Chi è davvero vivo e chi è davvero morto. Gli uomini moderni s’illudono di poter vivere in eterno perché sono invidiosi di Dio: hanno paura della morte pur sapendo che è inevitabile, dimentichi che la vita non è proprietà umana
di Francesco Lamendola
Per due volte, a distanza di otto secoli entrambe le volte, nell’821 e nel 1599, il corpo di Santa Cecilia è stato riesumato dal sepolcro, la prima da papa Pasquale I, la seconda sotto il pontificato di Clemente VIII: ed entrambe le volte esso venne trovato incorrotto. Un miracolo? Lo si giudichi come si vuole; certo, un fatto che va contro tutte le leggi a noi note della biologia e della fisiologia. Un corpo umano non può conservarsi intatto per più di qualche giorno, dopo che ha cessato di vivere, a meno che venga imbalsamato o comunque trattato con apposite tecniche e procedure di conservazione. I credenti non hanno, o non dovrebbero avere alcun timore di adoperare la parola “miracolo”: il concetto che quella parola designa, non li spaventa e non li intimidisce. Se ciò accade, vuol dire che la cultura moderna, con il suo naturalismo e il suo razionalismo scettico, è penetrata così a fondo nella loro mente, che li ha resi dei credenti nominali: infatti, chi si rifiuta di ammettere la possibilità del miracolo, di certo non è più un vero credente.
Uno scienziato può essere scettico e materialista, credere solo alla scienza e rifiutare di credere ad altro; d’altra parte, nulla vieta che uno scienziato creda alla scienza per ciò che è di competenza della scienza, e allo stesso tempo sia un uomo di fede perché crede in Dio e, quindi, crede anche nella possibilità del miracolo: la fede, per lui, è superiore all’umano conoscere, né la fede contraddice la ragione, semplicemente la supera. Un credente, invece, in quanto credente non esclude, per principio, la possibilità del miracolo: se lo facesse, non sarebbe più un credente, ma un razionalista irreligioso, un materialista e un naturalista .
Così ricorda quell’episodio il giornalista e scrittore Willy Pocino nel suo libro Le curiosità di Roma (Roma, Newton Compton Editori, 1985, 2005, pp. 96-98):
Papa Pasquale I (817-824) da tempo faticosamente cercava i resti di Santa Cecilia per deporli, come quelli di altri martiri, in luogo più sicuro, entro la cerchia delle mura, perché le scorrerie saracene esponevano a troppi pericoli i cimiteri extra urbani. Finché una domenica mattina in San Pietro, colto da sopore mentre pregava, gli apparve, come in una visione, la giovane Santa, che lo esortava a continuare le ricerche delle sue spoglie e lo guidava verso il luogo dove finalmente le avrebbe trovate. Ed infatti, poco dopo, nel Cimitero di S. Callisto tornò alla luce il suo corpo rimasto miracolosamente intatto, avvolto nella veste candida trapunta d’oro, così come lo aveva pietosamente composto papa Urbano I (222-230).
Questo evento è narrato in un affresco del XII secolo conservato nella Basilica di S. Cecilia in Trastevere, riedificata dallo stesso Pasquale I per accogliere la tomba della martire.
Sebbene deteriorato dal tempo, questo affresco rivela ancora delicatezza di immagini, eleganza di linee, musicalità di ritmo compositivo, vivacità narrativa. Tutti elementi propri della pittura romanica nell’Urbe ancora legata alla tradizione classica.
Ma il fascino maggiore di questo affresco è la suggestione del miracolo che guidò l’ignoto pittore a rievocare quella visione e il ritrovamento del corpo intatto della santa. (…)
Nel corso di una ricognizione effettuata nell’antica basilica di Santa Cecilia in Trastevere il 20 ottobre 1599 (alla quale furono presenti, tra gli altri, due grandi studiosi, Cesare Baronio e Antonio Bosio), fu rinvenuto il corpo della santa in perfetto stato di conservazione, come già lo aveva trovato papa Pasquale I nel IX secolo.
Il Cardinale Paolo Emilio Sfondrati, per tramandare ai posteri il ricordo di questo avvenimento, che aveva commosso tutta Roma, incaricò lo scultore ticinese Stefano Maderno di eseguire una statua che raffigurasse la Santa nella stessa posizione in cui era stata trovata nella sua antica arca di cipresso. E il Maderno la raffigurò riversa sul fianco destro come abbandonata in un sonno profondo, col volto girato verso terra, nascosto nella massa dei lunghi capelli. E il collo reca il segno del martirio. Ma le mani semiaperte, le forme morbidamente modellate hanno palpiti di vita. È come se lo scultore avesse animato la sua creazione col soffio vitale della sua stessa anima.
Dal 1601 la statua appare sotto l’altare maggiore della chiesa, tra preziosi marmi policromi.
Il rifiuto della mortalità si accompagna al rifiuto della sofferenza. Per l’uomo moderno, sono le due grandi maledizioni contro le quali ha deciso di lanciare la sua crociata.
C’è una sola parola per definire la statua del Maderno, che riproduce fedelmente il corpo della Santa, così come fu rinvenuto al momento della sua riesumazione: commovente. Vi sono un tale pudore, una tale castità, una tale grazia, una tale dolcezza in quel giovane corpo abbandonato, con la testa girata verso terra, senza dubbio perché era scivolata in quella posizione dopo essere stata posata sul collo, così lievemente che il segno della decapitazione sembra quasi una sottile catenina indossata a mo’ di collana, da lasciare profondamente commossi. La morte stessa, una morte violenta, portata dalla mannaia del carnefice, pare che non abbia osato infierire contro di lei; pare che abbia avuto vergogna delle triste missione che doveva compiere, e che abbia trattato quel corpo con estremo rispetto, come un fiore reciso che si pone nel vaso con ogni riguardo, affinché i suoi petali non si sciupino e non subiscano la più piccola offesa. In altre parole, sembra che la Santa sia viva: sembra che sia solo addormentata, con pudore, ma nello stesso tempo con abbandono, come potrebbe capitare a una fanciulla, a una semplice bambina sorpresa dal sonno, a cui non ha saputo resistere. E sorge, a questo punto, un interrogativo, una domanda di portata universale, osservando quel fragile corpo di una morta che pare ancor viva, a distanza di secoli e secoli da quando la sua anima è volata via da quelle povere membra inanimate: chi è veramente vivo e chi è veramente morto, dopotutto? Che vuol dire vivere, che vuol dire morire? Noi siamo vivi, e lei è morta? Ma ne siamo proprio sicuri? Non è forse vero che vive colui che vive per sempre, ed è quasi come se fosse morto colui che si avvia a morire? Una persona, morendo, sparisce nel nulla, oppure incomincia a vivere nella dimensione dell’eternità? E finché una persona è viva, qui, sulla terra, ma insidiata da ogni parte dalla possibilità di morire, in qualsiasi momento e per le cause più varie, talvolta le più banali, si può dire che sia realmente viva? Non è forse viva in maniera precaria, in maniera provvisoria, in maniera temporanea? Non è viva nel senso che le viene concesso di vivere ancora per un poco, per qualche anno, o forse appena per qualche giorno, per qualche ora? Ma questa specie di vita sempre appesa a un filo, sempre minacciata da cento imprevisti, si può considerare “vita” in senso assoluto? Non è forse più vita quella dei trapassati, che sono morti alla vita terrena, ma sono nati alla vita eterna?
Vale la pena di rileggersi un pensiero di santa Teresina di Lisieux, della quale oggi ricorre la memoria; alla sorella Celina (suor Genoveffa) scriveva, nel gennaio del 1889: Che possono importare a noi le cose di questa terra? Sarebbe forse la nostra patria questoFANGO, così poco degno di un’anima immortale? E che c’importa a noi che degli uomini miserabili vadano mietendo le MUFFE che spuntano su questo fango. Quanto più il nostro cuore abita in cielo, tanto meno sentiamo tutte queste PUNTURE di spillo… Queste sono le parole di un’anima realmente viva; talmente viva da respingere lo scaldino con cui le sorelle volevano confortare il suo povero corpo sofferente di tisica, nel freddo dell’inverno, dicendo che in Paradiso si va con le spine e i dolori, non con lo scaldino. Il segreto della vita è tutto lì: nel non temere la morte. Come scriveva san Francesco, nel Cantico delle creature: Laudato si' mi' Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare: guai a quelli che morrano ne le peccata mortali; / beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no 'l farrà male. È la “morte secunda”, cioè la morte dell’anima, che deve far paura, da la quale nullu homo vivente po’ scappare. Ma gli uomini moderni hanno invertito i termini della questione: hanno paura della morte, pur sapendo che è inevitabile; la rifiutano, la odiano, la temono, la maledicono, la insultano, come fosse una ladra che viene a sottrarre qualcosa che appartiene loro: e si dimenticano che la vita non è una proprietà umana, che nessuno se la può dare da solo e nessuno la può prolungare oltre un certo limite. Dimenticano che la vita fisica è una condizione provvisoria, e che quindi vale la pena di fare i conti con la sua fine inevitabile e anche con ciò che la precede, la malattia e la vecchiaia; e concentrare l’attenzione su quello che non passa, ma dura in eterno: la vita dell’anima. S’illudono di poter vivere in eterno perché sono invidiosi di Dio: Non morirete, ma i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio!, dice il serpente a Eva, per indurla a trasgredire il solo divieto posto da Dio a lei e al suo uomo nel Giardino terrestre, mangiando i frutti dell’albero proibito, quello della conoscenza del bene e del male. E lei ci casca in pieno, e convince a mangiarne anche Adamo: perché sono invidiosi di Dio, vorrebbero essere come Lui, cioè poter vivere in eterno. Certo, nell’uomo esiste il desiderio di vivere per sempre: ma egli deve saper interpretare tale desiderio istintivo. Non lo si può prendere alla lettera, perché tutte le creature che nascono, devono anche morire; tutte le creature sono mortali, altrimenti non sarebbero creature. Dunque, il desiderio di vivere per sempre non può essere preso alla lettera, non può costituire una norma di vita: e chi lo prende alla lettera e ne è ossessionato, costui vive come un pazzo, perché è da folli non accettare l’idea della propria fine naturale. Certo, siamo in buona compagnia, perché tutta la civiltà moderna si fonda su questa follia, su questo rifiuto irrazionale della morte fisica: ma una follia, anche se condivisa da milioni e milioni di persone, a cominciare dai cosiddetti intellettuali, dai quali ci si aspetterebbe – a torto – un po’ di saggezza al di sopra della media degli uomini, resta ancora e sempre una follia, né cessa di essere tale per il gran numero di persone che la condividono. Bisogna saper interpretare il desiderio di immortalità e capire che esso è un richiamo alla nostra vera essenza, quella interiore, fondata nella dimensione dell’eterno, alla quale apparteniamo non con il nostro povero corpo di fango, destinato a dissolversi, ma con la nostra parte immortale: l’anima.
Chi è davvero vivo e chi è davvero morto. Gli uomini moderni s’illudono di poter vivere in eterno perché sono invidiosi di Dio: hanno paura della morte pur sapendo che è inevitabile, dimentichi che la vita non è proprietà umana.
Chi è davvero vivo e chi è davvero morto
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