Bene: ora tutti i nodi verranno al pettine. Vuoi vedere che, finora, per fare il capo del governo italiano o il ministro della Repubblica il requisito fondamentale era di non fare gli interessi dell’Italia, ma di qualcun altro?
di Francesco Lamendola
Se c’è una cosa che non ci piace e non ci è mai piaciuta – sarà questione di gusti, ciascuno ha i suoi e i nostri, forse, sono poco in linea col cosiddetto carattere nazionale – è quella di barcamenarsi in mezzo alle situazioni ambigue, scivolose, sfuggenti; di sgusciare come anguille nelle acque un po’ fangose, un po’ torbide, dove non si sa mai bene chi sono gli amici e chi i nemici, magari con la segreta intenzione di regolarsi, volta per volta, secondo la convenienza immediata: sono miei amici quelli che, in quel preciso momento, possono assicurarmi qualche sia pur minimo vantaggio, e sono miei nemici quelli che, sia pure per nobili ragioni e perché mirano al bene comune, mi negano il raggiungimento delle mie piccole soddisfazioni, la gratificazione per i miei piccoli traffici eseguiti sottobanco. Sta di fatto che le cose ambigue, le situazioni equivoche non ci piacciono affatto, e non ci piace la gente che è abituata a pascersi di esse. Perciò consideriamo un bene, e non un male, che il bubbone della politica italiana sia finalmente scoppiato: erano settant’anni che produceva pus e non veniva mai fuori; ora nessuno potrà dire di non averlo visto, di non aver potuto valutare e giudicare, e trarne le debite conclusioni.
Il bubbone, diciamolo subito, non si chiama di certo Mattarella. Mattarella è un signor nessuno che conta meno di zero: nessuno si sarebbe accorto della sua esistenza, se una ironia del destino non avesse voluto che una simile nullità si trovasse a occupare il Quirinale nel momento cruciale in cui il bubbone era sul punto di esplodere. Non è stato lui a farlo esplodere: insignificante com’è, non se lo sarebbe mai neppure sognato, se ciò fosse dipeso da una sua reale iniziativa. Ma quello che ha fatto, rifiutare la ratifica di un governo ormai fatto, costruito con infinita pazienza e fatica dalle due forze politiche che hanno preso 17 milioni di voti e stravinto le elezioni del 4 marzo, e rifiutarla sulla base di una sua valutazione personale di segno squisitamente politico, Savona non va bene perché lo dice lui e lo confermano le agenzie di rating, quel che lui ha fatto nasce da un’imbeccata della Banca centrale europea, da cui è scaturita una doppia congiura, un po’ come quella del 25 luglio 1943, interna ed esterna. Quella interna ha visto la volonterosa adesione di tutti i trombati rancorosi, da Berlusconi a Bergoglio: le forze che il voto del 4 marzo ha spazzato via, bocciandole sonoramente, e che ora tornano a farsi sotto, bramose di rivincita, ponendo un uomo del Fondo Monetario Internazionale a capo del nuovo esecutivo, l’ennesimo yes-man della B.C.E., Carlo Cottarelli. E così i due grandi sconfitti del 4 marzo, Forza Italia e il Partito democratico (dietro il quale ultimo sta la C.E.I. e, perciò, la Chiesa cattolica, cacciati dalla porta, rientrano dalla finestra: con loro sia gli sbarchi dell’invasione africana ed islamista, sia lo shopping francese e tedesco fra le grandi aziende italiane (quanti lo sanno che il signor Renzi aveva venduto perfino una bella fetta del Mar Tirreno ai cugini d’Oltralpe, davanti alla Sardegna, ricco di pescato?), potranno ricominciare alla grande. Seguitando di questo passo, fra cinque anni non ci sarà più niente di italiano, in Italia: tutta la nostra economia sarà in mani altrui, come già lo sono quasi tutti i settori industriali e finanziari strategici, a cominciare dalla Banca d’Italia.
Il nodo numero uno, che sta venendo al pettine, e che implica tutti gli altri nodi secondari, è l’effettiva mancanza di sovranità italiana, dal 1943 in poi. Nel 1945, una pietra tombale è stata posta non solo sulle ambizioni di grande potenza dell’Italia (che non erano solamente ambizioni, ma cominciavano a essere fatti), ma anche sulla sovranità dell’Italia, cioè sulla sua sopravvivenza come Stato effettivamente indipendente. Trattata come nazione sconfitta nel trattato di Parigi del 1947 (con buona pace dei “resistenti” e degli antifascisti i quali, col 25 aprile, si erano sentiti un po’ vincitori pure loro, e questo solo perché per una manciata di ore, fra la partenza dell’ultimo soldato tedesco e l’arrivo del primo soldato americano, avevano spadroneggiato nelle città del Nord Italia e infierito, processato e ammazzato a danno di qualche decina di migliaia di italiani “fascisti”), l’Italia si era vista anche imporrel’umiliante articolo 16, che le proibiva di molestare in alcun modo i traditori che, dal 10 giugno 1940, si erano adoperati per la sua sconfitta e per la vittoria delle armi straniere. Ebbene, da quel momento in poi tutti i politici italiani sono dovuti passare per le forche caudine del placet straniero, anche se in maniera relativamente discreta. Chi non si adeguava, finiva vittima di “misteriosi” incidenti, da Mattei precipitato col suo aereo, a Moro assassinato dopo quaranta giorni di prigionia, a Craxi costretto a fuggire e a morire in esilio, come un appestato. Mattei aveva voluto eludere l’assedio delle Sette Sorelle e dare all’Italia l’autonomia energetica, con una “sua” politica estera effettiva, specie nel Medio Oriente; Moro aveva voluto coinvolgere nel governo il Partito comunista, (allora) sgraditissimo agli americani (che adesso, invece, puntano tutte le loro carte sul Pd); e Craxi aveva osato sfidare Reagan all’aeroporto di Sigonella, per via dell’affare della Achille Lauro e, più in generale, per la sua politica filo-palestinese, giudicata intollerabile da Israele.
Soros & Bergoglio (Bonino & Pd): i trombati delle elezioni politiche esultano per lo scampato pericolo populista?
Ma quei tre erano stati un po’ le eccezioni alla regola: e la regola, in questi tristi settant’anni di sudditanza, è stata che i politici italiani hanno fatto da volonterosi capi indigeni al servizio della potenza coloniale statunitense (e ora anche della Banca centrale europea: doppia servitù, pertanto) e, in cambio di qualche perlina e di qualche stoffa colorata, per esempio di qualche medaglia ed onorificenza straniera, si sono impegnati a far digerire al popolo italiano una politica antinazionale, che ha sempre sacrificato i nostri interessi – dall’agricoltura alla pesca, dall’allevamento all’industria, dal commercio alla finanza – a vantaggio degli interessi stranieri. Così, per fare un esempio, mentre la Francia, nel solo 2016, ha acquisito ben trenta fra le nostre maggiori aziende, da Telecom, a Eridania, a Parmalat, senza che i nostri politici muovessero un dito, l’Eliseo, da parte sua, quando l’Italia stava acquisendo la proprietà dei canteri navali di Saint-Nazaire, è saltato su come una belva infuriata e ha preteso che questa facesse un passo indietro. La politica dei patti ineguali, come al tempo della Cina semicoloniale. Questa è la differenza fra un Macron e un Gentiloni: entrambi sono delle perfette nullità, messe al potere dal sistema finanziario; ma il primo, almeno, fa gli interessi del proprio Paese, nella misura in cui gli è possibile, l’altro fa la politica dello struzzo. Dicono che è un problema di ordine fisiologico, un po’ come l’anca del signor Bergoglio. A Gentiloni non riesce di tener la schiena dritta davanti all’arroganza straniera, come a Bergoglio non riesce di piegare il ginocchio davanti all’altare del Santissimo. Chissà, forse un buon fisioterapista… ma no, è impossibile: si tratta di un vero e proprio difetto di fabbricazione, col quale si nasce e col quale si muore. Per tenere la schiena dritta, bisogna esser disposti ad assumersi la responsabilità di esercitare una sovranità effettiva, il che ha i suoi pro e i suoi contro; e, se si è fatti della pasta dei Gentiloni, dei Renzi, dei Letta e dei Monti, i contro prevalgono sugli eventuali pro, dal momento che agire da uomini liberi e fieri è più faticoso che agire da proconsoli di un potere altrui. E per piegare il ginocchio, d’altra parte, bisogna avere il senso della trascendenza di Dio, della sua infinita perfezione e della nostra immensa piccolezza, cosa che riesce alquanto indigesta ai modernisti travestiti da cattolici e praticamente impossibile a uomini del tipo di Karl Rahner, Walter Kasper, Paglia, Sosa, Galantino e… Bergoglio. Sta di fatto che esiste una oggettiva convergenza di interessi fra questi due tipi antropologici e infatti, da qualche strana soffiata, comincia a trapelare una ben trista verità: che il suggerimento a Mattarella per sbarazzarsi di Salvini e Di Maio sia venuto dall’altra sponda del Tevere, ossia dal Vaticano. Perché? Semplice: per salvare il partito su cui la neochiesa progressista ha da tempo puntato tutte le sue carte, il Partito democratico, il solo che, oltre ai radicali di Bonino, vuole contemporaneamente più Europa e più immigrati. Il voto del 4 marzo ha mostrato che gli italiani non sono d’accordo: è stato, perciò, anche un voto, anzi, un referendum plebiscitario, contro Bergoglio.
Bene: ora tutti i nodi verranno al pettine
di Francesco Lamendola
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di Roberto Pecchioli
La situazione nella colonia chiamata Italia è molto grave. Grave, ma non seria, come sapeva Ennio Flaiano. Tanto vale prenderla in ridere, con il tormentone del comico ligure Enrique Balbontin: tutto il mondo è Savona! Facile celiare sul cognome dell’economista sardo rifiutato dal Quirinale in nome dei poteri forti, ma una reminiscenza storica fa riflettere. La città di Savona era fiera nemica della più potente Genova. Dopo una delle frequenti rivolte i genovesi vincitori rasero al suolo il centro della città, demolirono anche il duomo e costruirono al suo posto una poderosa fortezza, il Priamar. Un arcigno gigante di pietra scura che da cinquecento anni incombe sul panorama cittadino, i cui cannoni non erano rivolti verso il mare contro invasori stranieri, ma puntati sulla città ribelle.
Ci sembra assai simile la condizione dell’Italia di questi anni, in cui le oligarchie dominanti, di cui la presidenza della repubblica è espressione, hanno ormai gettato la maschera. Sono contemporaneamente anti nazionali, anti popolari, anti sociali. Questo è il dato di fatto, al di là del giudizio di merito sul professor Savona e sul governo abortito. L’Italia è una sequela di aborti –materiali, politici e civili- che la condannano non all’irrilevanza, ma all’estinzione come soggetto autonomo. Anche in questo, ahimè, nulla di nuovo, giacché la storia del Bel Paese è una lunga imbarazzante catena di dominazioni, cedimenti agli stranieri, invasioni favorite da alcuni italiani in odio ad altri. Lo sapeva Dante Alighieri, lo ribadirono grandi spiriti come Petrarca, Leopardi, Vittorio Alfieri e il maestro della scienza politica, Niccolò Machiavelli. Ma la storia patria non interessa nessuno nella nostra sfortunata nazione.
Tuttavia, è la prima volta che il futuro comune è determinato dai “mercati”, dagli “investitori” e dalle agenzie (private!) di rating. Segni dei tempi. Loro votano tutti i giorni attraverso gli algoritmi delle transazioni finanziarie, noi, poveri sudditi, solo ogni cinque anni e la nostra volontà conta quanto il due di picche a briscola. Così, un uomo del sistema come Paolo Savona, indicato infruttuosamente come ministro dell’Economia, diventa simbolo della resistenza all’inaudito sopruso di domenica 27 maggio, una data che entrerà nei libri di storia. Di Paolo Savona, in quasi 60 anni di carriera, tutto si può dire fuorché sia un estremista, un bolscevico o un fascista, tanto da ricoprire il ruolo di ministro in un governo tecnico (!!), di dirigente di Confindustria, oltreché consulente delle massime istituzioni economiche e finanziarie. La sua opposizione al sistema vigente è quella di un riformista, non certo di uno sfasciacarrozze, ruolo del tutto improbabile alla sua età – va per gli 82 – e con la sua storia.
Ma tant’è, vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole. La manina del Quirinale ha agito su pressione di manone più potenti della sua. Ha poco senso domandarsi se gli ordini- pardon i suggerimenti- siano giunti da Berlino, Parigi, Bruxelles, Washington o Francoforte, anche se tendiamo a pensare che le vecchie ruggini con il maggiore condomino della Eurotower, Mario Draghi, sino state più determinanti dei consigli interessati di alcune cancellerie e dei burocrati europoidi. Sta di fatto che il figlio di Bernardo Mattarella di scuola gesuita si è vestito da Mara Maionchi e ha pronunciato il fatidico “per me è no”.
Non sappiamo esprimere giudizi sul contratto di governo tra 5 Stelle e Lega, né siamo in grado di giudicare la qualità della squadra di governo. Tutt’al più, ci ricordiamo i nomi di ministri in carica o del recente passato: Fedeli, Madia, Maria Vittoria Brambilla, Maurizio Martina, Maurizio Gasparri, Angelino Alfano. Il problema è un altro: la sovranità non è del popolo, ma di chi ha occupato le istituzioni in nome della Banca Centrale, dei sommi Mercati, della Commissione Europea. Giornali come il tedesco Spiegel, Bibbia tedesca del progressismo dei costumi e del conservatorismo dei portafogli possono impunemente insultare la nazione intera, minacciarla in conto terzi nel silenzio tra gli applausi scroscianti della tribuna Vip italiana. Unico problema: i fischi delle curve, unite contro l’arbitro e contro quelli che per milioni di italiani sono i mandanti di un’operazione che ha i contorni del golpe bianco, il potere che blinda se stesso contro il suo popolo.
Non è il primo: dopo la caduta del muro di Berlino, evento che anche gli anticomunisti di tutta la vita finiranno per giudicare sciagurato, viste le conseguenze, l’Italia ha vissuto almeno quattro colpi di mano del sistema. Dal 1992, l’attacco giudiziario che ha tolto di mezzo i partiti di governo, consegnato l’economia e le banche agli stranieri (le decisioni sul panfilo Britannia, presenti, guarda caso, Ciampi e Mario Draghi) e avviato i meccanismi dell’attuale gabbia europea. Nel 1995, le mene di Scalfaro contro il governo Berlusconi, sino alla sfacciata operazione che portò Monti a palazzo Chigi nel 2011. Senza dimenticare la guerra contro la Serbia, condotta dall’ex comunista D’Alema in assenza dei passaggi parlamentari previsti dalla Costituzione “più bella del mondo”.
La verità è quella espressa lucidamente da Mario Sapelli, l’economista già indicato come capo del governo e oggetto del primo gran rifiuto del Colle: lorsignori hanno vinto, nelle accademie, negli ambulacri della finanza e della stampa di sistema, dunque fanno pesare la loro vittoria. Chi non è allineato è un eretico, la fortuna è che non vengono apprestati roghi in Campo de’ Fiori. Tutt’al più qualche incidente sospetto, come a Enrico Mattei nel 1962, chissà se a Adriano Olivetti infartuato sul treno per la Svizzera, l’annegamento nella piscina del banchiere centrale Duisenberg, lo strano incidente di Jorg Haider. Ma basta complotti, bando alle paranoie: l’oligarchia ha lavorato benissimo, nei decenni.
Oggi guida il pilota automatico, fatto di trattati considerati superiori alle costituzioni, novelle tavole della legge consegnate a Mosè dal Dio Denaro in cambio della Terra Promessa. Poi ci sono i regolamenti comunitari scritti da oligarchi non eletti che diventano legge in ventotto Stati, alcune migliaia ogni anno, le opportune modifiche costituzionali. Sul trono, le Autorità Finanziarie e Monetarie, sapientissimi oracoli in grado di imporre politiche con la forza di minacce economiche e finanziarie spacciate per scienza infusa. E i popoli? Spettatori paganti, istupiditi dalle parole che non significano più niente: libertà, democrazia, lavoro, diritti, sovranità. Con lorsignori non si scherza, la ricreazione è finita da tempo.
Per quanto riguarda l’Italia, non ci colpiscono per i nostri torti, che pure abbondano, ma per le nostre ragioni. Ci ostiniamo a essere una potenza manifatturiera pur se hanno smembrato la grande industria e dissolto un quarto della capacità produttiva. Insistiamo a esportare, non solo borse di lusso o vini pregiati, ma sistemi industriali e tecnologia. Riusciamo, miracolo sommo, a risparmiare privatamente e nello stesso tempo produrre avanzi di bilancio per placare momentaneamente l’appetito famelico dei signori “creditori”. Eh no, così non va. Lassù hanno deciso che l’Italia deve trasformarsi in un’innocua Disneyland, industrie e infrastrutture devono sparire; possibilmente deve sparire anche il popolo italiano.
TUTTO IL MONDO E’ SAVONA!
di Roberto Pecchioli
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No a Savona è il no all’Italia sovrana. Alla fine la porcata arrivò via il governo populista venuto dalle urne, via il ministro sgradito agli eurarchi nasce il governo tecnico di Palazzo nel nome del terrorismo economico europeo
di Marcello Veneziani
Alla fine, la porcata arrivò. Via il governo populista venuto dalle urne, via il ministro sgradito agli eurarchi, nasce il governo tecnico voluto dal Palazzo, nel nome del terrorismo economico europeo. Finisce un incubo e se ne apre un altro, forse peggiore. Tre mesi e stiamo peggio di prima. Il no a Savona di Mattarella e per sua bocca di tutto l’establishment, è il no all’Italia sovrana.
Si va al voto, Salvini e il centro-destra partono in vantaggio, Di Maio rischia grosso e al suo posto si rivede Diba; ma ora aspettatevi il bombardamento antipopulista, il terrorismo finanziario per seminare panico tra la gente e intimidire gli elettori… Dopo lunga agonia è finita la seconda repubblica ma non si sa che roba stia cominciando: la terza repubblica, la quarta internazionale, la quinta di Beethoveen…
Per ora becchiamoci l’Impero eurocratico e i suoi emissari locali e Cottarelli per accodarci all’Europa e far sbollire i furori populisti. E non voglio pensare a che terremoto accadrebbe se la maggioranza ampia del parlamento, tra fratelli d’Italia, lega e grillini, puntasse sull’impeachment del Presidente della repubblica. Stiamo davanti a una crisi senza precedenti….
Quando vedi schierati dalla stessa parte la Germania italofoba, gli eurocrati, la sinistra, i giornaloni, le agenzie di rating, Mister Spread e il Quirinale, agli italiani non resta che stringersi intorno a Salvini & Savona. Da una parte è il sistema, l’establishment, la Trojka, il primato contabile e finanziario, la conservazione degli assetti, l’apparato ideologico e tecnocratico che ci ha portato fin qui e dall’altra ci sono i popoli, i cittadini, il loro voto e il loro malessere. Capisci che è in gioco la sovranità nazionale e popolare, la possibilità per un governo di ridiscutere gli obblighi e le minacce, e non di subirli. Savona e Salvininon discutono la permanenza in Europa o nell’euro ma il modo di starci e i ruoli pre-assegnati. Tutto questo è vero, e si unisce al richiamo alla dignità nazionale, all’orgoglio italiano calpestato e ferito. Non si tratta di bullismo politico o di prepotenza populista. Non era Savona il toccasana né l’ammazzaeuropa; è semplicemente un lucido e autorevole economista e il migliore dei ministri proposti nella rosa di maggio del duo Salvini-Di Maio.
Impressiona vedere quante mezze calzette e sprovveduti totali vengano accettati dal Quirinale e da tutto l’apparato politico-mediatico-istituzionale in ministeri anche importanti, ma non venga accolto l’unico esperto, competente, che esprime appieno in sede economica la linea del cambiamento e della sovranità nazionale sancita dalla Costituzione e violata in seguito.
Ascoltate con attenzione gli avvertimenti di stampo mafioso e antidemocratico degli esponenti di quel corteo funebre che è la sinistra. A loro stanno bene i più sciamannati dei grillini mentre tolleranza zero verso Salvini, Savona, “la destra” e verso il vero contenuto del cambiamento, voluto e votato dagli elettori. Una posizione ideologica, pregiudiziale, minacciosa, antitaliana che ancora una volta non capisce il senso dei tempi, delle sfide e dei popoli. E si attarda sugli schemini di sinistra-progresso, destra-regresso.
Il quadro è chiaro ma bisogna con onestà e senso critico sottolineare anche due avversità. La prima è che lo schema italiani vittime/ europei carnefici semplifica brutalmente e imprecisamente la questione. Sia come popolo che come classi dirigenti i nostri guai non dipendono solo dai tiranni di fuori ma anche dai cialtroni di dentro, che peraltro rispecchiano il nostro popolo. Non scarichiamo sull’esterno colpe, errori, sprechi, abusi e debiti che derivano da noi stessi. È comodo farlo ma non è veritiero.
La seconda avversità riguarda proprio gli attori del cambiamento. Per ridiscutere gli assetti europei e il ruolo dell’Italia, per rinegoziare i parametri, ci vuole un governo forte, saldo, in grado di affrontare le sfide. E qui ci sale tutto lo sconforto. Salvini e i leghisti sono una squadra su cui con qualche azzardo e alcuni seri contrappesi potremmo anche avventurarci a scommettere.
Ma lo avreste visto un governo gialloverde, coi grillini che non hanno alcuna preparazione, alcuna convinzione, alcuna storia, riuscire a risalire la china e insieme a farsi sentire in Europa? Non sentivate aria di Grecia, di Tzipras e di come poi si sono ridotti? Pensate che un signore sorteggiato sulla ruota dei grillini, tale Conte, avrebbe potuto trattare con la Merkel e con Junker? Pensate che un Di Maio avrebbe potuto affiancarlo dando forza, credibilità e sicurezza al governo? E se tutto questo fosse stata solo una menata per tornare al voto? Partimmo con tante riserve critiche rispetto al nascente governo, ci sforzammo di sospenderle per non remare contro l’Italia che li aveva votati e non bocciarli prima di vederli all’opera.
Ora ci schieriamo inevitabilmente a loro favore quando vediamo la reazione furiosa dell’establishment e l’Italia umiliata. Ma quei due punti restano. E l’idea che tutto questo alla fine si traduca in un’altra campagna di guerra elettorale non ci esalta, mentre ci preoccupa il governo-cuscinetto nato per soffocare nella culla l’onda populista, di farla sbollire con l’alibi di gestire un semestre di scadenze perentorie.
Forza Salvini, Avanti Savona, Viva l’Italia. Però che porcata…
La porcata
di Marcello Veneziani Il Tempo
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