Col titolo “La Chiesa e lo scandalo degli abusi sessuali”, il Card. Ratzinger ha inteso contribuire a quello che lui chiama “un nuovo inizio”, necessario dopo il dilagare di detto scandalo.
Nonostante egli ci tenga a farsi chiamare “papa emerito”, è ovvio che il suo intervento non ha alcunché di formale, come peraltro dice lui stesso, mentre ha invece molto di personale; il che non inficia minimamente il valore complessivo del suo scritto, per certi aspetti apprezzabile, piuttosto rivela come la personalità del Card. Ratzinger sia connotata dalla tendenza ad addossare la responsabilità dei grandi accadimenti a fattori sempre lontani da lui stesso e dall’ambito in cui ha svolto il suo lavoro di teologo e il suo compito di Pastore, e questo nonostante sia stato sempre implicato negli stessi accadimenti, e spesso con responsabilità di primo piano.
In questo lungo articolo che ha voluto preparare, pubblicare e fare diffondere, egli ritiene di potere e di dovere presentare la grave crisi in cui versa da alcuni anni la Chiesa a causa degli scandali, a partire dalla crisi vissuta dalla società nel suo complesso.
Ora, non v’è dubbio che da alcuni secoli lo stato del mondo è andato sempre più peggiorando a causa dell’allontanamento dell’uomo da Dio, e il Card. Ratzinger lo fa notare, ma questo la Chiesa lo ha sempre saputo e quindi avrebbero dovuto saperlo i Pastori che guidano i fedeli, compreso lo stesso Ratzinger, che è stato perito al Vaticano II, vescovo diocesano, cardinale a Roma, Prefetto custode della “Dottrina della Fede” e Papa.
Altrettanto indubbio è il fatto che la crisi che affligge la Chiesa ha la stessa causa: l’allontanamento dei chierici da Dio. Il Card. Ratzinger, a suo modo, lo ricorda, ma stupisce che egli, nell’articolo, inquadri la crisi nella Chiesa nella crisi della società, come se la vita nella Chiesa fosse mossa necessariamente ed esclusivamente dalla società.
Come gli anni cruciali intorno al 1968 furono per la società il punto d’arrivo di un processo che durava da tempo e che ebbe modo di scatenarsi dopo erano stati fiaccati gli spiriti con l’esperienza devastante di due guerre mondiali, che lacerarono milioni di corpi e ancor più milioni di anime; così i primi anni sessanta, col Vaticano II e il post-concilio, furono per la Chiesa il punto di arrivo di un rilassamento della dottrina e della Fede che aveva interessato gran parte dei chierici e dei Pastori. Le due cose si mossero di pari passo, ma non è sostenibile, come fa il Card. Ratzinger, che la crisi della società abbia innescato la crisi nella Chiesa.
In realtà, dato che la crisi della società era palese, i chierici e i Pastori avrebbero dovuto utilizzare il Vaticano II per stigmatizzare tale crisi, fondata sull’allontanamento da Dio, e suggerire i rimedi idonei per superarla, primo fra tutti il ritorno a Dio; ed invece questo non accadde, anzi accadde che il Vaticano II venne usato dagli stessi Pastori per “aprire la Chiesa al mondo”; ed il Card. Ratzinger, allora solo Don Ratzinger, teologo consigliere dell’arcivescovo di Colonia e perito collaboratore nelle commissioni che elaborarono i documenti del Concilio, ebbe una parte importante in questa improvvida e deleteria apertura al mondo.
Dire oggi che il ‘68 che avrebbe innescato la crisi nella Chiesa è cosa talmente scorretta che rivela la coda di paglia di quello che oggi è il Papa in pensione che scrive articoli per dare consigli. Come potrebbe consigliare bene chi non operò bene da teologo, Prefetto e Papa?
Nel corso dell’articolo, vengono raccontati dei fatti, in base all’esperienza diretta del Cardinale, ed egli ricorda che si arrivò allo stravolgimento dei principi che reggevano la morale cattolica, passando da una morale legata alla dottrina cattolica ad una morale legata al comportamento umano corrente.
Purtroppo, tra i suoi ricordi non vi è alcuna concreta azione correttiva a riguardo, e proprio perché non se ne fu alcuna, né da parte del Papa regnante, né da parte del Prefetto custode della “Dottrina della Fede”, che era lo stesso Card. Ratzinger. Egli cita la pubblicazione della Veritatis splendor di Giovanni Paolo II, come se potesse bastare un’enciclica per fronteggiare il cambiamento della morale propugnato e praticato da vescovi e da teologi, che continuavano a rimanere al loro posto ad insegnare l’errore ai fedeli e agli aspiranti sacerdoti.
Oggi, il Card. Ratzinger si sofferma a teorizzare possibili soluzioni alla crisi, e richiama perfino la banalizzazione della Santa Eucarestia, ma continua a non vedere la responsabilità primaria dei chierici che attuarono il Vaticano II e che ne concepirono, redassero e applicarono i documenti, in vista di un consistente cambiamento nella Chiesa.
Come sarebbe stato possibile, per esempio, arrivare a banalizzare la Santa Eucarestia senza l’imposizione della nuova Messa che ha umanizzato il culto da rendere a Dio? Eppure il Card. Ratzinger, quando faceva il Papa, volle confermare l’importanza della nuova Messa che mise al centro del culto, non più Dio ma l’uomo, e non provvide ad apportare il benché minimo correttivo alla deriva troppo umana della moderna liturgia.
Tutto questo non ha niente a che vedere con la crisi degli anni sessanta prodottasi nella società, si tratta di materia che riguarda la Chiesa e che gli uomini di Chiesa posti “in alto loco” avrebbero dovuto gestire in aderenza agli insegnamenti del Signore, invece di alimentare una sorta di cambio della religione cattolica, in cui è divenuto primario il “culto dell’uomo”, come diceva sciaguratamente Paolo VI, che anche per questo è diventato persino santo, in perfetta coerenza con questa nuova Chiesa che invece di suscitare veri santi ha finito col produrre scandali su scandali.
Nell’articolo è anche presente uno strano ricordo autobiografico: “in non pochi seminari, studenti sorpresi a leggere i miei libri vennero considerati non idonei al sacerdozio. I miei libri venivano nascosti come letteratura dannosa e così venivano letti solo sottobanco”.
Non si capisce bene se qui il Card. Ratzinger abbia voluto indicare la bontà delle sue personali concezioni messe per iscritto o la cattiva volontà dei suoi colleghi vescovi, o entrambi. Ma quel che è chiaro è il fatto che tanta sua supposta ortodossia non diede alcun frutto quando il Cardinale svolse il compito non indifferente di Prefetto custode della “Dottrina della Fede” e ancor più quando da Papa avrebbe potuto e dovuto “confermare i fratelli nella Fede”. Fallì nel suo operare o si astenne dall’operare? Comunque sia, tali precedenti negativi non autorizzano oggi lo stesso Ratzinger a fare la parte del censore e del suggeritore delle correzioni di cui la Chiesa ha bisogno.
Questa strana e complessa situazione fa venire in mente due cose relative al Card. Ratzinger.
La prima è che nella Via Crucis del 25 marzo 2005, meditando sulla Nona Stazione, disse: «Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!». Neanche un mese dopo, il 19 aprile 2005, egli venne eletto al Papato e ci si aspettava che imprimesse una decisiva virata alla deriva in cui si trovava a navigare la Barca di Pietro. Ebbene, qualche tentativo sì, ma dopo 14 anni le cose sono peggiorate e ci ritroviamo con lo stesso Ratzinger che rivanga e suggerisce teorici rimedii.
La seconda è che alcuni mesi dopo, il 22 dicembre 2005, in veste di Papa, il Card. Ratzinger suggerì ai chierici della Curia romana che «Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile … I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. … Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio».
Ora, qui ritroviamo lo scarico di responsabilità, questa volta sui “mass-media”, e l’omissione dell’indicazione dei responsabili, col generico richiamo all’“ermeneutica della discontinuità e della rottura”; e ritroviamo anche – siamo a 14 anni fa – la contraddizione del “seme buono” del Concilio che cresce e dà buoni frutti. Quali sarebbero infatti tali nuovi frutti se oggi il Card. Ratzinger si permette di parlare, quasi in maniera distaccata e asettica, di allontanamento da Dio? Come si fa a tacere che i buoni frutti del Concilio coincidono con l’allontanamento da Dio e con gli scandali che hanno ulteriormente messo in crisi la vita della Chiesa?
Senza contare l’eterodossa considerazione della Chiesa che sarebbe “un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso”; in cui l’eterodossia sta in ciò che tale considerazione sottintende, e cioè che la crescita e lo sviluppo consisterebbero in tutti i cambiamenti che i prelati, come Ratzinger, hanno imposto alla vita della Chiesa, stravolgendola e conducendo i chierici e i fedeli ad un sempre maggiore allontanamento da Dio. Qui, il Card. Ratzinger rivela la forma mentis tipicamente modernista, che da quasi un secolo ha preteso di mantenere l’identità della Chiesa fondata da Nostro Signore pur mutando il cattolicesimo in protestantesimo e la religione di Dio nella religione dell’uomo.
Non vogliamo calcare la mano e quindi concludiamo limitandoci a segnalare due elementi che attengono allo stato attuale della Chiesa.
Il primo è tutt’uno con questo intervento del Card. Ratzinger.
Egli scrive come “papa emerito”, come se si trattasse di qualcosa di consolidato da secoli nella vita della Chiesa, mentre invece si tratta di una rivoluzione voluta per inventare un dispositivo che ha sminuito irreparabilmente il Papato, disattendendo clamorosamente la precisa volontà di Nostro Signore. Pretendere di farsi chiamare “papa emerito” e di mantenere il nome e l’abito da papa, denota la precisa volontà del Card. Ratzinger di sdoppiare la figura monarchica del Vicario di Cristo, per iniziare un processo che dovrebbe trasformare il Papato in una sorta di istituzione democratica: oggi due papi, domani tre e, chissà, dopodomani più di tre.
Come può essere credibile un prelato quando ammonisce che “dobbiamo imparare di nuovo a riconoscere Dio come fondamento della nostra vita”, mentre stravolge, per quanto possibile, la stessa opera di Dio, la Sua Chiesa?
Le belle parole fa piacere sentirle, ma a patto che le azioni non le contraddicano.
Il secondo elemento è nella chiusura dell’articolo, in cui Ratzinger scrive: “vorrei ringraziare Papa Francesco per tutto quello che fa per mostrarci di continuo la luce di Dio, che anche oggi non è tramontata”.
Passi per i ringraziamenti di prammatica, ma affermare che Papa Francesco ci mostrerebbe la “luce di Dio” è cosa, non solo falsa, ma soprattutto fuorviante: equivale a suggerire ai fedeli che Bergoglio non stravolge il Vangelo, non stravolge la morale cattolica, non favorisce quei chierici che praticano il vizio contro natura e che sono gli stessi che continuano a dare scandalo nel mondo intero, lo stesso scandalo su cui è voluto intervenire il Card. Ratzinger.
Cos’è tutto questo: incalzante schizofrenia, forse dovuta all’“ingravescente aetate”, o colpevole connivenza?
di Giovanni Servodio
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