spaziosa” (sic) “che può accogliere tutti, senza invidia, senza arroganza”. Alzi la mano chi ha mai intravisto nella Santa Famiglia “invidia” e “arroganza”, ma dire che possa “accogliere tutti” senza aggiungere subito dopo “quelli che si convertono”, fa intuire di una teologia che ha veramente perso, oltre la fede, anche il lume della ragione.
Impressione confermata dall’insinuazione che quando nel Vangelo di Matteo si parla di fratelli e sorelle di Gesù, potrebbero essere “figli normalmente concepiti dopo la prima straordinaria gravidanza”, oppure “figli di primo letto di Giuseppe”. Dov’è il problema? Al massimo saltano un dogma e  l’insegnamento tradizionale di una manciata di secoli.
Ma non è tutto:
Al di là di questo aspetto, interessa qui sottolineare il tratto di relativizzazione delle consuetudini e di riformulazione dei rapporti familiari, sociali e di genere che mostra il rabbi di Nazareth: qualunque sia la forma di ‘famiglia allargata’ in cui è inserito, ne prospetta il superamento e la riconfigurazione.
Dove non è ben chiaro se stia parlando di Gesù o di Pannella. Avrei detto quest’ultimo, se non avessi ritenuto improbabile il suo recarsi a Nazareth a scopi didattici.
Non si potrebbe capire, diversamente, come la vicenda di Gesù, così radicalmente sovvertitrice di sistemi sociali, familiari, religiosi, possa aver dato origine a fenomeni quali l’esclusione delle donne dalla guida del culto e dai processi decisionali nella Chiesa […] e abbia fatto assumere all’istituzione ecclesiastica il ruolo di garante dell’ordine costituito.
Sembra di essere ripiombati negli anni sessanta, in piena contestazione, dove tutto si piegava al rivendicazionismo sociale e femminista. Le donne che premono per un ruolo nei “processi decisionali nella Chiesa”, come se fosse quella la cosa importante. Sai che potere poi, con una Chiesa in caduta libera come in questo momento; mancherebbe giusto il colpo di grazia di mettere delle donne nei processi decisionali. Ma per piacere.
Non contenta, la signora continua nell’intento demolitorio dell’istituzione ecclesiale (come se ce ne fosse bisogno), accusandola di aver sempre contrastato il divorzio solo per accondiscendenza nei confronti delle cattivissime società patriarcali presso le quali si voleva diffondere il cristianesimo, e quindi è implicito che sarebbe ora di smetterla e dare il via libera. Altro che nota in calce al capitolo 8 dell’A.L.
Infatti, si nota temerariamente che:
[Il termine] ‘indissolubilità’ (che porta con sé un divieto o una impossibilità, ed è comunque un’espressione negativa) è solo ombra esangue di qualcosa che è vita e Spirito. Come ben dice Alberto Melloni […]
Fermiamoci qua, visto che crediamo sulla fiducia a ciò che dice Alberto Melloni. Definire, riferendosi al matrimonio, l’indissolubilità come “espressione negativa” è qualcosa di talmente lontano dalla verità che non si trovano parole garbate per commentarlo. Che il matrimonio sia indissolubile è una delle cose più belle, rassicuranti, edificanti, elevate, utili e naturali che il cristianesimo ci ha regalato, tanto che vale anche per chi cristiano non è. Gettare fango su tutta questo ben di Dio definendolo “ombra esangue” è veramente inqualificabile da parte di una teologa che credo, ma nutro giustificati dubbi, si definisca cattolica.
E avanti con l’elogio sperticato dell’Amoris Laetitia, che:
In alcuni passaggi luminosi (nn. 36-37) enuncia la necessità di un’autocritica per le modalità con cui è stato prevalentemente presentato il matrimonio […] con una “idealizzazione eccessiva” […] ”troppo astratto, quasi artificiosamente costruito”
Il punto è piuttosto quello di uscire da una sorta di ossessione normativa.

Lancio una seconda sfida, cari amici, a chiunque abbia intravisto un’ossessione normativa, soprattutto ultimamente, da parte della Chiesa. Casomai un’ossessione de-normativa, una smania deregolatrice, una propensione liquidatrice, una… beh, ci siamo capiti. Tutto, ma l’ossessione normativa no, sono certo che non ci sia, e aggiungo anche purtroppo, perché non è che le norme sono per ostacolare l’uomo. Al contrario, le norme giuste (come lo sono quelle del magistero, occorre aggiungere tradizionale) sono per la felicità dell’uomo, e soprattutto per la sua salvezza eterna. Cosa saremmo senza norme? Non credo nella religione evoluzionista, ma sono aperto all’ipotesi che senza norme ci sarebbe un’involuzione dell’uomo che regredirebbe allo stato di scimmia antropomorfa.
Poi dov’è tutta questa “luminosità”, visto che ad un anno dalla pubblicazione nessuno ha ancora capito cosa c’è scritto, e l’autore si è ben guardato dallo spiegarlo?
Sempre sulla scorta dell’ottimo trampolino di lancio verso il vuoto rappresentato da A.L. si dice:
Piuttosto che giudicare tutto e tutti, è importante riconoscere “che la maggior parte della gente stima le relazioni familiari che vogliono durare nel tempo e che assicurano il rispetto dell’altro” (A.L. n. 38), anche se le esprimono in maniera diversificata e nelle condizioni magmatiche e plurali in cui la vita li pone. Anche se i legami sono stati feriti, spezzati e magari ricomposti. Anche [e siamo al dunque] se le persone sono dello stesso sesso.
Eccoci arrivati. Giunti a questo punto non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro, invece occorre farlo, perché vi sono alcuni altri gioielli di misericordismo che non possono passare inosservati:
Il richiamo del papa alla “coscienza”, come in seguito al “discernimento”, è importante e tra l’altro anche tradizionale [!], solo che è diversamente radicale [!!] ed esigente.
E’ “diversamente radicale” perché di radicale in senso evangelico non c’è proprio nulla. Ma è pienamente radicale nel senso partitico del termine.
C’è anche da dire in merito al cammino sinodale, il quale, naturalmente, nel testo in esame “è appena cominciato”, e se non avessimo la certezza che ad un certo punto Qualcuno lo interromperà, ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli.
L’autrice sottolinea l’importanza che nell’esortazione siano stati inseriti passaggi sulla sofferenza e sulle difficoltà familiari degli uomini, però da buona sindacalista del sesso aggressivo, lamenta che
ci si sarebbe potuti spingere oltre, a nominare anche le pagine che testimoniano la violenza degli uomini sulle donne. Sarebbe stato bene “vederle” […] perché l’omissione mette il dito nella piaga di una scarsa attenzione che alla fine diventa connivenza e fa da specchio alla rara presa di parola contro la violenza sessista.
Già, nella Chiesa c’è ancora troppa connivenza con il sessismo, c’era da sospettarlo. Bisognerà inserirlo nel prossimo pacchetto di scuse al mondo per cose mai commesse.
E non azzardiamoci a pensare che “i percorsi femminili siano compiuti”, perché è sempre tutto un divenire di novità e di progresso, e occorre altresì fare bene attenzione al “gender backlash” che sarebbe, orrore orrore,
Il ritorno a modelli di femminilità – materna, accudente, rassicurante – che sarebbero sembrati desueti negli anni ottanta del secolo scorso.
Un modello di società in cui la donna fa la donna, cioè mette a frutto quelle che sono le inestimabili peculiarità che il Signore le ha donato, è per la nostra autrice qualcosa di assolutamente desueto. Vale a dire che per essere attuale, questo modello che hanno in mente le teologhe italiane, deve spingere la femmina al di fuori del suo ruolo innato, di ciò che le è connaturato, per scimmiottare, immagino, quegli aspetti propri dell’uomo che se esibiti da una donna la rendono assolutamente falsa, sprecata, frustrata, schiava, e non da ultimo insopportabile.
Ma lo sconforto assale la teologa, quando ricorda
[…] dal momento che i “quadri” della Chiesa cattolica sono tutti – e pare inguaribilmente – maschili, proprio loro dovrebbero avere a cuore una riflessione su questo tema, a meno che proprio l’omogeneità impedisca invece di vedere il problema.
Da cui si nota chiaramente, visto il linguaggio sindacal-aziendalista utilizzato, che la linea completamente orizzontale verso cui muove l’autrice è un rivendicazionismo femminista – questo sì – che sarebbe stato desueto non solo negli anni ottanta del secolo scorso, ma sarebbe stato fuori luogo in qualunque epoca storica, perché primo, la Chiesa non è né un’azienda né una democrazia; secondo, la donna non è un uomo. Potremmo continuare ricordando, come ci piace fare di solito, che l’acqua è bagnata e il sole scalda, ma siamo convinti che chi non ha orecchi per intendere non intenderà mai, per cui ci arrendiamo alla teologia delle quote rosa.
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(fine della prima parte – la seconda parte sarà pubblicata domani, venerdì 7 aprile)
https://www.riscossacristiana.it/cattive-maestre-cristina-simonelli-e-le-teologhe-italiane-prima-parte-di-marco-manfredini/6/4/2017

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