SE EGLI APRE NESSUNO
CHIUDERA'
di Francesco Lamendola
Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casati di Giuda. Se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire. Gli porrò sulla spalla la chiave della casata di Davide: così il passo del Libro di Isaia, 22, 21-22), che è stato recitato nelle chiese, secondo la liturgia della santa Messa festiva, domenica 27 agosto 2017: laddove, nella figura di Eliakin, bisogna vedere un precursore del Messia, l’Unto del Signore, e, nella casa di Davide, il popolo di Dio della Nuova Alleanza, cioè la futura Chiesa. In particolare, nell’azione di aprire e chiudere la porta della casata di Davide, sembra prefigurata la potestà petrina di legare e sciogliere i peccati, secondo le parole di Gesù Cristo (in Mt. 16, 18-19): E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli.
Non si può negare che vi è qualcosa di remoto, quasi un sapore alieno, in queste parole, in questo linguaggio, rispetto allo stile omiletico della Chiesa dei nostri giorni, specialmente sotto il pontificato di papa Francesco. E non è solo questione di forma o di stile, ma proprio di sostanza. I concetti di aprire e chiudere la porta, di legare e sciogliere i peccati, cioè di rimetterli o non rimetterli, sembrano appartenere a un altro universo intellettuale e spirituale, e, che Dio ci perdoni, quasi a un’altra religione, a un altro modo d’intendere il rapporto fra l’umano e il divino.
Oggi la Chiesa ama parlare, per bocca di moltissimi suoi pastori, in maniera completamente diversa; oggi non va di moda che la misericordia di Dio, non c’è posto che per il perdono di Dio. Si direbbe che la misericordia sia un concetto così potente, da cancellare la tremenda realtà del peccato; e che il perdono sia cosa pressoché scontata, quasi come fosse dovuta. Ma questa è una falsificazione, uno stravolgimento della sana dottrina cattolica. La misericordia divina non elimina, di per se stessa, la forza devastante del peccato, in assenza di un atto di pentimento e di una volontà di riparazione: diversamente, verrebbe annullata la cosa più preziosa della condizione umana, il dono più bello che Dio ha fatto alla creatura eletta a sua immagine e somiglianza: la libertà. L’uomo è libero, e quindi è libero anche di rifiutare l’amore di Dio. Chi rifiuta l’amore, rifiuta anche il perdono: è automatico e inevitabile. Se io rifiuto l’amore, rifiuto anche il perdono: non posso rifiutare l’amore e ricevere il perdono, perché il perdono presuppone la disponibilità ad esser perdonati, e, quindi, la libera scelta di tornare nell’amore a cui avevo voltato le spalle. Nessuno può essere perdonato suo malgrado e controvoglia: il perdono è un atto liberamene accettato, così come il peccato è un atto di libero rifiuto. Se non vi fosse la libertà, non vi sarebbe neanche il peccato, perché ciascuno agirebbe solo in base ai propri impulsi, e non vi sarebbe legge superiore ad essi; ma la liberà c’è, essa è stata data all’uomo come fattore di distinzione rispetto a tutte le altre creature: l’uomo è la sola creatura che possa agire anche contro i propri impulsi, se questi sono cattivi. Gli impulsi dell’uomo non sono tutti buoni. Nell’animale gli impulsi sono naturali, e quindi non si può parlare, per essi, né di bene, né di male; ma per l’uomo, al di sopra degli impulsi e degli istinti, vi è l’ordine morale, che si fonda sulle due leggi, quella naturale e quella divina. Se infrange la legge naturale, l’uomo regredisce dalla condizione che gli è propria a quella che gli è inferiore, la condizione animale; se trasgredisce alla legge divina, pur conoscendola, l’uomo diventa ribelle a Dio e all’ordine da Lui voluto, separandosi dalla sua amicizia e rifiutando la sua offerta d’amore. Nel primo caso, l’uomo si fa simile a un bruto; nel secondo, si rende simile a un demonio, perché il rifiuto deliberato e consapevole della legge d’amore di Dio equivale a una ribellione contro di Lui, come fu una ribellione quella degli Angeli capitanati da Lucifero, i quali, mossi dall’invidia, non vollero rimanere nel suo amore, e furono puniti diventando dei demoni e venendo precipitati nell’inferno.
L’uomo consacrato a Dio, il presbitero, è colui che ha ricevuto il potere di legare e sciogliere: questo implica una grandissima responsabilità, dato che egli, di fatto, e per quanto possa essere umanamente fragile e inadeguato, per mezzo dell’azione di Dio nel sacramento dell’Ordine sacro, viene innalzato al ruolo di mediatore fra l’umano e il divino. Di conseguenza, un ministro di Dio che si macchi di gravi colpe verso le anime che gli sono state affidare, e per le quali egli è stato nominato pastore, si carica l’anima di un peccato atroce, innominabile. Un prete pedofilo, ad esempio, che corrompe i giovani nei seminari o nei collegi, si macchia di una colpa nefanda e innesca una catena di male, che neppure il suo eventuale ravvedimento e la sua richiesta di perdono potranno spezzare. Un bambino o un ragazzo che siano stati abusati da uno di codesti preti indegni, subiscono un danno morale cui, forse, non sarà possibile porre rimedio nel corso della loro intera vita: si comprende da ciò quanto grande sia il peccato di colui che li ha sporcati e quanto esso tenti l’ira di Dio, perfino in presenza di un profondo e sincero pentimento. Oltre all’atto malvagio in se stesso, vi è anche l’abuso dell’ufficio sacerdotale: il fatto di essersi servito dell’abito di ministro di Dio per avvicinare impudicamente un fanciullo, rende il peccato di codesti soggetti particolarmente odioso e sacrilego, tale da suscitare l’orrore dei Cieli stessi. La misericordia di Dio non ha limiti, tuttavia il peccato esige una penitenza proporzionata alla sua gravità, e vi sono peccati per i quali la penitenza non può essere interamente soddisfatta nemmeno nell’arco di una intera vita umana. Altrettanto grave è la colpa di quei superiori, di quei direttori, di quei vescovi, di quegli abati che hanno visto, o intuito, o comunque compreso, il male che codesti sacerdoti indegni hanno compiuto sulle giovani anime che erano state loro affidate, e non sono prontamente intervenuti, non hanno fatto nulla, hanno girato la testa dall’altra pare e fatto finta di non sapere, di non vedere. Anche per essi il castigo sarà certo e terribile, a meno che non intervenga in essi un profondissimo e tempestivo pentimento e una ferma, indefettibile volontà di rimediare al male fatto, almeno nei limiti del possibile, e di impedire che dell’altro male sia consumato.
Detto questo, non bisogna credere che non vi siano dei peccati ancor più gravi, da parte dei ministri di Dio: dei peccati che non riguardano principalmente il corpo, ma l’anima, e che consistono nella somministrazione di un falso insegnamento, di una dottrina fuorviante, di un catechismo che si discosta in maniera significativa dal Vangelo di Gesù Cristo. Abusare dei corpi è atroce, ma ingannare e fuorviare le anime è, se possibile, ancor più grave, perché, in questo caso, è tutta la vita morale di un’anima, o di più anime, che viene confusa, rovesciata, pervertita. Il sacerdote che, rendendosene perfettamente conto, si carica l’anima di una tale responsabilità, consuma un peccato inqualificabile davanti a Dio: sospinge verso l’abisso quelle anime che aveva promesso di guidare alla salvezza, e tradisce l’impegno preso solennemente davanti al Signore. Si tratta essenzialmente di un peccato di superbia intellettuale: il sacerdote in questione, credendosi sapiente e intelligente, gonfio di orgoglio per le sue letture e per la sua supposta acutezza critica, si permette di rivedere e modificare il sacro deposito della fede e, abusando dei suoi poteri, sottolinea certi aspetti della dottrina, mentre ne ignora o ne minimizza degli altri, con il risultato di operare un sostanziale stravolgimento del Vangelo e di offrire ai fedeli una cosa diversa dalla religione cristiana cattolica, una cosa tutta umana, tutta sua. Vi sono dei predicatori che godono nel vedere la gente che si affolla in chiesa per sentirli parlare, magari per esporre concetti teologicamente dubbi e arrischiati, lontani dalla dottrina autentica. Accecati dalla vanità, gongolano di soddisfazione e dimenticano le parole di san Paolo: non esiste altro Vangelo che quello di Gesù Cristo, e chiunque insegni una dottrina non conforme ad esso, che sia anatema! Il sacerdote non è che un operaio nella vigna del Signore, ma vi è un solo vignaiolo, Gesù Cristo, e un solo padrone della vigna, il Padre celeste: guai a quell’operaio che si monta la testa e che comincia a credersi il padrone della vigna o il vero vignaiolo. Egli si fa propagatore di scandalo, e a lui si applicano le terribili parole del divino Maestro: sarebbe meglio per lui che gli si legasse una macina da mulino al collo, e che venisse precipitato nel mare. Tutto questo avviene quando il ministro di Dio smette di pregare e allenta il legame con Dio: per chi si tiene strettamente unito a Dio, la tentazione della superbia e della vanità non fa presa, perché non trova il terreno adatto sul quale insediarsi, né il materiale che faccia da combustibile all’incendio.
«Se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire»
di Francesco Lamendola
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