Il timore di essere bollati come islamofobi o razzisti
impedisce il rispetto della legalità e copre i responsabili delle violenze
sessuali, In Italia come in Inghilterra e in Germania. Ma c'è anche un processo
culturale di islamizzazione - con la attiva complicità di cattolici - che passa
attraverso l'accettazione di concetti e luoghi comuni che demonizzano la
civiltà occidentale e vagheggiano un islam 'ideale' come soluzione
A Londra ci voleva un giudice musulmano, Khatun Sapnara, per rovesciare la decisione del municipio che aveva affidato una bambina cristiana di 5 anni in sequenza a due famiglie musulmane radicali. Ora la bambina è stata affidata ai nonni ma resta lo sconcerto per decisioni che sono espressione di una resa culturale a una identità forte quale quella costituita dalla presenza islamica.
Non si tratta di un episodio isolato ma l’ultimo di una lunga sequenza. Basti pensare che appena due settimane fa, sempre in Inghilterra, si è dovuta dimettere e anche scusare pubblicamente il ministro “ombra” per le uguaglianze, la laburista Sarah Champion, per aver scritto un articolo in cui esplicitava il problema posto da alcuni gruppi nazionali (pachistani in testa) in fatto di violenze sessuali contro le ragazze bianche. L’articolo, che citava dati ufficiali, partiva dal gravissimo caso di Rotherham – peraltro la circoscrizione di cui la Champion è rappresentante – dove per anni ragazze bianche sono state abusate da gruppi di giovani pachistani senza poter denunciare il fatto per evitare accuse di razzismo. La Champion si dilungava poi sul recente caso di Newcastle dove 700 donne hanno subito aggressioni a sfondo sessuale da 18 giovani nati in Gran Bretagna ma di origine pachistana, indiana, bengalese, iraniana, turca.
Stiamo parlando di centinaia di giovani donne molestate e violentate, e parliamo soltanto di due casi venuti alla ribalta, ma per l’opinione pubblica britannica lo scandalo è indicare la provenienza culturale degli aguzzini. In piccolo è ciò che sta accadendo in questi giorni in Italia a proposito dello stupro della ragazza polacca a Rimini da parte di quattro maghrebini.
È vero che purtroppo a commettere le violenze sessuali sono anche italiani, ma è irresponsabile non considerare il fatto che c’è un contesto sociale e culturale che rende la massiccia presenza di uomini giovani provenienti dai paesi africani un vero e proprio pericolo. E i fatti lo dimostrano: oltre all’Inghilterra basti pensare a quanto accaduto a Colonia e altre città tedesche nel Capodanno 2016, o ai numeri di violenze sessuali in rapido aumento nei paesi nord-europei.
Il rischio di essere accusati di islamofobia o razzismo fa sì che tutti i crimini del genere passino sotto silenzio. Anche le gravi violenze domestiche all’interno delle stesse famiglie islamiche, come denuncia l’Associazione delle donne marocchine in Italia (Acmid): «Si trovano spesso giudici che concedono attenuanti o addirittura assolvono perché parlano di fattore culturale», ci ha detto Souad Sbai, presidente dell’Acmid.
C’è un generale clima di impunità che rende certe presenze ancora più aggressive. Basti pensare alla vicenda degli sgomberi a Roma; oppure a quanto accaduto l’altro giorno a Parma, dove il conducente di un autobus di linea è stato selvaggiamente picchiato da un gruppo di giovani neri che non volevano spostarsi dalla piazzola di transito del bus. «Tanto a noi non fanno niente», urlava uno di loro, una frase sentita mille altre volte. Ovvio che poi nella popolazione a un certo punto possa scattare la reazione.
Ma non ci sono soltanto i fatti di cronaca. Stiamo assistendo a una islamizzazione strisciante, che ormai abbraccia anche il mondo cattolico, a causa di un malinteso dialogo che assume per buona e indiscutibile la visione parziale che viene da voci islamiche, che peraltro sono spesso emanazione o vicine alla Fratellanza musulmana.
È così che, ad esempio, sono sempre più emarginate le testimonianze di quei cattolici del Medio Oriente che raccontano la persecuzione che subiscono e avvertono del pericolo mortale della penetrazione islamica attraverso l’immigrazione e non solo. Non è per alzare muri, ma il dialogo, oltre alla coscienza della propria identità, implica una reale conoscenza dell’altro. Non ci si può fabbricare una immagine ideale dell’altro, il risveglio sarà traumatico. Eppure ci sono concetti che stanno passando, anche nel mondo cattolico, che sono molto discutibili e che spianano la strada non alla conoscenza dell’islam, ma a una lenta islamizzazione. Bisognerebbe almeno avere il coraggio di paragonare questi concetti con la realtà. Eccone alcuni:
I TERRORISTI NON C’ENTRANO CON IL VERO ISLAM
Ovviamente non tutti i musulmani sono potenziali terroristi, anzi i terroristi propriamente detti sono pochi rispetto alla popolazione islamica. Eppure sappiamo benissimo che il terrorismo prospera grazie a un molto più diffuso estremismo che ne è il brodo di coltura. Abbiamo più volte presentato i risultati di accurati sondaggi che rivelano come nei paesi islamici ci sia una stragrande maggioranza della popolazione che simpatizzi per l’Isis, così come tra i musulmani in Europa è molto ampia l’omertà a difesa degli elementi più radicalizzati. Del resto l’estremismo islamico si è diffuso in Europa grazie ai pesanti finanziamenti delle ricche monarchie del Golfo. E come non riconoscere che i metodi di governo dello Stato Islamico non sono così diversi da quelli degli altri regimi islamici che vi confinano, pur se li combattono?
IL CORANO HA GRANDE CONSIDERAZIONE PER I CRISTIANI
Recentemente abbiamo ascoltato al Meeting di Rimini il professore Mohammad Sammak, libanese fortemente impegnato nel dialogo islamo-cristiano, offrire una visione del cristianesimo nel Corano assolutamente idilliaca. I musulmani hanno grande devozione per Gesù e Maria, per la Bibbia, grande rispetto per la Chiesa e per tutti i cristiani a cominciare dai sacerdoti. Sammak, di cui non discutiamo la buona fede nel dialogo, ha tenuto a precisare che questa è l’unica vera realtà del Corano: «Il mio non è un punto di vista, ma ciò che dice il Corano», ha affermato con forza. Peccato che ci sono tanti altri dotti islamici che potrebbero dire cose molto diverse, l’islam non ha una autorità unica da tutti riconosciuta. E se ciò che dice Sammak fosse vero, come mai non c’è un solo Stato islamico – neanche in Asia – dove i cristiani sono trattati come cittadini alla pari dei musulmani? E come mai nelle attuali persecuzioni contro i cristiani sono proprio i paesi islamici a primeggiare? In un vero dialogo si può porre questa domanda senza passare per islamofobi (concetto peraltro inventato proprio dai Fratelli musulmani per tappare la bocca e facilitare l’islamizzazione dei paesi occidentali)?
I TERRORISTI NON SONO RELIGIOSI, MA DISPERATI PER IL VUOTO DELLA SOCIETA’
In questi tempi si leggono tante interpretazioni sociologiche del terrorismo islamista in Europa. È vero che molti terroristi sono stranieri di seconda o terza generazione, è anche vero che la radicalizzazione riguarda soprattutto giovani che vivono conflitti di identità, stranieri nel paese di origine dei genitori e stranieri nei paesi in cui vivono. Ecco quindi che l’islam non c’entrerebbe nulla, è solo la disperazione, il vuoto in cui vivono che favorisce l’estremismo religioso, magari di persone che non sono neanche cresciute in moschea. Tutto vero, per carità. Però ci si dovrebbe anche fare una domanda: siccome la condizione di stranieri di seconda, terza generazione con tutto quel che ne segue è comune a tante etnie, come mai a farsi esplodere, ad andare a combattere la guerra santa in Siria, a lanciare furgoni contro la folla non sono anche cinesi, filippini e così via?
L’ISLAMISMO E’ IL FRUTTO DELLA VIOLENZA DEI PAESI OCCIDENTALI
Su questo concetto concordano sia alcuni esponenti musulmani molto vicini al mondo cattolico, come il professor Wael Farouq, docente di lingua e letteratura araba all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, sia diversi intellettuali cattolici di stampo terzomondista. Basterebbe leggere l’editoriale apparso su Avvenire il 29 agosto a firma Francesco Gesualdi, saggista allievo di don Lorenzo Milani, in cui si attribuisce l’attuale situazione di immigrazione – con tutto quel che ne segue – al conto che la storia ci presenterebbe: «Questa situazione l’abbiamo creata noi attraverso 500 anni di invasioni, massacri, ruberie». Quindi non lamentiamoci, espiamo le nostre colpe. È una tesi tanto falsa quanto diffusa in certi ambienti.
Questa tesi si salda però con quella di intellettuali islamici come Farouq, che in una intervista al TgCom24 del 12 gennaio 2015 diceva testualmente: «Il problema è l'islam come ideologia: l'islamismo. Un'ideologia politica. Un grande problema. Alla fonte del quale non c'è il Corano ma il tipo di modernità imposto con la forza dal colonialismo sui paesi arabi. E la stessa modernità è stata poi usata dalle dittature nei paesi arabi. Questo tipo di modernità usa la violenza che possiamo trovare in alcuni testi sacri dell'islam». Insomma, la colpa del terrorismo è del colonialismo, come la si mette è sempre tutta colpa nostra. Coneguenza: aiutiamo il vero islam ad emergere e tutti staremo meglio visto che la nostra civiltà cristiana ha solo prodotto ruberie, violenze e soprusi.
Per questo in un editoriale del 7 gennaio 2017 su Avvenire, Farouq chiede agli immigrati di non integrarsi, ma di interagire perché «siete l’identità del nuovo mondo», «siete il raggio di speranza di società sfibrate dalla corruzione dello spirito, prima ancora che dalla corruzione economica e politica». Che un intellettuale islamico parli così è anche normale ma il dialogo implicherebbe che da parte cattolica si confrontassero certe affermazioni con la storia, che si ragionasse sulle implicazioni di queste fantomatiche «identità del nuovo mondo» che dovrebbero sostituire la nostra civiltà. Invece silenzio o adesione entusiastica a queste tesi, come se la cattolicità - sopraffatta dai sensi di colpa - non avesse più nulla da dire al mondo. Ed è così che pian piano ci sottomettiamo.
Questa tesi si salda però con quella di intellettuali islamici come Farouq, che in una intervista al TgCom24 del 12 gennaio 2015 diceva testualmente: «Il problema è l'islam come ideologia: l'islamismo. Un'ideologia politica. Un grande problema. Alla fonte del quale non c'è il Corano ma il tipo di modernità imposto con la forza dal colonialismo sui paesi arabi. E la stessa modernità è stata poi usata dalle dittature nei paesi arabi. Questo tipo di modernità usa la violenza che possiamo trovare in alcuni testi sacri dell'islam». Insomma, la colpa del terrorismo è del colonialismo, come la si mette è sempre tutta colpa nostra. Coneguenza: aiutiamo il vero islam ad emergere e tutti staremo meglio visto che la nostra civiltà cristiana ha solo prodotto ruberie, violenze e soprusi.
Per questo in un editoriale del 7 gennaio 2017 su Avvenire, Farouq chiede agli immigrati di non integrarsi, ma di interagire perché «siete l’identità del nuovo mondo», «siete il raggio di speranza di società sfibrate dalla corruzione dello spirito, prima ancora che dalla corruzione economica e politica». Che un intellettuale islamico parli così è anche normale ma il dialogo implicherebbe che da parte cattolica si confrontassero certe affermazioni con la storia, che si ragionasse sulle implicazioni di queste fantomatiche «identità del nuovo mondo» che dovrebbero sostituire la nostra civiltà. Invece silenzio o adesione entusiastica a queste tesi, come se la cattolicità - sopraffatta dai sensi di colpa - non avesse più nulla da dire al mondo. Ed è così che pian piano ci sottomettiamo.
31-08-2017
- IN INGHILTERRA OPERANO 85 TRIBUNALI MUSULMANI di Matteo Borghi- SPAGNA, CENSURATO ROSSINI IN OSSEQUIO A MAOMETTO di Tommaso Scandroglio
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-immigrazione-e-islam-l-europa-si-e-gia-arresae-parte-della-chiesa-e-gia-pronta-alla-sottomissione-20898.htm
Una domanda ai cattolici progressisti e ai preti di strada: non vi sorge alcun sospetto nel vedere che le vostre idee coincidono con quelle dei Soros e Rockefeller, l'élite che dispone del controllo totale dell’informazione?
IL VIZIETTO ECCLESIASTICO
di Francesco Lamendola
Chi non sa fare i conti con se stesso, con il proprio passato, con i propri conflitti irrisolti, prima o poi è condannato e ripetere gli stessi errori, a rivivere le stesse situazioni, senza neppure il vantaggio di avere imparato qualcosa da esse. La Chiesa cattolica non ha mai fatto i conti – per ragioni comprensibili, fin che si vuole – con la pagina forse più oscura della sua storia recente: il coinvolgimento nella guerra civile italiana del 1943-45 (con i prodromi del 1919-1921 e poi con la prova generale spagnola del 1936-39: oggi in Spagna, domani in Italia), che la vide presa in mezzo fra le due parti in lotta. Formalmente essa era neutrale, com’era giusto che fosse; salvo il fatto che il Vaticano, poco riconoscente per i Patti Lateranensi del 1929, non volle mai riconoscere la Repubblica Sociale Italiana, con la debole giustificazione giuridica che non era uso riconoscere i governi nati in un contesto internazionale di guerra tuttora in atto. Di fatto, una parte non certo piccola del clero, dai cappellani militari ai parroci, ai religiosi dei conventi, finì per trovarsi non solo coinvolta, ma schierata, sia con l’una che con l’altra delle due parti in lotta: talvolta per assoluta necessità, talaltra per scelta personale. E non fu piccolo il tributo di sangue che essa versò a quel drammatico capitolo della nostra storia nazionale: più di cento, alla fine della guerra, risultarono i sacerdoti uccisi, sia dai tedeschi e dai fascisti, per rappresaglia, sia dai partigiani comunisti, per odio ideologico: odio che si spinse fino alla tortura e alla barbara uccisione di un seminarista quattordicenne, Rolando Rivi, “colpevole” di amare così tanto la sua Chiesa, da andare in giro con la veste sacerdotale, per mostrare a tutti la propria vocazione. Da parte loro, i vertici della Chiesa stavano a vedere come sarebbe finita: ma poiché tutti avevano capito, dopo El Alamein e dopo Stalingrado, che sarebbe finita con la vittoria alleata, in pratica si trattava di aspettare che la guerra finisse, senza compromettersi troppo né con i tedeschi, che avrebbero potuto vendicarsi prima di subire l’inevitabile sconfitta, né con gli angloamericani, i quali, dopotutto, stavano bombardando selvaggiamente le città italiane e provocando decine di migliaia di morti innocenti, in attesa di “liberarle”, e sobillavano i partigiani, la maggior pare dei quali erano di fede comunista e, perciò, atei e nemicissimi del cattolicesimo. A guerra finita, sia i vivi che i morti, com’era prevedibile, subirono un diverso trattamento: i sacerdoti e i religiosi che avevano scelto la parte “sbagliata”, come don Tullio Calcagno, vennero presto dimenticati, mentre quelli che si erano schierati dalla parte “giusta”, come don Primo Mazzolari, ricevettero onori, riconoscimenti e un bagno di popolarità, e inoltre, cosa più importante di tutte, ottennero una specie di lasciapassare per accedere al mondo della cultura repubblicana e democratica, dominato dai partiti di sinistra. Furono così gettate le basi per il successo editoriale e mediatico di sacerdoti come David Maria Turoldo, i quali potevano vantare la benemerenza di essere stati antifascisti e di aver aderito alla Resistenza; mentre venne letteralmente rimossa l’opera di quei sacerdoti, alcuni di notevole spessore intellettuale (un nome per tutti? quello del pedagogista padre Domenico Bassi, barnabita, vittima di una “epurazione postuma”, visto che ebbe la buona sorte di morire nel 1940), i quali si erano compromessi col fascismo e non avevano poi prontamente ritrattato, cosa che sarebbe stata facilissima, visto che lo facevano tutti, anche nell’ambito della cultura laica, Curzio Malaparte docet: cosa che aveva il significato di una diabolica perseveranza nel “male”. Per i preti rossi, invece, si sono sprecati i discorsi, le commemorazioni e i monumenti: uno per tutti, il caso di don Giuseppe Faè (nome di battaglia: don Galera -, parroco di Montaner, un paesino delle Prealpi Trevigiane, del quale abbiamo altra volta parlato (vedi i nostri articoli: Don Galera e Frate Mitra. Ma un prete deve predicare il Vangelo della vita, non il vangelo della morte, pubblicato su Libera Opinione il 23/04/2015; e Don Giuseppe Faé: fu vera gloria?, il 30/07/2015).
Ora, la mancata riflessione su quel che era accaduto e l’assenza di un rinnovato dibattito, anche di tipo teologico, oltre che storico, sulla questione della “guerra giusta” e sulla liceità di una partecipazione dei sacerdoti alla guerra civile, hanno fatto sì che il mal seme dei don Faè si tramandasse, senza ricevere alcuna correzione, fino ai nostri giorni; tanto che oggi, a nostro avviso, sta cominciando a rifare capolino, per fortuna non in forme violente - o non ancora tali – ma, comunque, egualmente pericolose. Alludiamo alle sempre più frequenti prese di posizione di sacerdoti e religiosi cattolici a favore dell’immigrazione/invasione dell’Italia e dell’Europa da parte di orde di falsi profughi, quasi tutti islamici; e agli atteggiamento di provocazione, di sfida, di aperto disprezzo, da parte di costoro, nei confronti di quella parte dell’opinione pubblica e di quella parte dei fedeli, che essi sanno benissimo esistere, anzi, essere maggioritarie, che non vogliono riconoscere per buone le loro ragioni; che non accettano di subire passivamente tale invasione e tale islamizzazione; che non tollerano di vedere la Chiesa tutta così schierata, papa in testa, a favore di una scelta che non è più di tipo caritativo e assistenziale, ma decisamente politico – si veda l’intromissione di Bergoglio sulla legge per lo ius soli – e che coinvolge non noi soltanto, ma la generazioni future, cioè il destino dei nostri figli e dei nostri nipoti. Da Gorizia a Roma, è tutto un pullulare di preti che chiedono la dispensa ecclesiastica per candidarsi alle elezioni, sia politiche che amministrative, per portare avanti, a tempo pieno, la loro linea dell’accoglienza e della pretesa integrazione di milioni di stranieri; alla televisione e sulla stampa, è tutta una passerella di sacerdoti che battono e ribattono su quel tasto, con il sostegno compiaciuto di giornalisti tutti schierati sulla linea immigrazionista, mondialista e omosessualista; e, quel che è peggio, che stravolgono la lettera e il senso dei quattro Vangeli canonici e se ne inventano un quarto, il vangelo secondo Bergoglio, nel quale si dice che Dio non è cattolico, che Gesù si è fatto diavolo, che l’apostolato è una solenne sciocchezza, che Dio ha risparmiato Sodoma, che il diavolo non esiste, che non si sa cosa abbia detto Gesù Cristo, che i giudei non hanno bisogno di convertirsi, che gli islamici sono amici ed ospiti graditi alla Messa cattolica, specie se è ancora fresco il sangue di un prete cattolico assassinato dai fondamentalisti islamici; e che il vero peccato non è la pratica omosessuale, ma la cosiddetta omofobia, che poi è semplicemente il rifiuto di considerare normale l’omosessualità, e sacrosanti i matrimoni gay; e che un vero cristiano deve essere per l’accoglienza dei “migranti”, altrimenti non merita di essere considerato tale, anzi, non merita neppure di essere considerato un uomo. Ed è così che don Andrea Bigalli, prete di Firenze, benedice i matrimoni omosessuali e la signora Cirinnà; don Andrea Bellavite, prete friulano, si candida a sindaco di Aiello (Udine), vince e si mette a governare con una giunta di centro-sinistra, nonostante non abbia avuto l’autorizzazione del suo vescovo, che lo ha sospeso a divinis; ecco don Mussie Zerai, il prete eritreo che si vanta di salvare le vite dei profughi in pericolo, mentre, di fatto, svolge il ruolo di telefonista dei migranti; ecco don Franco De Donno, prete romano e dirigente della Caritas, che, dopo 36 anni di ministero sacerdotale, lascia la Chiesa per candidarsi alla testa di una lista progressista, immigrazionista e buonista; ed ecco don Massimo Biancalani, prete di Pistoia che non si limita a portare i migranti in piscina (ma chi porta in piscina i nostri poveri e i nostri dimenticati?), posta le gioiose foto in rete col commentoQuesta è la mia famiglia; i miei nemici sono i razzisti, e, per ribadire il concetto, pone sulla sua onlus dei cartelli con la scritta Vietato l’ingresso ai razzisti. Tutti costoro, e altri dieci, cento, mille come loro, stanno facendo, che ne siano consapevoli o no, le prove generali di una guerra civile: stanno spaccando deliberatamente, intenzionalmente, la società civile e la stessa comunità cattolica, in nome di una loro interpretazione del Vangelo, sapendo benissimo che essa non è condivisa da tutti, anzi, che molti la trovano arbitraria, eretica e pericolosa, oltre che dannosissima quanto agli effetti pratici. Eppure non si danno la pena di spiegare, di argomentare, di dialogare: proprio loro, degni continuatori dello “spirito” (con la minuscola) del Concilio, che del dialogo aveva fatto un valore assoluto, non dialogano affatto con gli altri: perché dare agli altri dei razzisti non è dialogare, è insultare, e definire gli altri dei nemici, da parte di un sacerdote, equivale a chiudere ogni spiraglio, ogni possibilità di dialogo; ed è semmai un provocare, e chi provoca non deve poi stupirsi se attira delle reazioni, non deve poi fare del vittimismo, non deve poi puntare il dito contro l’intolleranza altrui e lamentarsi della cattiveria altrui.
Il vizietto ecclesiastico della guerra civile
di Francesco Lamendola Del 31 Agosto 2017
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Soros, il problema indicibile
La nazione è sottoposta all’ingerenza di un singolo personaggio che esercita un potere illecito e che, secondo le moderne definizioni, è in guerra contro l’Italia.
La presa esercitata da George Soros sull’Italia è andata chiarendosi negli ultimi tempi, un contributo rilevante è stato fornito da Daniel Wedi Korbaria, un eritreo che vive a Roma dal 1995, sulle colonne del sito Media Comunità Eritrea. Nell’articolo si rimanda ad un episodio avvenuto nel 2010 e precisamente all’offerta fatta a George Soros dall’allora sindaco di Firenze, Matteo Renzi, di ospitare nello storico edificio delle Murate un centro di rifugio per ‘blogger perseguitati’. In pratica il futuro Premier italiano ha cercato Soros per offrirgli un “regalo”, ma vediamo cosa diceva il Corriere di Firenze in quell’occasione:
La fondazione Soros ha accettato di aderire al gruppo di lavoro per creare «case rifugio» per i blogger dissidenti. Ventiquattro attivisti, giornalisti del web, che non possono più vivere nei paesi di provenienza perché perseguitati, abiteranno alle Murate, dal 2011. L’Open society institute & Soros Foundation, «braccio armato» (virgolettato nell’originale ndr) del discusso finanziere Soros, negli anni ha finanziato molte associazioni e gruppi indipendenti che lottavano contro i regimi: tra i primi, Solidarnosc in Polonia e il movimento che ha portato alla «rivoluzione delle rose» in Georgia. E ora la fondazione, per bocca del presidente Aryeh Neier, ha accettato di partecipare alla creazione di questo centro.
Un incontro tra i due era avvenuto durante un viaggio negli Stati Uniti nel corso del quale il sindaco di Firenze aveva chiesto di essere ricevuto da Soros, come riferito da “The florentine“. Ovviamente tra i blogger perseguitati che godono della protezione di Soros troviamo, e troveremo, solo quelli di paesi bisognosi di una rivoluzione colorata o di una esportazione della democrazia. Nella casa rifugio delle Murate non c’è posto per chi contesta le politiche dei governi neoliberisti, per questi ci sono i provvedimenti che prendono il nome di azioni contro le fake news e gli hate speech. Il fatto di ospitare un centro di destabilizzazione rende automaticamente Firenze una città colpevole di azioni contro Stati sovrani, di questo dovrebbero occuparsi la magistratura e il Parlamento.
Il regista dei cambi di regime attuati negli ultimi decenni avrebbe quindi ricevuto un regalo che aveva tutte le caratteristiche di un’alleanza, Soros con la capacità di influenzare i media attraverso le numerose testate di livello internazionale da lui controllate (The Guardian, Liberation, Huffington Post, etc…) e con la sua influenza negli ambienti politici, avrebbe appoggiato il sindaco di Firenze nella sua scalata alla Presidenza del Consiglio e in cambio il Presidente (senza passare attraverso elezioni, come gli ultimi predecessori) avrebbe riservato una corsia preferenziale all’agenda della Open Society Foundations, la ONG capofila delle numerose ONG di Soros. Quale sia il programma della OSF in generale, e quindi di quella italiana, è possibile leggerlo direttamente sul sito ufficiale e in maniera un po’ più esplicita su Wikipedia dove con una ulteriore esplicitazione troviamo tra le altre le seguenti iniziative:
Liberalizzazione delle droghe
Promuovere l’agenda LGBTQ
Promuovere i cambi di regime pro NATO nei paesi dell’ex URSS
Favorire l’immigrazione e la concessione della cittadinanza per gli immigranti irregolari
Tra le attività promosse dalla OSF troviamo anche il sostegno alle politiche abortiste e all’eutanasia. Inoltre mentre l’opinione pubblica è distratta da queste polemiche gli stati coinvolti subiscono una serie di privatizzazionidi cui la finanza e le società di Soros beneficiano.
Ma l’attività più rilevante in cui Soros è impiegato è quella che viene confermata da migliaia di documenti hackerati e resi disponibili, la sovversione di governi democraticamente eletti:
Soros è l’architetto o il finanziatore di più o meno ogni rivoluzione o colpo di stato nel mondo negli ultimi 25 anni.Fonte “L’Inkiesta“
Ogni paese che nell’ultimo quarto si secolo è stato coinvolto in un regime change o sottoposto all’azione delle ONG guidate dalla OSF, ha subito poi le politiche dettate dalla stessa. E’ dunque alla luce di questo legame con Soros che va letta l’agenda degli ultimi governi, in particolare le priorità date ai diritti LGBTQ e alla questione dei migranti, ecco quanto dice al riguardo sempre l’articolo di Korbaria:
Lo si deduce dalla lettera aperta scritta a Renzi con un tono pretenzioso da Costanza Hermanin, (senior policy officer presso l’Open Society Foundations) a due settimane dal suo insediamento a Palazzo Chigi intitolata: “Caro Matteo, adesso dammi una ragione per non dover più lavorare sui diritti umani in Italia.”Nel primo paragrafo la Hermanin dice: “Adesso che il governo è pronto a mettersi al lavoro è giunto il momento di domandarti d’includere l’immigrazione, la parità e i diritti fondamentali nell’agenda delle riforme, politiche ma soprattutto istituzionali.”
Ed ecco assumere un significato le visite di Soros in Italia, accolto dal Premier Gentiloni, nel momento in il Procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, iniziava scoperchiare le manovre illecite delle ONG che traghettavano i migranti anziché soccorrerli, e di nuovo ad agosto, insieme al figlio ed Emma Bonino, quando scoppiava clamorosamente l’emergenza migranti con gli schiaffi ricevuti dall’Italia dalla Francia di Macron, dall’Austria e dalla UE nel suo complesso.
Soros con il figlio a Roma, sullo sfondo i Fori Imperiali
Il figlio di Soros con Emma Bonino
Ed ecco assumere un significato anche l’impegno per lo sbarco dei migranti in Italia preso senza il consenso della nazione dal governo Renzi e rivelato da una Emma Bonino, quantomeno ingenua, in una dichiarazione che è stata essa stessa fonte di problemi per il Governo sulla questione migranti prima della seconda visita di Soros:
L’accordo rivelato da Emma Bonino è stato fatto di nascosto e fondamentalmente in violazione ai principi costituzionali, ma è già stato insabbiato, fatto previsto con chiarezza di analisi da Marcello Foa.
Adesso che l’agenda della OSF è stata un po’ maltrattata soprattutto ad opera dei siti di libera informazione, e avendo imparato la lezione della Brexit e dell’elezione di Trump, ecco che il ministro Orlando vara una commissione che dovrà censurare proprio le voci della libera informazione sul web, quelle che non troveranno accoglienza nel rifugio del palazzo delle Murate, quelle che che saranno sottoposte al giudizio di una commissione nella quale sono state fatte entrare una decina di associazioni finanziate dalla OSF e della cui neutralità verso le direttive del finanziatore è lecito sospettare.
Soros, colui che nel 1992 compì un attacco alla Lira mettendo in ginocchio l’Italia, era già per quell’atto considerabile come nemico del nostro Paese, adesso siamo in presenza di una Rivoluzione colorata condotta in modo subliminale con la quale è riuscito nell’intento di esercitare un’indebita pressione sulle politiche nazionali piegandole alle finalità della OSF, e come ricordava il Gen. Fabio Mini in un’intervista qui su CS riferendosi al caso della Grecia:
piegare la volontà del governo e della stessa popolazione è senz’altro un atto di guerra
Quindi, secondo la moderna definizione di guerra, la OSF di George Soros è una realtà sovranazionale che ha condotto e conduce azioni di guerra nei confronti del popolo italiano e come tale va giudicata.
Ma solo un ingenuo potrebbe pensare che Soros agisca senza sostegni, e qui si dovrà necessariamente aprire un discorso sulle realtà che sottostanno all’operato della OSF e che lo affiancano.
Qualsiasi futuro governo che non passi attraverso questa denuncia darebbe un segnale di assenso al proseguimento nella direzione intrapresa. Non sollevare il problema dell’ingerenza delle ONG, e in particolare della Open Society Foundations, sarebbe indice di accettazione dello statu quo e quindi una resa alla OSF e alle realtà che vi stanno dietro. Ma un soggetto politico che si ponga in contrasto con questo stato di cose dovrà essere pronto ad affrontare le conseguenze che una tale presa di posizione comporterebbe, infatti si porrebbe in uno stato di guerra con l’organizzazione che negli ultimi 25 anni ha progettato e sostenuto tutti i “regime change”.
C’è qualcuno pronto a farlo?
BY ENZO PENNETTA ON
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