Dom Giulio Meiattini, monaco benedettino e teologo, ben noto ai lettori di questo blog, dopo uno scambio di battute, mi ha segnalato un suo articolo di qualche tempo fa, che è tutt’ora attualissimo. Buona lettura.
Siamo ormai quasi tutti consapevoli, più o meno, che uno dei pericoli più forti dell’odierno processo di globalizzazione è la riduzione di ogni differenza – culturale, religiosa, sessuale, economica, politica e via dicendo – a un miscelamento (melting pot) generale tendente all’uniformità più alta possibile. Questo movimento di omogeneizzazione – il frullato planetario appetibile per tutti i gusti e accessibile per ognuno – non dev’essere considerato un fenomeno nuovo o del tutto nuovo. Negli ultimi secoli, la cosiddetta modernità ha sfornato già i primi modelli di questa nuova cultura dell’uniformità, modelli differenti in apparenza, ma affini in profondità.
Si è cominciato, in modo abbozzato, con l’ideale promosso dalla rivoluzione francese: bisognava essere tutti “uguali” e “fratelli”, perciò ci si chiamava a vicenda “cittadini”. L’ideale giacobino del “cittadino” uguale a tutti gli altri cittadini, ha poi mutato nome e si è trasformato prima in quello del “compagno” e poco dopo in quello del “camerata”. I totalitarismi del ‘900, fenomeno storicamente originale nel nostro occidente europeo e poi esportato in Asia, erano protesi sostanzialmente a negare l’originalità. Pur di segno opposto, questi totalitarismi miravano a non lasciare nessuno fuori dalle loro maglie sistemiche. Compagni e camerati lo erano tutti, indistintamente, volenti o nolenti, ad indicare un’uniformità che, nella Cina maoista, si esprimeva anche nel modo di vestire: un rigoroso grigio o grigio-verde con giacchetta a quattro tasche e pantaloni corrispettivi.
Si è cominciato, in modo abbozzato, con l’ideale promosso dalla rivoluzione francese: bisognava essere tutti “uguali” e “fratelli”, perciò ci si chiamava a vicenda “cittadini”. L’ideale giacobino del “cittadino” uguale a tutti gli altri cittadini, ha poi mutato nome e si è trasformato prima in quello del “compagno” e poco dopo in quello del “camerata”. I totalitarismi del ‘900, fenomeno storicamente originale nel nostro occidente europeo e poi esportato in Asia, erano protesi sostanzialmente a negare l’originalità. Pur di segno opposto, questi totalitarismi miravano a non lasciare nessuno fuori dalle loro maglie sistemiche. Compagni e camerati lo erano tutti, indistintamente, volenti o nolenti, ad indicare un’uniformità che, nella Cina maoista, si esprimeva anche nel modo di vestire: un rigoroso grigio o grigio-verde con giacchetta a quattro tasche e pantaloni corrispettivi.
Noi ci scandalizziamo dei totalitarismi di allora, e deploriamo i ciechi e inerti testimoni di quei giorni tristi, ma non riusciamo a vedere quello emergente di nuova generazione in via di avanzata diffusione. Se una differenza c’è, fra i totalitarismi all’insegna del “cittadino”, del “compagno” e del “camerata” e quello della liberistica globalizzazione del “turbocapitalismo” (Diego Fusaro) trainato dal principio della “libera finanza in libera tecnologia”, è una soltanto. Il totalitarismo di ieri mostrava i muscoli e usava il metodo della coercizione: tutti dovevano entrare nel sistema dato, pena la segregazione o la soppressione fisica. Il neo-totalitarismo albeggiante non si sogna per nulla di essere così apertamente disumano. La sua arma preferita sono i “diritti”. Esso non costringe nessuno, ma offre possibilità, non obbliga ma affascina, non usa sistemi coercitivi, ma ipnotizza e soggioga. All’atteggiamento aggressivo della rivoluzione, cui seguiva immancabilmente il “terrore”, si sostituisce, intelligentemente, il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione e all’accesso a tutti quegli strumenti che la potenziano. A ciò segue non il terrore, ma l’apatia, lo spegnimento dell’intelligenza critica e l’omologazione. Il regime totalitario che sta affermandosi parla in modo gentile, veste casual o in giacca e cravatta e ti offre sempre nuove chanches. Al posto della Securitade (il nome delle forze di polizia sotto Ceausescu) si sfodera l’intangibile diritto alla “sicurezza” personale, in nome della quale ognuno è disposto a cedere ampie quote di partecipazione azionaria alla controllo della propria libertà. Mica perché te le strappano a viva forza, ma semplicemente perché ti convincono che sia la cosa migliore per te. Se una volta si era disposti a dare la vita per la libertà, ora si è ormai convinti che sia meglio sacrificare la libertà per salvaguardare l’incolumità. Certamente con questi parametri non ci sarebbe stata la resistenza nella seconda guerra mondiale: meglio starsene al sicuro e lasciare all’ordine costituito di tutelarci!
Vogliono garantirci la privacy, dicono, ma guarda caso bisogna essere sempre più “trasparenti”, fino al punto che il denaro contante sparisce e chi non ha un conto in banca muoia pure di fame, perché nei negozi non potrà più comprare nemmeno un panino senza carta di credito. Il marito non sa dei contatti informatici della moglie o i genitori di quelli dei figli, ma in compenso li conosce bene l’algoritmo, a cui nulla sfugge e che ti invia subito (per la tua comodità) la propaganda dei prodotti affini a quelli che hai appena acquistato su e-bay o su qualunque negozio on-line. Nascono così i big data, riserva preziosa di informazioni da usare al momento opportuno e inopportuno, a seconda di chi vi ha accesso e li può gestire.
Dietro le comodità che la tecnologia e l’informatica ci offrono, si annida ancora – come nel secolo scorso – il Leviatano totalitario: tutti devono entrare nel sistema, nessuno escluso. Se a qualcuno viene qualche dubbio la risposta è ancora una volta seducente: bisogna integrare tutti! L’integrazione – bellissima parola e ottimo ideale antidiscriminatorio – si presta a questo uso subdolo e doppio: per non escludere nessuno uniformiamo tutti! Non si tratta di costringere a entrare, basterà rendere desiderabile l’ingresso… libero. La trappola per topi non funziona diversamente. Il mondo si va pian piano trasformando, continuando su questa linea, in un sistema di massima sicurezza, una specie di Alcatraz da cui è sempre più difficile evadere.
Ci potremmo dilungare nel descrivere gli aspetti soggioganti e appiccicosi del neo-totalitarismo incipiente o mediamente avanzato. Tanto più pericoloso, quanto più dissimulato e silenzioso. Ma queste osservazioni possono bastare per rendere l’idea del pericolo che ci sovrasta. Averne minima coscienza è già qualcosa, significa non essere del tutto “integrati”.
A che pro, si domanderà il lettore curioso, una digressione del genere in questo sito di marca monastica e benedettina? Il motivo è presto detto. La tradizione monastica e poi specificamente benedettina ha rappresentato, nella storia europea, un metodo di integrazione positivo, perché ha salvaguardato e soprattutto promosso, grazie al rapporto stretto dei cenobi col territorio, un universalismo differenziato.
I monasteri, appartenenti tutti a un’unica grande famiglia spirituale (anche all’epoca delle molte regole o delle regole miste, precedenti all’adozione esclusiva della regola di Benedetto) avevano in fondo un’unica forma vitae, ma non hanno mai perduto la pluralità delle consuetudini e delle fisionomie tipiche locali. Fisionomie che erano legate, in parte almeno, al territorio in cui essi sorgevano. Le diverse efflorescenze spuntate dal tronco benedettino (Cluny, Citeaux o le congregazioni moderne) sono testimoni di una comunanza profonda che non ha mai negato l’originalità di diverse espressioni. L’autonomia dei singoli monasteri, anche nelle forme più istituzionalizzate del mondo benedettino, è un’esemplificazione di come lo spirito monastico non sia per sua natura centralistico e omologante. Tutt’oggi, il monaco che ha modo di visitare monasteri di diversa osservanza e di differenti congregazioni in ogni parte del mondo, nonostante le differenze ha l’impressione di trovarsi sempre a casa, in fondo.
Questo spirito monastico ha certamente favorito, insieme ad altri fattori, quello spirito europeo che si è contraddistinto per una certa unità plurale. Come in alcuni suoi interventi ha richiamato Marco Guzzi, la nota tipica dello spirito europeo, del sentirsi Europa da parte del nostro continente, è stata l’unità nella diversità, un’unità differenziata e molteplice. E’ entrato, sempre a detta di Guzzi, nella storia dell’Europa medievale, qualcosa di quella pluralità coesa che si è configurata nell’antica Grecia: ogni polis era uno “stato” indipendente, ma che coltivava relazioni di comunanza (linguistica, economica e culturale) con le altre polis, con le quali erano sì talvolta in lite, ma anche sempre pronte ad allearsi per difendere la libertà dagli imperialismi omologanti proveniente dall’esterno (come quello mediorientale di Dario e di Serse, per esempio).
Se per esprimere questa peculiarità nell’impostare il rapporto fra unità e pluralità vogliamo usare il neologismo “glocale” (globale e locale insieme), lo si può anche fare. Consapevoli che questa “glocalità” è qualcosa che l’Europa benedettina ha messo in pratica già secoli addietro e che può essere un’ispirazione cui guardare per difendersi da una globalizzazione univoca e monopolistica.
Chi ha tentato di unificare forzatamente e in modo accentratore il continente europeo (da Napoleone a Hitler) è sempre rimasto sconfitto. Il modello benedettino, con la sua stabilitas loci, propone vie diverse di alleanza fra popoli e nazioni, fra località e globalità: pur distinti e autonomi, possiamo convergere e crescere nell’alleanza reciproca, come i monasteri. Per questo il monachesimo “esce dal mondo”, in certo modo. La sua uscita è un’uscita da ogni integrazione dalle maglie troppo strette, la cui “rete” soffoca, invece di salvare dalle acque del caos.
Ho accennato al ruolo che, in questo modello, ha il radicamento nel territorio. Questa riscoperta della territorialità, sia in ambito economico che generalmente culturale, gode oggi di una certa fortuna (almeno nell’immaginario, vista la potenza schiacciante dei poteri transnazionali). I cenobi, in particolare quelli benedettini, se in virtù del codice comune della Regola mantengono una reciproca familiarità, grazie alla collocazione in un luogo dotato del suo genius loci e alla tradizione peculiare garantita dalla stabilitas loci, non perdono la loro configurazione ogni volta singolare. Una troppo univoca accentuazione della “superiorità del tempo sullo spazio” porta facilmente a processi di trasformazione omologante; mentre il giusto peso dato allo spazio fa da contrappeso ai processi di mescolamento da cocktails globalisti.
Il modello benedettino offre insomma una sapienza antica che mette in guardia dai sistemi troppo inglobanti. E i monaci hanno sempre avuto il desiderio di “uscire” dal sistema mondo, o nei deserti o nei boschi o sulle montagne. Sì, “uscire” può essere una buona parola, se si tratta di uscire da Alcatraz. La fuga mundi è tutt’altro che superata. E’ diventata l’impresa più difficile, il modo – oggi come ieri – di difendere la libertà da ogni forma di neo-totalitarismo.
di Giulio Meiattini
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