Le Brigate dell'amore e il delitto di odio? E' l’amore falso e malato dei brigatisti anti odio, è Il totalitarismo che incede a passi da gigante, è l’ideologia del Diversamente Identico e dell’Equivalenza Universale è “Oicofobia”
di Roberto Pecchioli
“Ah, l’amore, questo folle sentimento che, più fa buio, più ritorna da me. “I meno giovani ricorderanno la canzone dei Formula Tre, parole e musica di Mogol e Battisti. Si sentiva il bisogno della Brigate dell’Amore, impegnate, per il bene di tutti, a combattere l’odio e gli odiatori. La nuova frontiera della società comatosa è la mobilitazione contro un sentimento. Folle davvero, l’amore falso e malato dei brigatisti anti odio. Non era mai capitato, nella lunga storia umana, che si invocassero e ottenessero leggi contro un sentimento. Il totalitarismo incede a passi da gigante, un lupo con la pelle d’agnello che non sa vincere le sue battaglie se non con divieti, interdetti e proibizioni in nome del Bene, l’ideologia del Diversamente Identico e dell’Equivalenza Universale. Lo stesso politicamente corretto cede dinanzi al nuovo proibizionismo con una mano sul cuore e l’altra sulla tasca interna, rifugio del portafogli. Non si può odiare, solo amare. La coppia, umana, umanissima, deve divorziare, anzi uno dei due, l’esecrato odio, deve scomparire.
Grottesco, l’odio contro l’odio. Chissà che ne penserebbe Catullo, il cui distico Odio e amo è uno dei vertici della poesia di tutti i tempi. Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio. Sed fieri sentio et excrucior. Suggestiva è la traduzione di Salvatore Quasimodo: Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile; / non so, ma è proprio così e mi tormento. Basta tormenti, bisogna farla finita con la complessità. Vietato vietare era lo slogan del Sessantotto. Il progresso è: vietato odiare. Naturalmente l’odio è sempre altrui: “noi” siamo, programmaticamente e insindacabilmente, i Buoni. Noi amiamo, non odiamo. E’ per amore che invochiamo pene severe per gli odiatori. Un po’ per celia e un po’ per non morire, si è tentati di evocare Cattivik, il personaggio dei fumetti che faceva di una comica cattiveria il suo modo di vita, a partire dallo sguardo in tralice e dal ghigno ostile.
Diciamola tutta: le Brigate dell’Amore odiano quanto e più degli altri. I loro bersagli sono la natura e la verità. La natura, imperfetta e piena di ingiustizie, va modificata. La verità deve essere negata in quanto può recare offesa. Spaventa questo mondo di offesi, oltraggiati, risentiti, che vivono oggi giudizio come un affronto. Vietato discriminare, cioè distinguere, giudicare, praticare la virtù dell’intelligenza. Il Bene è ciò che non divide, non esprime giudizi, non prende atto delle differenze, dei fatti. Il Bene ha un altro nemico: la realtà. L’obbligo del Bene e dei suoi pasdaran, i Brigatisti dell’Amore, è la conformità a un modello mentale: la gabbia degli uguali. Uno vale uno. Uno equivale a qualunque altro, è l’esito. Vietato dissentire, sotto pena di passare nella categoria degli offensori e dei portatori insani di odio. Tutto deve essere uguale, equivalente, diversamente identico. Giudicare, valutare, esprimere preferenze e di conseguenza avversioni è un delitto. Delitto di odio, da inserire nel codice penale.
L’amore falso e malato dei brigatisti anti odio? Proibiscono i sentimenti perché prigionieri del nulla. E' una sottocultura del risentimento, è “oicofobia”, odio di sé mascherato da rispetto per gli altri!
La dittatura postmoderna, dismessa la maschera soft, svela il suo vero volto, un totalitarismo asfissiante che non si accontenta di proibire le parole, ma le riformula, insinuandosi nel pensiero. Siamo tutti Cattivik se non pensiamo in un certo modo, se non cancelliamo dalla cartella “file” del cervello, determinate parole, ma soprattutto se proviamo sentimenti proibiti. Se prendiamo atto delle differenze, le indichiamo e le giudichiamo con il metro della verità, della realtà, della banale constatazione, entriamo nel campo minato dell’odio. Ci aspettano la riprovazione, lo stigma sociale, l’etichetta di malvagi, la stella gialla in cui viene marchiata a caratteri di fuoco la lettera O di odio. Il bestiame umano appartiene a lorsignori. Nulla di strano che ci applichino un marchio. Potremmo ricordare Jean Genet, scrittore maledetto, disadattato, omosessuale, estremista, che scrisse in Les nègres – un titolo che oggi lo esporrebbe alle accuse di odio e razzismo, “quel che ci serve è l’odio. Da esso nasceranno le nostre idee”. Apologeta dell’odio o osservatore asciutto dell’umanità?
Già Eraclito affermò che il mondo avanza per conflitti, incarnati dalla figura mitologica di Pòlemos. Stupidaggini del buio passato: siamo gente d’Amore. Ci è ingiunto di amare da un’autorità arcana che nega la complessità dell’umano. Ha deciso che esiste solo l’Uguale, l’Equivalente. Per questo, il delitto più sanguinoso è segnalare la differenza. Gli uomini non hanno razze, solo i cani, le civiltà e le culture si equivalgono, nessuno ha ragione, o meglio ce l’hanno tutti. Il bimbo della fiaba di Andersen che gridò “il re è nudo” sarebbe oggi rinchiuso in un riformatorio. Ha detto la verità, sia punito. Poteva affermare che il re è abbigliato con la sua pelle, evitando accuratamente il giudizio di merito.
Viviamo in mezzo a infinite tribù reciprocamente ostili, atomi che si riuniscono provvisoriamente, permalosi, eternamente in guardia dinanzi a qualsiasi parola, gesto, sguardo, condotta che suoni a offesa. Offesi gli omosessuali se non si rende omaggio al loro “orgoglio”, gli stranieri se li chiamiamo così, gli uomini di colore se si osa definirli negri, un termine che la biologia e l’antropologia hanno usato per secoli senza intento diffamatorio, i portatori di handicap se non ci si rivolge loro come a “diversamente abili”. Chi scrive ha sofferto per molti anni di una grave balbuzie: se lo avessero chiamato diversamente parlante sarebbe cambiata la sua vita? Evidentemente no, per cui a buon diritto rivendichiamo il diritto alla verità. Può essere cruda, fastidiosa, ma rende liberi.
L'ossessione per il controllo, per la “gestione” è il simbolo di una società amministrativa, privata di ogni idealità, ridotta a idealizzare l’equivalente. Pensiero non debole, ma assente. Nulla è giusto, niente è vero, quindi è odio, pretesa immonda stilare graduatorie, preferire, distinguere, riconoscersi in qualcosa. Il relativo, “liquido”, si assolutizza e chiama odio il dissenso “solido”. Non esiste cura eccetto il ritorno al reale, la dura terapia della verità: credere ai propri occhi, ridare alle cose il proprio nome, riconoscere se stessi, identificarsi e prendere atto delle distinzioni!
Non è con gli eufemismi e i pietismi da salotto che si dimostra di amare. Al contrario, ci rende più insensibili. Quel cieco è come me, vista a parte. Perché aiutarlo a salire sul bus o ad attraversare la strada? L’uguaglianza folle, imposta, contro logica, realtà e senso comune, genera mostri. Come Mefistofele, è lo spirito che sempre nega. Non ammette la differenza, nega la valutazione, asserisce che non ci sono belli e brutti, intelligenti e cretini, volonterosi e pigri, biondi, bruni e persino negri, con e senza la maledetta G. Constatare, prendere atto non è odiare, così come negare non è amare. Il panorama è variegato, ci sono più cose in cielo in terra di quante ne contenga la tua filosofia, ammonisce Amleto. San Pietro e la parrocchia di Foligno fatta a cubo dall’archistar Fuksas sono assai diverse tanto dal punto di vista artistico che sotto il profilo del richiamo alla fede.
No, quel che scriviamo e pensiamo è delitto di odio. Esiste nell’Italia felix del secolo XXI una commissione parlamentare amorevolmente tesa a stroncare l’odio. Potrebbe incriminarci. Non ci difenderemo: il reato è confesso e sotto gli occhi di tutti. Ma il re senza vestiti resta nudo, il cieco è al buio anche da non vedente e gli uomini sono diversi tra loro per caratteristiche morali, civili, culturali, e, bestemmia massima, etniche e fisiche. La pentola che bolle non riesce a amalgamare tutto: l’olio non si unisce all’acqua. L’insistenza morbosa sull’indifferenziato assume caratteri ossessivi compulsivi.
In una serie televisiva poliziesca, protagonista è Monk, geniale, ma affetto da ogni tipo di fobia. Non sopporta nessuna disarmonia, deve “mettere in linea” tutto ciò che vede, non accetta alcuna difformità, il suo mondo è una linea retta, o un cerchio perfetto. Non funziona così l’uomo e non è così il mondo. Il fatto che dalla persuasione per manipolazione, ripetizione coatta da parte di tutte le agenzie, scuola, governo, televisione, pubblicità, si passi a forme di divieto esplicito con pene a cui sfuggono comportamenti davvero gravi- furti, truffe, sfruttamento- dimostra che alcuni uomini, forse molti uomini, possiedono ancora anticorpi. Sorvegliare e punire, il biopotere scoperto da Foucault, il potere sulla vita, sul corpo, sui nostri stessi pensieri, sono un fatto, ma non riescono a addomesticare del tutto l’Homo sapiens.
Oggi diventa odio proclamare la propria fede: le altre potrebbero risentirsi? La società degli offesi non può funzionare: il diritto alla verità? Può essere cruda, fastidiosa, ma rende liberi!
Secondo una ricerca, un numero crescente di italiani non crede o è indifferente all’Olocausto, il totem assoluto della postmodernità. Sbagliano, gli internati non morirono di freddo, ma la ripetizione continua, le infinite giornate della memoria, le dita alzate dei moralisti tanto al chilo, ben diversi dalle sofferenze delle vittime, finiscono per infastidire. La storia umana è un lungo calendario di stragi e ingiustizie. Non ce ne può essere una così diversa da diventare obbligo di legge. A parte le intemperanze di qualche sconsiderato, ciò che irrita non è la narrazione, ma la sua imposizione. L’accumulazione genera rigetto, come la santificazione obbligata di tutto ciò che è “multi” o “trans”. Nessuna civiltà si è fondata sulla torre di Babele, sull’ostilità di mille pezzetti in lotta tra loro, offesi anche dagli sguardi o da un sopracciglio inarcato. Rimodellano le parole per riconfigurare i cervelli, ma si finisce nell’afasia per sfuggire a quella che Durkheim chiamava anomia, l’assenza di ancoraggi comuni.
Molte idiosincrasie sbrigativamente ribattezzate odio sono frutto di sovraccarico, reazione contro l’evidenza di alcune menzogne. Se ne ha abbastanza di non poter amare noi stessi, perché sarebbe la prova dell’odio verso gli altri. Ci ordinano di amare, ci vietano di odiare. Non si può, l’uomo racchiude in sé entrambi i sentimenti in un’infinità di sfumature. Non bisogna urtare la sensibilità di un numero crescente di soggetti, trucioli di permalose identità. Diventa odio proclamare la propria fede: le altre potrebbero risentirsi. Non si può preferire la propria gente, la lingua madre o i costumi del nostro popolo per lo stesso motivo. Ridotta la convivenza comune a una serie di procedure, di finti inchini reciproci, impauriti, si finisce per non essere nulla e non credere più a niente. Tuttavia, ce lo hanno spiegato Chesterton e Dostoevskij, chi non crede in nulla è disposto a credere a qualunque cosa. Forma tribù, ricerca nuove diversità, e reclama a gran voce il suo posto nella fiera del politicamente corretto, dell’equivalente, del diversamente uguale.
In certe zone degli Stati Uniti, paradiso multietnico, multireligioso, multiculturale, già si parla di ritorno al sangue. Non si dialoga più, se non tra simili. Così finiscono le utopie universaliste: incubi e legge del più forte. La nostra civiltà è in mano a ingegneri sociali. Mancano gli architetti e i buoni filosofi, portatori di un’idea organica della città comune. I maestri del risentimento, Freud, Marx, e poi Adorno, Marcuse, i “decostruttori” alla Derrida e i nichilisti alla Sartre hanno vinto. Il loro sporco lavoro è in via di completamento. A proposito di Freud: parlò di proiezione e transfert. Le anime belle, i brigatisti dell’amore, sono in realtà feroci odiatori, negatori implacabili di ciò che non capiscono. I bersagli sono la proiezione: attribuiscono loro i mali che non osano riconoscere guardandosi alla specchio. Svelare il castello di carte dell’equivalente, dell’indistinto, non mangiare il loro minestrone omnibus li perturba sino all’odio.
La storia umana è un lungo calendario di stragi e ingiustizie? Nessuna civiltà si è fondata sulla torre di Babele: ce lo hanno insegnato Chesterton e Dostoevskij, chi non crede in nulla è disposto a credere a qualunque cosa!
LE BRIGATE DELL’AMORE E IL DELITTO DI ODIO
di Roberto Pecchioli
continua su:
E non abbandonarci alla tentazione?
Cari amici di Duc in altum, è disponibile il libro Non abbandonarci alla tentazione. Riflessioni sulla nuova traduzione del “Padre nostro” (Chorabooks) nel quale è presa in esame la nuova traduzione del Padre nostro in italiano: non più “non ci indurre in tentazione” bensì “non ci abbandonare alla tentazione”. Questo il cambiamento deciso dai vescovi italiani. Ma perché la nuova traduzione? In controtendenza rispetto alla spiegazione che va per la maggiore, e cioè che in questo modo il testo sarebbe più in linea con il contenuto evangelico, il libro spiega che il cambiamento ha origine da un indebito ammorbidimento delle parole che Gesù stesso ha insegnato ai discepoli. La nuova traduzione nasce nel clima di buonismo e misericordismo a cui si ispira la Chiesa in questa fase, ignorando però che Dio, nella Sacra Scrittura, mette più volte alla prova le persone per verificare la loro fede e che Gesù stesso, durante la permanenza nel deserto, fu esposto alle tentazioni. La smania di cambiamento è espressione del “cambio di paradigma”, o “rivoluzione culturale” che si vuole attuare nella Chiesa odierna, in nome di un “ecclesialmente corretto” che non deve disturbare la sensibilità moderna.
I contributi raccolti nel libro sono di monsignor Nicola Bux, dom Giulio Meiattini, don Alberto Strumia e Silvio Brachetta.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.