ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 27 luglio 2018

Quante pecorelle ci cascano

Quegli “utili idioti” così utili a Bergoglio 


Pare che nessuno sia riuscito a trovare il testo di riferimento, ma i cultori della materia concordano nell’attribuire il conio del concetto di “utile idiota” a Владимир Ильич Ульянов, politico russo più conosciuto con la traslitterazione occidentale di Vladimir Il’ič Ul’janov e addirittura celeberrimo con lo pseudonimo di Lenin. Secondo Владимир Ильич Ульянов, che poi passò l’usufrutto del concetto al compagno Ио́сиф Виссарио́нович Джугашви́ли alias Iosif Vissarionovič Džugašvili alias Stalin, gli “utili idioti” erano quegli scrittori, quei giornalisti, quegli intellettuali, quei politici che contrabbandavano in occidente il veleno comunista distillato nella Russia sovietica facendo fessi tutti i doganieri della ragion politica, ma soprattutto se stessi. Parlassero pure male dei timonieri, teorizzavano Lenin e Stalin, l’importante era che gli “utili idioti” seminassero fiducia nella Grande Madre Sovietica e suscitassero entusiasmo per il Radioso Avvenire del socialismo universale.

Negli Anni Cinquanta del secolo scorso, di quel geniale concetto si impossessò quel genio di Guareschi, che lo appiccicò sulla schiena dei cattolici intenti a seminare lo Spirito della Rivoluzione nella molle cervice del nascituro Popolo-di-Dio, in attesa che sbocciasse come Spirito del Concilio grazie al concime della Nuova Pentecoste. Politici, intellettuali, giornalisti, preti e sacrestani usi a fornicare col nemico vennero marchiati senza sconti dall’acribia guareschiana. Dal vecchio marpione della santità Giorgio La Pira al giovane delegato degli studenti torinesi di Azione Cattolica Gianni Vattimo, non ne sfuggì uno, tutti esposti sulla pagine di “Candido” con il loro bravo bollo: “Utili idioti” visto si stampi.
Tutto questo per spiegare le imprese degli odierni esemplari di una specie che non si estingue mai. Tramontato il Sol dell’Avvenire, gli “utili idioti” di oggi fanno il gioco dell’unico tiranno dotato di potere assoluto rimasto sulla faccia della terra, Jorge Mario Bergoglio alias Giorgio Mario Bergoglio alias Francesco I. La sola differenza tra l’attuale vescovo di Roma e i colleghi del passato sta nel fatto che, mentre Владимир Ильич Ульянов e Ио́сиф Виссарио́нович Джугашви́ли uccidevano il corpo, lui uccide l’anima. È ordinario magistero aeroportuale con tanto di glossa scalfariana che le anime più infami, al termine della vita terrena cessino di esistere e cadano nel dimenticatoio. Giusto per interdersi, questo sarebbe il destino di quei reprobi che, invece di iniettarsi in vena la misericordia spacciata dalla neochiesa, continuano a credere che Dio sia solo quello Uno e Trino, si ostinano nella pratica obsoleta dei sacramenti maxime il matrimonio tra un uomo e una donna, erigono muri per difendere la fede invece di costruire ponti per perderla, se ne fregano del tragico destino dei microrganismi e della raccolta differenziata: tutte anime destinate alla morte per motu proprio di Bergoglio, che le condanna a morire volentieri.
Un simile tiranno non poteva essere privato dei suoi “utili idioti”. Dunque, ecco all’opera le formichine intente a riparare gli strappi che lacerano le intelligenze momentaneamente lucide e funzionanti davanti a tanto orrore. Formichine che, nella loro “idiozia”, mostrano comunque una furba padronanza del metodo. Analizzano la deriva atea della neochiesa e se ne scandalizzano, rilevano le malefatte di un mondo ecclesiale che non si riconosce quasi più e le denunciano, vedono lo scandalo che proprio non si può tacere e strillano… Poi, al momento di trarre una virile conclusione, spiegano che bisogna inchinarsi all’autorità qualunque cosa pensi e faccia, che la gerarchia non si tocca, che bisogna baciare la sacra pantofola anche se dentro c’è la zampa del caprone. “Chi siamo noi per giudicare?” chiedono alle pecorelle attonite. E le pecorelle, dopo aver intravisto la possibilità di respirare aria buona, tornano all’ovile della perdizione convinte che da qualche parte, sotto il letame, vi sia celata la salvezza. Intanto, il pastore di anime morte può stare tranquillo. Anche questa volta, la ribellione delle pecorelle è stata soffocata, nel letame se non nel sangue.
E quante pecorelle ci cascano. Eppure, non dovrebbe essere difficile riconoscere a chi sia utile l'”idiozia” degli “utili idioti” poiché lo schema seguito nell’esercizio dell'”idiozia” medesima è sempre lo stesso: la situazione è difficile, persino tragica, i sacri testi della Tradizione lo dimostrano, ma noi dobbiamo rimanere fedeli al magistero e, soprattutto, a chi lo esercita perché verrà il giorno in cui il macigno di questo pontificato sarà tolto di mezzo e allora tutto tornerà a fiorire colorato e garrulo come nell’Eden o quasi. L'”utile idiota” non si chiede, o non vuole chiedersi, se Jorge Mario Bergoglio eccetera eccetera sia caduto sulla cattedra di Pietro direttamente dall’oblò di un’astronave aliena o se, invece, ce lo abbia messo questa chiesa che attendeva un papa a sua immagine e somiglianza.
Evitare le domande, come sempre, è funzionale al potere iniquo e, allora, sorge il sospetto che l’iniquità infastidisca solo fino a un certo punto. Se la manifesta “idiozia” dell'”utile idiota” può indurre alla sua assoluzione per seminfermità intellettuale, la sua “utilità” deve invece indurre a un maggior rigore nel giudizio. Gratta l'”idiota” e, spesso, trovi l'”utilitarista” che, essendo “utile” al potere, è sempre “utile” anche a se stesso. Non a caso, gran parte degli “utili idioti” del bergoglismo sono austeri intellettuali in talare pontificanti dalle pagine di qualche sitarello sempre in attesa di un incarichino, di una parrocchietta, di una cappellina fuori mano, di una cattedrina in qualche istituto di scienze religiose e, per via di tale trepidante attesa, devono stare accorti perché, spiegano, “altrimenti cosa faccio?”. Tra verità e menzogna, sanno benissimo che cosa sia verità e cosa sia menzogna, ma alla fine scelgono di patteggiare con la menzogna: altrimenti cosa fanno? Se la macchina infernale ti dà da mangiare e, nonostante tutto, ti tiene al calduccio, seppur sotto il letame, che cosa fai?
Il fatto è che questi “utili idioti” sono dei piccoli burocrati che aspirano al loro posto nel sistema di potere. Parlano volentieri di Cristo, del Vangelo, della povertà, della persecuzione, del martirio, del sangue, ma poi si voltano dall’altra parte: altrimenti che cosa fanno? In attesa dell’incarichino o della parrocchietta, non possono certo compromettersi dando alla Tradizione, di cui conoscono tutto fino all’ultima virgola, ciò che la Tradizione chiede veramente: il sangue e la vita.
Forse è venuto il momento di sottrarre la Tradizione alle fauci degli “utili idioti” che l’hanno ridotta a puro artificio intellettuale per tornare a darle il suo vero nome: Fede. Si comprenderà meglio che questi signori hanno barattato Cristo con le procedure, la realtà con il concetto, la preghiera con gli articoli della Summa, il rito con i merletti convinti che basti cinguettare a memoria i sacri testi per essere cristiani come si deve, anche conguettando alla corte del tiranno stando attenti non metterne in forse il potere.
I più acuti nella loro “idiozia” si premurano di rassicurare le pecorelle recalcitranti che, per adesso, devono stare zitti sulle questioni veramente importanti, ma poi… Poi sì che faranno tutto quello che bisogna fare per cambiare il sistema perverso dall’interno. E i più lo dicondo sapendo già che, una volta dentro il sistema, ne saranno prigionieri come tutti quelli che vi sono entrati per convinzione o per convenienza, per partecipazione entusiastica o con l’intento di sabotare. Tutti ingranaggi della stessa gioiosa macchina in guerra contro Cristo, costretti a girare con lo stesso fine infernale.
Proprio come gli “utili idioti” che lavoravano per Lenin e per Stalin, anche quelli che lavorano per Bergoglio, nel corso del tempo finiscono per smarrire l'”idiozia”, che almeno aveva qualcosa di romantico e disinteressato, e si aggrappano all'”utilità”. Ma l'”utilità” dell'”utile idiota” non è perdonabile.
TRENTA RIGHE. – di Alessandro Gnocchi

Don Bosco e il Papato


Il colloquio con un caro amico, liberale (potrebbe essere un progressista o un normalista, poco cambia) ma devoto di san Giovanni Bosco, e alcuni suoi pii riferimenti al rapporto tra il Santo piemontese e il Papato, presi come modello ideale per il nostro rapporto col Pontificato odierno, mi forniscono lo spunto per brevi considerazioni, che spero gioveranno ai lettori.
L’assunto che gli emuli liberali di san Giovanni Bosco trattengono, a quanto mi è dato di capire, è che il Santo ebbe una devozione e una sottomissione incondizionata al Sommo Pontefice. Dal che si dovrebbe concludere un uguale atteggiamento da parte nostra verso tutti i Pontefici, ma soprattutto verso l’attuale: Papa Francesco.

Subito si affaccia la domanda: che fondamento ha invocare la fedeltà pressoché cieca di certi santi preconciliari al Papato preconciliare per giustificare l’esigenza di una fedeltà altrettanto cieca al Pontificato attuale? E già solo l’uso differente dei termini – Papato e Pontificato – suggerisce la necessità di un approccio differente, di un discernimento che non cada nell’aneddotica; ma vediamo il dettaglio e cerchiamo di comprendere in cosa sia corretto e in cosa opinabile il parallelismo tra la posizione di san Giovanni Bosco e la nostra.

Di san Giovanni Bosco si citano con facilità aforismi filo-pontifici:essere attaccati al Papa “più che il polipo allo scoglio”, “sostenere l’autorità del Papa”, e si ricordano i sogni profetici, le imprese edili (Santuario del S. Cuore) e le attività diplomatiche a servizio di Roma; tutti elementi volti a sottolineare – dicevamo – un’assoluta sottomissione al Sommo Pontefice. In realtà vi sono più motivi per cui tale esempio può essere recuperato solo iuxta modum.
Anzitutto, nel Santo ritroviamo la stessa fedeltà e il medesimo attaccamento non solo al Papa, ma anche ad altri elementi della Tradizione, quali l’abito clericale e la Messa Tridentina. E’ quantomeno poco serio invocare l’imitazione pedissequa del Santo su un punto solo della sua vita, ignorando o addirittura denigrando gli altri – cosa che avviene diffusamente, soprattutto tra i liberali. Evidentemente la tesi in esame rischia di essere una strumentalizzazione del Santo.

San Giovanni Bosco aderisce al cattolicesimo intransigente e dunque la sua dedizione al Papato, all’epoca baluardo del cattolicesimo intransigente, implica una coerenza di vedute. Chiedere oggi un’adesione ‘intransigente’ ad un Pontificato più che liberale pare ancora una volta piuttosto un ricatto strumentale che una indicazione logica e coerente.

San Giovanni Bosco vive negli anni della proclamazione del dogma relativo all’infallibilità del Pontefice, ora conviene ricordare che il Santo sposava la tesi massimalista, secondo cui l’Infallibilità del Papa si estendeva ben oltre gli interventi ex cathedra. Già il Concilio Vaticano I, e ancor più il Concilio Vaticano II, smentiscono dogmaticamente e irreversibilmente l’interpretazione di san Giovanni Bosco, il che suggerisce che le parole del Santo in materia non possono essere impugnate alla lettera, ma chiedono una prudente rilettura. In tal sede dobbiamo dunque prendere atto dell’avvenuta correzione dell’Istituzione al Carisma – da essa non possiamo legittimamente prescindere. Ne esce ridimensionata l’esemplarità del Santo proprio in merito alla questione dibattuta.

San Giovanni Bosco è autore di una Storia Ecclesiastica (1845; 18714) che peraltro, letta oggi, farebbe arrossire i liberali e i progressisti. Si tratta di un semplice opuscolo apologetico ascrivibile all’area culturale della cosiddetta ‘Leggenda Bianca’: in essa la Chiesa è presentata, evidentemente secondo un’ottica teologica piuttosto che storica, come soggetto sempre positivo, di cui si illustrano le glorie e mai gli errori. Da tale scritto del resto emergono meglio gli ideali non confessati del Santo proprio intorno al suo concetto di Chiesa: vi si trova la presentazione sintetica e divulgativa dei Pontefici Santi; di pontefici corrotti non si fa menzione, o li si cita corsivamente in relazione ad eventi oggettivi incensurabili, ma sempre omettendone qualsivoglia giudizio. Inoltre è interessante la minuzia con cui nella Storia Ecclesiastica san Giovanni Bosco riporta il contenuto in sintesi di pressoché tutti i Concili Ecumenici della Chiesa.

Questo ci rivolge due moniti. Anzitutto, il Santo è consapevole della possibilità che ci siano Pontefici non positivi, per quanto incapaci di ostacolare il disegno della Provvidenza, ed evidentemente non chiede e non spende elogi per tali personaggi, preferendo in questo caso tacerne e spostare la propria attenzione allo stato della Chiesa nel suo complesso anziché guardare al solo Rappresentante terreno. Secondariamente, una comprensione profonda e autentica della Chiesa chiede l’assunzione di ogni singolo Concilio ecumenico della medesima.
Ne prendano nota i teorici contemporanei, i quali sovente pretendono l’ automatica esaltazione di Papa Francesco per il solo fatto che è Papa e paiono ignorare (quantomeno nel senso di snobbare) qualsiasi Concilio eccetto il Vaticano II.

Alla luce di simili considerazioni credo che da San Giovanni Bosco possiamo trarre la seguente linea, nulla di più e nulla di meno: i cattolici devono amare la Chiesa ed onorarla; ciò avviene: riconoscendo il disegno della Provvidenza che si svolge benevolo nei secoli, onorando i santi Pontefici, studiando e assimilando il contenuto di tutti i Concili ecumenici, ossequiando il Magistero ordinario (il Santo sarebbe andato oltre, ma i pronunciamenti degli ultimi due Concili ce lo impediscono), evitando qualsivoglia pubblica critica ai superiori (ci sono episodi biografici di san Giovanni Bosco che applicano in maniera eroica tale istanza, fino al punto di scusarsi davanti ad ingiuste accuse dei Pastori). Quest’ultimo punto ovviamente non esclude la possibilità che i superiori errino, né la possibilità di un confronto e di una critica nelle debite sedi, particolarmente in conformità alle norme del Diritto Canonico.

Spero così di aver chiarito in che modo il carisma di san Giovanni Bosco ci istruisce: non certo nel senso di una sottomissione cieca al Pontefice, piuttosto nella forma di un affetto filiale alla Chiesa che, nei momenti critici, si traduce nel criterio di Sem e Iafet: coprire al pubblico le malefatte dei genitori. Quindi non posso ragionevolmente accettare che in nome di san Giovanni Bosco mi si voglia convincere che il Papa va bene per il fatto stesso di essere Papa, potrei invece accettare che mi sia suggerita la linea di chi amorevolmente copre e tace la fatica dell’ora presente in obbedienza al disegno della Divina Provvidenza, pur essendo ben consapevole dell’anomalia che stiamo attraversando.

Beninteso, restano valide anche le linee tracciate da altri più combattivi santi, quali santa Caterina da Siena (per ministero profetico) o San Paolo di Tarso (per ministero apostolico).
Ciò posto e considerato, mi congedo con le parole che il Santo ha posto al termine della sua Storia Ecclesiastica:
Che debbasi imparare dalla Storia ecclesiastica. - Dalla Storia ecclesiastica noi dobbiamo ricavare alcune verità, le quali ci servano di lume e conforto in questo nostro esigilo. E queste sono:

1° Che la Chiesa è manifestamente la figlia di Dio Padre, la sposa di Gesù Cristo e il tempio vivo dello Spirito Santo; perciocché soltanto coll'aiuto divino essa ha potuto sostenersi, propagarsi e crescere in mezzo a tanti e si fieri contrasti, che per lo spazio di circa diciannove secoli le vennero mossi continuamente da ogni parte.

2° Che non dobbiamo per nulla maravigliarci delle guerre fatte o che si faranno alla santa Chiesa, mentre vediamo che contro di essa la guerra incominciò dal primo giorno della sua esistenza.
La causa di questa guerra è una sola, cioè l'odio che gli spiriti delle tenebre portano a Gesù Cristo, il quale odio essi hanno trovato e trovano sempre il modo di trasfondere in un grande numero di uomini, i quali facendosi ministri a questi spiriti infernali, mossi da loro perseguitano la Chiesa unicamente perché sposa di Gesù Cristo.

3° Che una delle prove chiare della divinità della Chiesa cattolica è il non esservi mai stato alcuno il quale, desiderando di amare Iddio e di applicarsi con tutto lo zelo all'esercizio della virtù, per ottenere questo fine abbia pensato di dovere abbandonare la fede cattolica per rendersi protestante o giudeo o turco, o incredulo. Per contro molti dei più dotti e virtuosi fra i turchi, eretici e protestanti abbracciarono la fede cattolica per divenire più virtuosi e salvarsi eternamente.

4° Che un'altra prova della divinità della Chiesa cattolica sta in ciò, che in punto di morte molti infedeli ed eretici e increduli domandarono di entrare in seno alla Chiesa per assicurare la loro eterna salute: mentre in quel punto fatale nessun cattolico mai domandò di farsi eretico o turco o incredulo per salvarsi eternamente.

5° Che la Chiesa cattolica è fondata sull'autorità del sommo Pontefice, e si conserva e si propaga solo in virtù della fede e riverenza che si porta a questa autorità: e che perciò è cosa della massima importanza il propagare ed accrescere la fede e riverenza verso l'autorità del papa.

6° Che tutti i scismatici, eretici e protestanti, esaminando la storia, trovano il giorno in cui incominciò il loro errore e incominciò la serie dei loro maestri, tra il quale giorno e il tempo, in cui fu Gesù Cristo, passa una certa distanza più o meno grande, per modo che i loro primi maestri non possono in nessun modo dirsi di avere ricevuto da Gesù Cristo medesimo la loro dottrina, né di essere immediatamente succeduti agli apostoli. Per lo contrario la storia dimostra chiaro, che il sommo pontefice Pio IX, capo della Chiesa cattolica, è per una catena non interrotta di papi il successore di s. Pietro costituito da Gesù Cristo medesimo: e che perciò la sola Chiesa cattolica è la Chiesa di Gesù Cristo, mentre le altre, benché si usurpino ingiustamente il nome di chiese cristiane, tuttavia non sono chiese di Gesù Cristo, ma chiese di quell'eresiarca o capo setta, da cui ciascuna di esse ebbe origine.

7° Finalmente comunque vediamo la Chiesa perseguitata, nulladimeno dobbiamo rimanere fermi nella fede, tenendo per certo, che la guerra finirà col trionfo della Chiesa e del suo supremo Pastore. È pertanto nostro dovere di conservare ed accrescere in noi la fede, la speranza e la carità per meritarci di aver parte alla gloria, che Dio tiene preparata ai veri cattolici in Paradiso, dove saremo felici per tutta l'eternità.
di Domenico Svampa

Cosa serve una etica teologica se non si annuncia il Cristo Dio?

Speravamo di essere entrati già in “ferie”, ma a quanto pare – papa Francesco – vuole deliziarci con nuove “riflessioni” non solo monotematiche e autoreferenziali… ma vuole anche ricordarci che NON E’ NECESSARIO convertirsi a Cristo Gesù, per far andare avanti questo mondo allo sfascio, ma bensì “costruire ancora ponti” e convertirsi alla  NUOVA ETICA ECOLOGICA…..
E’ questo quanto emerge dal Discorso che papa Francesco ha consegnato “Ai Partecipanti alla III Conferenza internazionale di Catholic Theological Ethics Today”, si legga qui il testo ufficiale. Possibile che abbiamo sempre “noi” da ridire? Oppure non è forse vero quanto di sconcertante leggiamo dalle parole del pontefice?
Il Discorso di papa Francesco è, anzitutto, autoreferenziale, cita solo se stesso, la vera Dottrina Sociale della Chiesa con i suoi contenuti magisteriali, non esiste più…. lentamente ma inesorabilmente – Bergoglio – non la cita più in modo tale che così, per le nuove e future generazioni, pastoralmente parlando verrà introdotto il NUOVO PENSIERO che non è più cattolico, come andiamo a dimostrare.
  • Dice papa Francesco: Il tema del vostro convegno si muove in una prospettiva a cui molto spesso io stesso ho fatto riferimento: “ponti e non muri”….
Per dare una saggia risposta che condividiamo totalmente, rimandiamo alle spiegazioni offerte di recente dal domenicano Padre Riccardo Barile, cliccando qui: Ponti o muri? Costruire entrambi per la conversione…. servono ENTRAMBI, lo dice la Sacra Scrittura, caro Bergoglio!!
Dunque, secondo L’IDEOLOGIA E NON LA TEOLOGIA di papa Francesco – in questa epoca di grandi sfide e di tempi CRITICI – non serve convertirsi a Cristo ma ALL’ETICA ECOLOGICA! Certo, egli non ha detto queste parole ma se leggete il Discorso, nel quale non si pronuncia mai la conversione, men che meno GESU’ CRISTO, ci chiediamo a cosa serve parlare di un incontro di etica TEOLOGICA!!!
Se, come sappiamo, l’etica (che significa ed indica il carattere, il comportamento, costume o consuetudine dell’uomo) è quella dottrina o indagine, o filosofia se preferite, attraverso la quale si studia e si analizza il comportamento UMANO davanti ai due concetti DEL BENE E DEL MALEe che la teologia (dal greco antico θεός, theos, Dio e λόγος, logos, “parola”, “discorso”, o “indagine”) è una disciplina che PARLA DI DIO o che studia i caratteri che le religioni riconoscono come propri del divino in quanto tale….  cosa c’azzecca L’ETICA ECOLOGICA??
Se questa Conferenza Internazionale si riunisce per discutere una ETICA TEOLOGICA, cosa c’azzecca l’etica ecologica? E’ evidente la forzatura nel Discorso imposto da Bergoglio!! Non a caso, abbiamo osservato che il papa non solo cita solo se stesso, ma non cita mai la vera Dottrina sociale della Chiesa, e neppure la Sacra Scrittura, neppure una parola su Dio (etica teologica), sulla CONVERSIONE al Cristo Signore (vera etica che discerne il BENE DAL MALE).
Tutte le “risorse” proposte (o forse imposte?) ruotano attorno ALL’UOMO, mai a Gesù che non viene neppure proposto quale vera (ED UNICA) RISORSA per una autentica ETICA TEOLOGICA
C’è piuttosto una INVERSIONE delle priorità e dei concetti. Solo sul finale, infatti, papa Francesco fa riferimento alla PAROLA DI DIO quale forma di “fedeltà” per procedere nei vari progetti…
Peccato però che questi progetti partono dal basso. Secondo Bergoglio e la stessa Commissione, a quanto pare, solo attraverso L’ETICA ECOLOGICA (secondo il pensiero di Bergoglio), si prospetterebbe questa “presunta” fedeltà alla Parola di Dio mentre, l’insegnamento bimillenario della Chiesa e la stessa Dottrina Sociale della Chiesa insegna il contrario, ossia che: PRIMA CI CONVERTIAMO A CRISTO e poi, grazie a questa FEDELTA’ alla Parola di Dio (e ai Sacramenti ai quali si accede in stato di GRAZIA) allora possiamo costruire ponti, possiamo vivere ecologicamente in modo retto…
Una volta si PROCLAMAVA IL CRISTO-DIO, i Santi, il magistero della Chiesa, oggi, afferma un pontefice che per vivere bene e con coscienza: “Abbiamo bisogno di una leadership che aiuti a scoprire e vivere un modo più giusto di stare al mondo come partecipi tutti di un destino comune…
Una leadership – dunque – per SCOPRIRE COME VIVERE E A STARE NEL MONDO? Ma come, dopo duemila anni non abbiamo ancora capito nulla??
PARTECIPI TUTTI DI UN DESTINO COMUNE?? No, caro Bergoglio, noi battezzati… non abbiamo in comune il destino BUDDISTA della reincarnazione, ma semmai il destino RIVELATO DAL CRISTO!! NON abbiamo bisogno di leadership… MA DI SANTI!!
A questi “cultori dell’etica teologica” chiediamo e sollecitiamo cristianamente e fraternamente di CONVERTIRSI AL CRISTO VERO DIO, e poi a discutere sull’etica da proporre… perchè, di una etica teologica SENZA GESU’ CRISTO, non ci facciamo proprio nulla.
Capiamo che sono giornate molto calde ma, per favore, andatevi a rinfrescare le idee, magari lasciando perdere le commissioni e sostando più lungamente davanti al Santissimo, in ginocchio sui ceci ed in silenzio, che di cretinate ne è pieno il mondo, senza la necessità di aggiungerci anche questi Discorsi bergogliosi, producendo solo una… “afa-teologica“. Qualcuno regali a papa Francesco un CONDIZIONATORE (cattolico) per rinfrescarsi le idee!!

L'EPOCALE PASSAGGIO DI CIVILTA'?

Civiltà cristiana? verso un passaggio di civiltà. L'Australia un progetto pilota ma è una nazione asiatica? Silenzio sull'apartheid alla rovescia in Sud Africa. Oicofobia: i popoli si sentono traditi dalle élite, clero compreso 
di Francesco Lamendola  

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L’identità, e di conseguenza la collocazione geopolitica, di un popolo, di una nazione e di uno Stato, dipendono più dai fattori culturali o da quelli economici? Perché se risultasse che, alla lunga, e specialmente nel mondo di oggi, dominato dall’economia, prevalgono i fattori economici, allora le vecchie identità, basate quasi sempre su legami di tipo essenzialmente culturale, spirituale e affettivo, dovranno essere radicalmente riviste e modificate, e l’intero assetto del mondo, dalle nazioni più piccole alle più grandi, andrebbe rimesso totalmente in discussione, aprendo una fase di trasformazione e di instabilità, dagli esiti imprevedibili.
Non c’è alcun dubbio che i fattori economici, specie nel mondo contemporaneo, esercitano un forte influsso sulle vicende dei popoli e sulla stessa percezione che essi hanno del proprio destino. Per fare un esempio, tali fattori hanno giocato senza dubbio in ruolo notevole, forse decisivo, nel crollo del sistema comunista in Europa e nello smembramento della Iugoslavia, ed è possibile che ne giochino uno analogo riguardo al futuro del Belgio, diviso fra due componenti assai diverse, non solo a livello linguistico e culturale, ma anche economico, benché sia difficile stabilire un netto confine tra le due sfere (in Belgio circola questa battuta: nelle fabbriche della Vallonia c’è un cartello che dice: Qui si parla francese; nelle fabbriche delle Fiandre c’è un altro cartello con su scritto: Qui non si parla, si lavora). Però la sopravvivenza di uno Stato o la sua disgregazione, anche pacifica e perfettamente consensuale (come è accaduto nel caso della Cecoslovacchia) non riguarda la definizione della sua identità, ma il suo assetto esteriore, che, per quanto importante, è solo una parte della vita di una nazione e di un popolo. Quando si parla della ridefinizione dell’identità, si intende essenzialmente un “passaggio di civiltà”, vale a dire la trasformazione più profonda e radicale che sia dato immaginare: nulla, al confronto, è altrettanto significativo e, inevitabilmente, così definitivo. Tale è il caso in un popolo che viene assorbito da un altro popolo più grande (vedi, ad esempio, il destino dei Sorabi nella Germania orientale), o che si converte ad un’altra religione e ad un altro sistema di valori, come accadde ai Paesi del Vicino Oriente e del Nord Africa, già cristiani e bizantini, allorché vennero conquistati dagli arabi e furono gradualmente islamizzati. Nessun europeo, visitando l’Algeria o il Marocco di oggi, penserebbe, a meno che lo abbia studiato sui libri di storia, che quei Paesi erano, nel IV secolo, i più “romani” e i più cristiani del mondo occidentale, e che lì ebbero i natali uomini come sant’Agostino, perché quel passato è oggi del tutto scomparso, e solo delle rovine archeologiche ne fanno ancora testimonianza. Se è per questo, anche il turista odierno che si reca in vacanza a Pula, Rijeka o Zadar può ignorare che quelle città erano italianissime fino a settant’anni fa e si chiamavano Pola, Fiume e Zara; in questo caso, però, il passaggio di sovranità e la sostituzione di popolazione (l’esodo degli italiani e l’arrivo d’immigrati slavi) non è stato un vero passaggio di civiltà, perché la civiltà italiana e quella croata, pur con le debite differenze, erano e sono parte di una stessa identità, quella europea (e cattolica), mentre nel caso della Siria, dell’Egitto, del Nord Africa e, infine, dell’Asia Minore (l’odierna Turchia) il passaggio è stato dal cristianesimo e dall’Occidente all’islamismo e all’Oriente. Un altro passaggio di civiltà è stato quello dell’area dell’odierno Afghanistan e di alcune regioni che oggi fanno parte delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale: alla loro identità buddista si è sovrapposta quella islamica, che nel 2001, sotto il regime dei talebani, è culminata, anche visivamente, nella distruzione delle grandi statue dei Buddha di Bamiyan, giudicate idolatriche dai fondamentalisti e perciò meritevoli di sparire. Ebbene: quel che si sta delineando in questo principio del terzo millennio, è un possibile “passaggio di civiltà” di alcuni popoli e nazioni che, di fronte alle sfide della globalizzazione, dubitano di poter sopravvivere se non adattandosi al cambiamento e in un certo senso anticipandolo, cioè compiendo una fuga in avanti, così da non trovarsi “tagliati fuori” dai dinamismi geopolitici in sempre più rapida evoluzione e trasformazione.

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Oicofobia: i popoli si sentono traditi dalle élite, clero compreso, e temono di perdere la loro identità?

A questo punto, il tema della ridefinizione della propria identità si intreccia con quello della paura di perdere le proprie radici, in un doppio movimento contrastante, di attrazione e repulsione verso quel futuro culturalmente indifferenziato che la globalizzazione sembra offrire a tutti i popoli della terra; cioè l’alternativa sembra che sia o rinunciare a essere quel che si è, per attrezzarsi meglio alle sfide economiche del futuro (ed è, in parte, la via intrapresa dagli Stati europei che hanno ceduto quote significative della loro sovranità per entrare a far parte dell’Unione europea, restando però nello stesso ambito di civiltà, immigrazione a parte) oppure arroccarsi a difesa delle proprie radici e tradizioni, condannandosi, però, almeno in apparenza, a esser gradualmente sorpassati dai grandi movimenti dell’economia e della finanza. Un caso piuttosto caratteristico è quello dell’Australia, un Paese-continente geograficamente isolato, che, dopo aver coltivato intensamente i propri legami con la madrepatria britannica per oltre due secoli, sembra trovarsi al bivio di un eventuale passaggio di civiltà: alcuni suoi leader e una parte, per adesso minoritaria, della popolazione guardano all’Asia come al loro naturale interlocutore del prossimo futuro, e pensano che restare legati alla monarchia lontana e non più imperiale monarchia inglese non gioverà alla difesa efficace dei loro interessi come nazione indipendente. E qui il tema della identità s’intreccia, a sua volta, con il tema dell’oicofobia, che riguarda un po’ tutti i Paesi occidentali.

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Oicofobia, il primo significato è quello inventato, o meglio reinventato, da Roger Scruton, autore del Manifesto dei conservatori.

Esistono due differenti significati della parola oicofobia, che oggi viene continuamente adoperata, a sproposito e a proposito. Il primo significato è quello inventato, o meglio reinventato, da Roger Scruton, nel Manifesto dei conservatori, ed esprime il timore di vedere invasa la propria “casa”, nel senso più ampio del termine, da elementi terzi, completamente estranei ad essa, con il rischio di perdere il proprio senso di appartenenza e d’identità, insieme a tutte le proprie sicurezze. Il secondo, coniato da Alain Finkielkrautnel libro L’identità infelice, indica, letteralmente, l’odio per la casa natale, e, nello stesso tempo, la tendenza a valorizzare le “differenze culturali”, cioè, in buona sostanza, a esaltare in maniera unilaterale, e forse esagerata, i meriti altrui, le benemerenze altrui, le civiltà diverse dalla propria, a tutto demerito di quella cui si appartiene. In questo secondo significato, l’oicofobia è realmente il grande male, il tumore devastante che sta conducendo a morte l’anima occidentale (usiamo la parola “occidentale” per amor di chiarezza, anche se non l’approviamo, perché, come abbiamo spiegato altre volte, si basa su di una semplificazione geopolitica e culturale che non trova riscontro nella realtà). Gli occidentali sono rosi da un segreto senso di colpa, da un cocente auto-disprezzo, da un distruttivo disamore di sé, che li porta a guardare con idealistica ammirazione a tutto ciò che viene dall’esterno e a che appare estraneo alla loro cultura; e quanto più appare estraneo, tanto meglio. Tradotto sul piano intellettuale, religioso, estetico, perfino giuridico, questo sentimento conduce inevitabilmente all’indebolimento sempre più grave, e infine condurrà alla morte, la civiltà di cui facciamo parte; anche se ci corre  l’obbligo di precisare, per l’ennesima volta, che la nostra vera civiltà è la civiltà cristiana e non la civiltà moderna, una anti-civiltà che ha preso il posto di quella e che ha cercato di cancellarne perfino le tracce, nella sua pretesa di rifare un mondo nuovo e di costituire un modello, insuperabile e perciò definitivo, per tutti i popoli e per tutte le culture. Modello che ora, appunto, è in crisi di identità.
Ha scritto in proposito il politologo americano Samuel P. Huntington nel suo ormai classico Lo scontro delle civiltà (titolo originale: The Clash oth Civilizations and the Remaking of World Order, 1966; traduzione dall’inglese di Sergio Minucci, Milano, Garzanti, 1997, 2000, pp. 218-223):
A differenza di Russia, Turchia e Messico, l’Australia è sempre stata,  sin dalle sue origini, una società occidentale. Per tutto il XX secolo è stata intimamente legata alla Gran Bretagna prima e agli Stai Uniti poi e durante la guerra fredda ha fatto parte non solo dell’Occidente ma anche della coalizione spionistico-militare britannico-americana-canadese-australiana che dell’Occidente era asse portante. All’inizio degli anni Novanta, tuttavia, i leader politici australiani decisero, in buona sostanza, che l’Australia dovesse staccarsi dall’Occidente e definire la propria identità come società asiatica e coltivare stretti legami con i propri vicini territoriali. L’Australia, dichiarò il suo primo ministro Paul Keating, non doveva più essere una “filiale dell’impero”, ma diventare una repubblica e puntare a “confluire” nell’Asia. Questo era necessario per la sua identità di Paese indipendente. “L’Australia non può presentarsi agli occhi del mondo come una società multiculturale, stabilire un legame convincente con l’Asia e contemporaneamente restare, almeno dal punto di vista costituzionale, un Paese marginale”. L’Australia, dichiarò Keating, ha sofferto innumerevoli anni di “anglofilia e torpore” e perpetuare l’associazione con la Gran Bretagna avrebbe avuto un effetto “debilitante sulla nostra cultura nazionale, sul nostro futuro economico e sul nostro destino in Asia e nel Pacifico”. Simili sentimenti furono espressi anche dal ministro degli Esteri Gareth Evans. La decisione di ridefinire l’Australia come un Paese asiatico si fondava sul presupposto che il destino delle nazioni viene forgiato molto più dall’economia che dalla cultura. L’incentivo maggiore è venuto dal dinamico sviluppo delle economie est-asiatiche, che ha a sua volta stimolato una rapida crescita degli scambi commerciali tra Australia e Asia. (…) Nonostante questi legami economici, tuttavia, non sembra che il tentativo di asianizzazione dell’Australia presenti alcuno dei prerequisiti necessari perché un Paese in bilico possa operare con successo un passaggio di civiltà. Innanzitutto, ancora nel 1995 la classe politica australiana non appariva affatto compattamente entusiasta di tale corso, e i leader del Partito liberale si mostravano viceversa perplessi o contrari. Forti critiche venivano al governo laburista anche da un ampio numero di intellettuali e giornalisti. In breve, non esisteva un consenso generale tra le élites di potere australiane. In secondo luogo, l’opinione pubblica ha mostrato un atteggiamento ambiguo. Dal 1987 al 1993, la percentuale di cittadini australiani favorevoli a porre fine alla monarchia era passata dal 21 al 46 per cento. Poi, però, il sostegno in tal senso iniziò ad affievolirsi e a scemare. (…) Terzo e più importante punto: le élite dei Paesi asiatici hanno esibito nei confronti delle proposte australiane una freddezza ancora maggiore di quella palesata dalle élite europee nei confronti della Turchia. Hanno affermato esplicitamente che per far parte dell’Asia, l’Australia dovrebbe diventare una nazione genuinamente asiatica, e ritengono ciò improbabile se non impossibile. (…) Gli asiatici sottolineano una contraddizione tra la retorica filo asiatica degli australiani e il loro stile di vita perversamente occidentale. (…) “Dal punto di vista culturale, l’Australia è ancora europea”, ha dichiarato nell’ottobre 1994 il primo ministro malaysiano Mahathir, “… noi pensiamo che sia europea”, e dunque l’Australia non dovrebbe entrare a far parte dell’Eaec, il comitato per l’economia dell’Asia meridionale. (…) Gli asiatici, in breve, sono fermamente  intenzionati a escludere l’Australia dal loro club per lo stesso motivo che spinge gli europei a escludere la Turchia dal proprio: sono diversi. Al primo ministro Keating piaceva dire  che avrebbe trasformato l’Australia da un Paese tagliato fuori ad uno “tagliato dentro” l’Asia. Il che è un controsenso: non si può essere “tagliati dentro”. Come ha affermato Mahatir, cultura e valori costituiscono i principali ostacoli all’unificazione tra Australia e Asia. Periodici scontri sorgono in merito all’adesione dell’Australia alla democrazia, alla difesa dei diritti umani, alla libertà di stampa, e alle loro proteste per le violazioni dei diritti perpetrate di fatto dai governi di tutti gli Stati limitrofi. “Il vero problema dell’Australia nella regione”, ha dichiarato un alto diplomatico australiano, “non sta nella nostra bandiera, ma nei nostri valori basilari. Credo che non esista un solo australiano disposto ad abbandonare uno soltanto di quei valori pur di essere accettato nella regione”. Non meno grandi sono le differenze di carattere, stile e comportamento. Come sostiene Mahatir, nel perseguire i loro obiettivi nei rapporti con gli altri, gli asiatici adottano generalmente un modo di fare sottile, indiretto, ambiguo, pragmatico, conciliante e non moralistico. Quello australiano, per contro, è il popolo più schietto, diretto, esplicito e – direbbe qualcuno – insensibile di tutto il mondo anglofono. Un simile scontro di cultura risulta in modo ancor più evidente negli atteggiamenti assunti dallo stesso Paul Keating con gli asiatici. Keating incarna le caratteristiche nazionali australiane elevate all’ennesima potenza. È stato descritto come un “politico ruvido”, dotato di uno stile “innatamente provocatorio e pugnace”. Egli stesso non ha esitato a etichettare i propri oppositori politici come una ‘massa di rifiuti umani’, ‘gigolò profumati’ e ‘pazzi criminali dal cervello bacato’. Nel suo perorare l’asianizzazione dell’Australia, Keating finiva immancabilmente con l’irritare, sbigottire e contrariare con la sua rude franchezza i leader politici asiatici. Il divario tra le due culture era così profondo da impedire al sostenitore della loro convergenza di accorgersi come il suo stesso comportamento fosse inviso ai suoi pretesi fratelli culturali.
Si può pensare che politici come il leader laburista australiano Paul Keating siano le avanguardie di un nuovo modo d’intendere la politica, che privilegerà sempre più i fattori economici a scapito di quelli culturali, e che, pertanto, non esiterà a por mano a un radicale progetto di trasformazione, fino a operare dei volontari passaggi di civiltà (mentre finora i passaggi di civiltà sono avvenuti sempre sotto la spinta di pressioni esterne dirette ed esplicite). In tal caso, l’Australia sarebbe un progetto-pilota che potrebbe essere imitato da altri, di sganciamento da una civiltà occidentale percepita come decadente e in crisi irreversibile, e di ingresso in un’altra sfera di civiltà, percepita come prestigiosa per i suoi successi economici (le “tigri asiatiche” in ascesa industriale e finanziaria). Per una serie di ragioni, soprattutto storiche e geografiche, il caso dell’Australia è un caso-limite, perché si tratta realmente di un Paese “in bilico” fra due alternative radicalmente diverse; e tuttavia, nel vertiginoso accorciarsi delle distanze, non solo spaziali, ma anche produttive e comunicative, del mondo contemporaneo, il suo esempio potrebbe essere significativo anche per altri popoli e nazioni che si trovano in posizione meno marginale. Intanto, prendiamo nota che il destino di tutti gli ex Dominionsbritannici presenta, in misura maggiore o minore, caratteristiche assimilabili a al caso australiano. A parte la Nuova Zelanda, ancor più isolata dell’Australia e quindi legata al suo stesso destino, il Sud Africa appare caratterizzato da una crescente apartheidalla rovescia (anche sei nostri mass media sono diventati improvvisamente ciechi, sordi e muti al riguardo, mentre prima, quando era rivolta a danno dei neri, ne parlavano continuamente), che costringerà i bianchi alla fuga e porterà alla completa africanizzazione di quel Paese - e, quasi certamente, a un regresso economico senza precedenti; mentre il Canada si trova in una posizione simile a quella dell’Australia, con la sola differenza che il suo vicino non è l’Asia, ma gli Stati Uniti, cioè una nazione affine per lingua, cultura, religione, valori, e che già fin da ora la sua economia è talmente integrata con quella statunitense, che si può parlare di una avvenuta fusione quasi perfetta. Se al posto degli Stati Uniti ci fosse stata l’Asia, il destino del Canada sarebbe stato un “passaggio di civiltà”.Resta però la domanda: si può operare un passaggio di civiltà con la stessa naturalezza con cui si opera una transazione commerciale internazionale, ad esempio la fusione tra la FIAT e la Chrysler? I popoli possono assoggettarsi volontariamente a siffatte trasformazioni, che, secondo ogni evidenza, se si verificano, sono definitive e non più reversibili?

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L’identità, e di conseguenza la collocazione geopolitica, di un popolo, di una nazione e di uno Stato, dipendono più dai fattori culturali o da quelli economici? 

Questi interrogativi, che sono molto seri perché riguardano il nostro destino e quello dei nostri figli e nipoti, ci riportano al caso dell’Europa. Anche se in un contesto storico, culturale e geopolitico totalmente diverso da quello australiano, l’Europa, negli ultimi decenni, sta vivendo una crisi di identità senza precedenti, aggravata da fattori economici (e demografici) regressivi, che hanno portato le sue élite alla conclusione che, per sopravvivere, essa deve unirsi in un solo blocco, in modo da poter competere con gli altri colossi internazionali, specialmente sul piano economico-finanziario. Ciò, tuttavia, ha portato a una progressiva riduzione del patrimonio identitario delle singole nazioni, le quali, a un certo punto, hanno percepito il pericolo, reale e imminente, di una perdita delle proprie radici e di una radicale alterazione della loro cultura, cioè, in definitiva, l’equivalente di un “passaggio di civiltà”. La sensazione si è rafforzata a causa delle politiche tenute dalle élite nei confronti del fenomeno delle migrazioni dall’Asia e soprattutto dall’Africa, che hanno preso, via, via, le dimensioni e le caratteristiche di una vera e propria invasione, sebbene, per ora, relativamente  incruenta (è di ieri la notizia che una massa di 600 africani ha scavalcato di forza la recinzione, alta sette metri, che separa l’enclavespagnola di Ceuta dal Marocco, entrando così in territorio dell’Unione europea). Ci sono poi molti altri segnali, grandi e piccoli, che preoccupano i popoli europei e fanno crescere la distanza fra il loro sentire e la politica delle loro élite. Le scene selvagge di furore e distruzione che si sono verificate in Francia dopo la vittoria ai mondiali di calcio della squadra nazionale “francese”, composta quasi tutta di africani, dicono la stessa cosa; per non parlare degli stupri etnici di Colonia del Capodanno 2016. Oicofobia: i popoli si sentono traditi dalle élite, clero compreso, e temono di perdere la loro identità. Non vogliono questo. Hanno torto? 


L'EPOCALE PASSAGGIO DI CIVILTA'?

Ma l’Australia è una nazione asiatica?

di Francesco Lamendola


VIDEO: LA VERITA' SU BERGOGLIO

    Intervista completa a Mons.Antonio Livi contro Bergoglio e concilio vaticano II. L’elezione di Bergoglio, orchestrata dai teologi malvagi ed eretici detti di San Gallo per portare la Chiesa verso il Luterani. Operazione che parte già negli anni '60  

Intervista completa a Monsignor Antonio Livi contro Bergoglio e concilio vaticano II


L’elezione di Bergoglio, orchestrata dai teologi malvagi ed eretici detti di San Gallo (Kaspers, Marx, Daniels) per portare la Chiesa verso il Luterani. Operazione che parte già dai tempi di Giovanni XXIII negli anni '60.


Fonte: Mandarancio rosso del 19/05/2018 e del 25 Luglio 2018

 http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/archivi/video/6504-video-la-verita-su-bergoglio

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