ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 6 luglio 2019

Nel sogno “francescano”

ALLE RADICI DELLA "DEVIAZIONE"


Mito del "Buon selvaggio" e misticismo francescano in salsa gesuita? Le radici della deviazione della chiesa sudamericana. Il Sinodo per l’Amazzonia è funesto: bisogna fermare l’apostasia di Bergoglio e del clero "Indigenista" 
di Francesco Lamendola  

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Si resta colpiti dalla frequenza con cui i misfatti che stravolgono la Chiesa cattolica ai nostri giorni –liturgici, pastorali, dottrinali – sono opera di sacerdoti sudamericani. Bergoglio, Sosa Abascal, Maradiaga, Braz de Aviz,  Zanchetta: l’elenco, volendo, sarebbe lunghissimo. Certo, ciò dipende, in parte, dal fatto che Bergoglio si è portato dietro, o ha promosso a incarichi di prestigio, alcuni suoi amici personali, come Wojtyla si circondava di uomini di sua fiducia polacchi, e Ratzinger di tedeschi. Tuttavia molti di essi occupavano già posizioni eminenti prima della nomina di Bergoglio al soglio pontificio. Inoltre, la deviazione peggiore, quella dottrinale, risale agli anni ’60, cioè agli anni del Concilio: basti citare il generale dei gesuiti, padre Arrupe, l’uomo che ha impresso al suo ordine la svolta fatale, che da allora esso non ha più abbandonato; oppure ai preti del Nicaragua che diventano ministri di un governo rivoluzionario e di sinistra, come Ernesto Cardenal. 

La teologia della liberazione è una cosa latino-americana; la conferenza di Puebla ha visto protagonista il clero latino-americano; non è perciò un caso se, per dare il colpo di grazia a una chiesa ormai morente, Bergoglio ha scelto quale scenario l’Amazzonia. Deve esserci una ragione più profonda se tanti nomi e tanti fatti significativi della odierna deriva apostatica hanno in comune l’America Latina e specialmente l’America del Sud. Alcuni hanno notato la somiglianza fra l’atteggiamento dei gesuiti nelle reducciones del Paraguay con la chiesa dei poveri, la chiesa in uscita, i preti di strada e l’ospedale da campo di cui parlano sempre gli apostati dei nostri giorni; ed è un’osservazione giusta. Bisogna chiedersi se non vi sia dell’altro: se anche la politica gesuita delle reducciones non sia figlia di un fattore ancora più antico, e per così dire originario, della Chiesa latino-americana. E la risposta non può che essere affermativa: scavando nella storia e risalendo indietro nel tempo, si scopre che fin dalle origini – occorre fare il nome di Bartolomé de Las Casas, il primo vescovo delle Indie? – vi sono le premesse per la deviazione che poi, nel corso del tempo, si è rivelata in maniera sempre più clamorosa, trascinando con sé tutto il corpo della Chiesa, anche fuori da quell’ambito, e arrivando fino a Roma.

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Il generale dei gesuiti, padre Arrupe, l’uomo che ha impresso al suo ordine la svolta fatale!

Proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto se, nel 1600 e nel 1700, i papi non avessero reagito con fermezza alle deviazioni dei gesuiti manifestatesi nella pastorale dei Paesi asiatici, cioè nella due famose controversie relative ai riti cinesi e ai riti malabarici (dell’India). Il corpo della Chiesa nel suo complesso sarebbe stato infettato da un sincretismo e da un naturalismo che avrebbero deviato sempre più il centro della dottrina cattolica dalla Persona di Cristo, dal suoi Vangelo e dalla sua Redenzione, a una religiosità assai più vaga, molto legata ai culti locali e alle credenze locali, compreso il culto degli antenati cinesi e senza escludere del tutto neppure il Pantheon delle religioni pagane. In breve, saremmo arrivati, con tre o quattro secoli di anticipo, alla situazione attuale, e in particolare al quadro delineato dal documento Instrumentum laboris per il prossimo Sinodo dell’Amazzonia: a una religione che, di cristiano e di cattolico, ormai ha quasi soltanto il nome, ma è diventata, in realtà, una “religione” che mette al centro il mondo indigeno e primitivo, che esalta la spontaneità e la provvidenzialità della natura, che si preoccupa essenzialmente della giustizia distributiva, specie a livello economico, nonché dell’ambiente e del clima, ma nulla o quasi nulla dell’anima immortale, della Grazia e del peccato, della relazione con il Dio personale del Vangelo e della vita eterna: il tutto con la giustificazione di voler attualizzare e avvicinare il Vangelo stesso alla realtà del mondo moderno e alle situazioni particolari delle chiese locali.

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Vi sono una quantità di fattori storici, che hanno finito per determinare un atteggiamento "indigenista e primitivista" da parte del clero latino-americano; atteggiamento che, in tempi di globalizzazione, non poteva non trasmettersi alla Chiesa cattolica nel suo complesso: oggi come allora, si tratta solo di sostituire i poveri con gli indigeni, di idealizzare i poveri anziché gli indigeni, di schierarsi in maniera militante al fianco dei poveri e contro i ricchi, ma lo schema è lo stesso!

Oggi sia nelle chiese dell’America Latina, sia nel resto del mondo, a cominciare dall’Europa, si nota il dilagare dello stesso fenomeno:un clero che stravolge la liturgia, la pastorale e perfino la dottrina, in nome di una valorizzazione delle culture locali, delle credenze indigene, di una sedicente spiritualità indigena, anteriore al cristianesimo e cioè pagana. Qui un prete autorizza i seguaci del dio indù Ganesha a sfilare dentro la sua chiesa portando la statua in processione; là un vescovo francese officia la santa Messa sostituendo il Pane eucaristico con l’ananas e inscenando un balletto di danzatrici indù, devote di Siva, davanti all’altare; in molte chiese africane si rappresenta Gesù bambino come un negretto e in altri casi si vede il sacerdote presentarsi in chiesa vestito da rabbino, con la Menorah sull’altare, il Pesher al posto del Lezionario e il pane azzimo in luogo delle particole, scimmiottando un rito giudaico, sempre in nome del dialogo inter-religioso e dell’ecumenismo. E occorre ricordare l’invito fatto ai musulmani a partecipare alla Messa, recitando le loro preghiere, nella loro lingua, al loro Dio, ignorando bellamente (o forse no) che quando una comunità islamica prega Allah, dedica quel luogo ad Allah per sempre?

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 Le radici della deviazione della chiesa sudamericana? Solo mito del "Buon selvaggio" e "Misticismo francescano in salsa gesuita": la secolare balla sull’innocenza originaria degli uomini!

Ma tornando alla questione del clero latino-americano, l’origine della deviazione sembra essere questa: che appena sbarcati in America, i primi missionari - che non erano i gesuiti, perché il loro ordine non esisteva ancora, bensì francescani e domenicani - rimasero letteralmente affascinati dalle qualità naturali delle popolazioni indigene che si apprestavamo ad evangelizzare. Il lavoro sporco di sottometterle fisicamente lo avevano già fatto i conquistadores spagnoli; ora si trattava di predicare il Vangelo a dei popoli la cui libertà era stata distrutta e la cui fierezza era stata spezzata; popoli che si aggrapparono alla religione predicata dai missionari come il naufrago si aggrappa a un’ancora di salvezza, tanto più che quei popoli si avvidero ben presto che i soli uomini al mondo capaci di attenuare la durezza della loro sorte erano proprio i padri bianchi dal lungo saio e dalla croce sul petto. Ma dove non erano arrivati iconquistadores né mai arrivarono, per esempio tra i ferocissimi Caribi delle Piccole Antile e delle coste prospicienti, guerrieri sanguinari e cannibali impenitenti (Caraibi deriva appunto da “cannibali”), o fra gli Jivaros del Perù amazzonico, i quali affumicavano e rimpicciolivano le teste dei nemici uccisi e ne facevano collezione, lì neppure i missionari sono giunti, e quindi non poterono toccare con mano la favoletta che loro stessi, senza dubbio in buona fede, si stavano costruendo, e della quale erano rimasti prigionieri: quella di un’umanità indigena tutta buona, pura, innocente, scevra da ogni vizio, proprio come lo erano Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre, prima di peccare. Lo stupore e l’ammirazione provati dai padri missionari quando vennero a contatto con gli indios sono un elemento originario; qualcosa di analogo si registra anche nelle prime reazioni dei coloni inglesi sulle coste dell’America del Nord, specie i Padri pellegrini e i gruppi religiosi protestanti, che oggi definiremmo “fondamentalisti” per la loro intransigenza, a  causa della quale erano fuggiti dalla madrepatria: anch’essi restarono incantati dalla semplicità e dalla mitezza degli indigeni e videro in essi un’umanità innocente, simile a quella che esisteva prima del Peccato originale. Considerando che anche quei coloni cercavano una Nuova Gerusalemme, o desideravano fondarla in un Nuovo Mondo, come quello scopeto da Colombo, non ci si meraviglia troppo di questa spontanea associazione.

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 I messaggeri della fede che partivano per i paesi scoperti al di là dell’Atlantico si sentivano diretti successori degli Apostoli di Cristo: in America essi s’imbatterono in esseri umani che per semplicità e naturalezza di vita sembravano vicini allo spirito del primo cristianesimo!

Essi pensavano che il cristianesimo fosse invecchiato a causa dei vizi degli europei e che avesse bisogno di una rigenerazione, e videro nel nuovo continente e in quegli indigeni “felici” gli strumenti adatti per realizzare un tale disegno. Il filosofo George Berkeley, impegnatissimo nella battaglia contro i liberi pensatori e per la restaurazione dello spirito autenticamente cristiano, ebbe l’idea di fondare una specie di seminario nelle Isole Bermuda per la formazione di un clero indigeno capace di evangelizzare efficacemente tutto il continente (cfr. il nostro articolo: Dietro il progetto delle Bermuda la battaglia di Berkeley contro i liberi pensatori, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 22/12/10 e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 25/11/17). Gli inglesi ci misero poco a passare dalla fase dell’innamoramento a quella del fastidio, dell’insofferenza e dell’odio e finirono per cacciare oltre gli Appalachi, infine per sterminare, quegli indigeni che costituivano un noioso ostacolo per l’acquisizione e la messa a coltura di nuove terre, delle quali essi erano sempre più affamati. Ma il clero cattolico, più organizzato e più disciplinato, e facente parte di una struttura universale, come la Chiesa di Roma, permasero nella loro fascinazione e restarono attaccati all’immagine del Buon Selvaggio che avevano proiettato, con la loro cultura europea, sull’umanità indigena. A ciò si aggiunga il fatto che i laici, in America Latina, partecipano alla vita ecclesiastica con più frequenza e fervore dei cattolici europei; che si sentono anch’essi operatori del Vangelo, e non percepiscono una distanza poi così grande con i membri del clero; che, in quanto latino-americani, si considerano discendenti di popolazioni che sono state sottomesse, anche se non è affatto vero, perché essi sono, nella maggior parte dei casi, i discendenti dei conquistatori e non dei conquistati(atteggiamento che noi abbiamo potuto osservare, non senza stupore, di persona); e che perciò convogliano nel loro cattolicesimo una certa componente di rancore, un desiderio di rivalsa che Nietzsche avrebbe chiamato il ressentiment dei deboli, un po’ come quello degli ebrei dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme e l’irreversibilità della Diaspora.

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La teologia della liberazione è una cosa latino-americana! La chiesa è la chiesa dei poveri; i ricchi sono dei nemici e dei finti cristiani; il regno di Dio va realizzato fin da subito, anche nelle strutture materiali per restaurare l’innocenza originaria degli uomini!

Se, infine, si tiene presente che una parte delle popolazioni indigene sono sopravvissute in società organizzate, e che l’America Latina è caratterizzata da squilibri fortissimi e contrasti sociali stridenti, di fronte ai quali viene spontaneo a un cattolico schierarsi idealmente dalla parte degli sfruttati, il quadro si chiarisce ancor più. Vi sono una quantità di fattori storici, che è possibile esaminare e chiarire ad uno ad uno, i quali hanno finito per determinare un atteggiamento indigenista e primitivista da parte del clero latino-americano; atteggiamento che, in tempi di globalizzazione, non poteva non trasmettersi alla Chiesa cattolica nel suo complesso, facendo sentire i suoi effetti anche e soprattutto in Europa: basti pensare al ruolo svolto da Pedro Arrupe nel diffondere il muovo modello pastorale in Italia. Si trattava solo di sostituire i poveri con gli indigeni, di idealizzare i poveri anziché gli indigeni, di schierarsi in maniera militante al fianco dei poveri e contro i ricchi, ma lo schema era lo stesso che il clero sudamericano aveva sviluppato e consolidato nel corso di ben cinque secoli: la chiesa è la chiesa dei poveri; i ricchi sono dei nemici e dei finti cristiani; il regno di Dio va realizzato fin da subito, anche nelle strutture materiali, eliminando le strutture di peccato (multinazionali, latifondi) per restaurare l’innocenza originaria degli uomini. Di qui all’eresia vera e propria, e cioè all’idea di una umanità che si auto-realizza, si auto-emancipa e si auto-redime, il passo è relativamente facile e breve. E un percorso analogo è stato fatto da una parte del clero anche negli altri continenti “primitivi”, specialmente in Africa: basti citare, per tutti, il caso dei comboniani di Nigrizia, rivista che ormai da tempo non si distingue quasi per nulla da una rivista politica militante di estrema sinistra, e nella quale il cristianesimo è stato interamente adattato alle esigenze di una pastorale puramente africana.

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 Si resta colpiti dalla frequenza con cui i misfatti che stravolgono la Chiesa cattolica ai nostri giorni – liturgici, pastorali, dottrinali – sono opera di sacerdoti sudamericani. Bergoglio, Sosa Abascal, Maradiaga, Braz de Aviz,  Zanchetta: l’elenco, volendo, sarebbe lunghissimo!

Le radici della deviazione della chiesa sudamericana

di Francesco Lamendola

  
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