ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 10 aprile 2020

Tradito oggi come allora

UNA STRETTA ANALOGIA
La Pasqua di oggi come quella di 2000 anni fa
L’analogia fra la Pasqua di duemila anni fa e quella odierna è strettissima. Visitando le chiese vuote il cuore si riempie di dolore nel sapere Gesù lasciato solo. Ma anche abbandonato nei sofferenti e moribondi, con i vescovi inglesi che hanno vietato ai cappellani di assisterli. Come allora c'è Pilato, Giuda, i discepoli, i Giovanni e le pie donne che sfidano la polizia. La lontananza da Dio non è rimpiazzata dalle funzioni online, ma è proprio nell'offerta che viene anticipata la Resurrezione, come spiega Maria Valtorta.




L’analogia fra la Pasqua di duemila anni fa e quella di questi giorni è dolorosamente strettissima. Visitando le chiese vuote il cuore si riempie di dolore nel sapere Gesù lasciato solo nei tabernacoli di quasi tutto il mondo. Si fa un gran parlare del male aggiunto al male del coronavirus che però è in qualche modo permesso da Dio, per cui non si può non pensare alle parole del Vangelo di Luca: «Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso». Deve. Doveva essere così. Ma non solo, Gesù, oggi come allora, è rifiutato dai potenti della terra, oppure ignorato come lo ignorò il pagano Pilato, che nel momento della prova preferì lavarsi le mani piuttosto che difendere l’Innocente (colui che non avrebbe recato male a nessuno).

Pensiamo infatti a quelle autorità che, pur sapendo che permettere la celebrazione della Pasqua con i debiti accorgimenti non sarebbe un rischio troppo elevato, preferiscono non mettersi contro la folla ostile. Oppure guardiamo a quanto accaduto in Italia quando la polizia è entrata nelle Chiese per interrompere il sacrificio eucaristico e in alcuni casi di fronte ad una violazione gravissima invece della resistenza gli agenti si sono trovati di fronte al plauso dei sacerdoti. Anche in Spagna, a Siviglia, la Messa delle Domenica delle Palme, celebrata su di un tetto, è stata interrotta dalla polizia locale, sebbene qui i fedeli si siano ribellati. A ricordare che se gli apostoli sono fuggiti per paura della morte, Maria, la Maddalena, Giovanni e pochissimi altri personaggi come la Veronica, sono rimasti con lui. E a ricordare Giuda, dato che, a chiamare la polizia in diversi casi è stata una spia

Gesù è quindi tradito oggi come allora. E qui non si può non pensare anche a quanto hanno deciso di fare i vescovi inglesi, superando persino ciò che le autorità hanno stabilito: in Gran Bretagna le celebrazioni sono sospese in obbedienza agli ordini del governo, ma la conferenza episcopale è andata oltre, ha redatto un documento in cui ordina di lasciare soli gli agonizzanti e di farli morire senza sacramenti. I cappellani ospedalieri, infatti, potranno solo sentire i malati al telefono (peccato che la maggioranza dei moribondi non possa utilizzarlo e comunque ha bisogno dei sacramenti più che di una chiacchierata) per evitare di contagiarsi. Anche qui Gesù, vivo nei sofferenti, viene abbandonato per paura. O forse tradito, scambiando la salvezza temporale (30 denari) con quella eterna.

Gesù poi, dopo il tradimento di uno, viene lasciato solo dagli altri dieci apostoli. E, sapendolo, disse loro: «Voi tutti questa notte sarete scandalizzati per causa mia, perché sta scritto: "Percuoterò il pastore e le pecore del gregge saranno disperse”». Così doveva accadere, come sottolinea anche san John Henry Newman: «C’era dunque tra il Maestro e i discepoli una reciprocità di affetto, una profonda simpatia. Ma faceva parte del suo volere che gli amici l’abbandonassero, lo lasciassero solo…». Sì, anche questo faceva parte del suo volere. Gesù doveva, per liberarci da ogni male, «sottomettersi ad ogni sofferenza della nostra natura…così ha accettato la desolazione del loro abbandono».

Forse questo può consolare chi soffre davanti al tabernacolo. Chi non riesce a vivere la Pasqua online, per cui sente la lontananza da Dio. “Dio lo permette”, si cerca di ripetersi. Permette la desolazione, la fuga di coloro che temono la morte. Di coloro che, come gli apostoli, scappano con scuse buonissime, legate alla salute, al bene comune, all’amore fraterno. Ché si sa che il nemico è bravo a tentare le persone più vicine al Salvatore con argomenti che usa anche Lui. Nella Passione di Maria Valtorta c’è una passaggio in cui Gesù spiega che il demonio per convincerlo a rifiutare la Croce provò a fargli credere che così stava facendo soffrire sua Madre e che Dio non poteva volere che Ella morisse di dolore per colpa sua. Come non pensare alle voci di chi ripete, «non andate in Chiesa, farete perire i vostri genitori, prudenza, responsabilità…». Ma Gesù spiega alla Valtorta che Lui vinse il diavolo al posto nostro continuando a pregare e accettando di vivere il sentimento di abbandono da parte di Dio.

È l’epoca del Venerdì Santo, ha scritto il cardinal Roberth Sarah nel suo libro “Si fa sera e il giorno ormai volge al declino”. È l’epoca del tradimento della maggioranza dei discepoli, come noi, e di tanti sacerdoti (c'è chi ora rifiuta persino di confessare i fedeli), ricorda Sarah. Ma proprio quando tutto sembrava finito Gesù stava per risorgere. Questa è la grande speranza di fronte al calvario odierno a cui partecipiamo come traditori e codardi o come Giovanni che rimase sotto la croce, insieme a quei cappellani e sacerdoti che non lasciando i posti di combattimento. O come le pie donne, che nonostante la polizia e le guardie si recarono al sepolcro rischiando l’arresto pur di rivedere il Signore. O come chi, malato o impossibilitato ad uscire di casa, vive il dolore nell'offerta. O, infine, come le migliaia di bambini che pregano Gesù sollevando il Suo cuore ferito.

Ci ritroviamo in ciascuna di queste figure tutte indistintamente amate da Gesù, ma vorremmo essere fra quelle che non abbandonano il Signore. E se a noi è impossibile, la Valtorta spiega come si fa, parlando della Madonna che sostenne la fede di tutti. Era l’unica a credere che Gesù sarebbe risorto. Rimproverando i discepoli disse così: «Che dite? Che lo amate?…Che povero amore il vostro!…eravate così paurosi del mondo, al punto di non osare di difendere un innocente…Ma non vedete che non credete alla sua Risurrezione?…lo giudicate un povero morto, oggi gelido, domani corrotto, e lo volete imbalsamare per questo». Parole durissime che rivolse agli amici di Gesù.

Anche a noi, suoi amici, sembra impossibile che da un male estremo possa risorgere il Bene ed è un attimo cedere al lamento. Ma con la Madonna possiamo ripetere: «Fate pure. Ma Egli risorgerà…A redimere il mondo manca anche la tortura data al mio cuore da Satana vinto. La subisco e la offro per i futuri». Così, nell'offerta di questo cuore desolato, a cui si uniscono i sofferenti di oggi che ritroviamo fra alcuni sacerdoti, fedeli, piccoli o ammalati, vive la speranza della Resurrezione. Per noi e per tutta la Chiesa.

Benedetta Frigerio

https://lanuovabq.it/it/la-pasqua-di-oggi-come-quella-di-2000-anni-fa

DALLA GERMANIA: APRITE LE CHIESE, NON AVREBBERO MAI DOVUTO ESSERE CHIUSE.

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, su Kath.net abbiamo letto questo articolo molto interessante di Birigit Kelle. Birgit Kelle è titolare di un blog sul sito dell’agenzia di lingua tedesca, ed è una cattolica molto impegnata come giornalista e pubblicista su tutti i temi che riguardano la società attuale. Mi sembra che i temi che tocca nella sua riflessione siano interessanti anche per noi.  

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“Sto scrivendo questo testo per un giornale. Non sarà stampato. Si teme il disappunto dei vescovi. “Lo scrivo comunque, bisogna dirlo”. Editoriale ospite sulla situazione della Chiesa nella pandemia di Corona. Da Birgit Kelle
Bonn (kath.net/Blog “Volle Kelle”) Una sua amica si è fatta avanti in questi giorni con grandi preoccupazioni: il suo padre demente andava in chiesa più volte al giorno, recitava il rosario, la fede è un’ancora importante nella sua routine quotidiana, soprattutto perché è anche vedovo da poco. Ora la chiesa è chiusa, non capisce perché, non sa dove andare, gli si deve costantemente impedire di andare in chiesa. Scene tratte da un villaggio in Baviera.
È la Domenica delle Palme, ma “Il Pane della Vita” non viene distribuito in Germania, ha chiuso le tende senza resistenza. Sto scrivendo questo testo per un giornale. Non verrà stampato. Temono il dispiacere dei vescovi. Lo scrivo comunque, va detto.
Attualmente in Germania stiamo sperimentando che è stato chiuso tutto ciò che, a quanto pare, non sembra essere rilevante dal punto di vista sistemico e che appare inutile dal punto di vista dello Stato: centri fitness, parchi di divertimento, chilometri di shopping, cinema – e chiese. Chiese? Potete correggermi, ma non ho sentito il grido della mia Chiesa quando è arrivato l’ordine dello Stato di astenersi dalle funzioni religiose. Dov’è la protesta, dov’è la rivolta dei pastori, dei pastori, dei sacerdoti e dei pastori che in questo momento stanno esortando a stare al fianco del loro gregge? È quasi inquietante con quale ampio consenso e silenzio le chiese ufficiali tedesche hanno ceduto alla volontà dello Stato senza opporre resistenza e quindi hanno anche accettato la definizione del contenuto: Sei sacrificabile.
Manca una settimana a Pasqua. La resurrezione sarà annullata quest’anno? Nei tempi buoni la stessa Chiesa ama sempre ricordarci che l’uomo non vive di solo pane. Esattamente. Chiesa, dove sei? Dove siete tutti voi, ora che ci sono persone bisognose, in prigionia, nelle paure esistenziali, nella preoccupazione per i parenti e la salute, si vorrebbero chiamare i rappresentanti della Chiesa. Ora che gli anziani muoiono da soli nei reparti di quarantena e di isolamento invece che con le loro famiglie. Un conoscente, è un autista di ambulanze d’emergenza, riferisce che si contano già più suicidi. Nella notizia il padre, che prima ha gettato la moglie e i figli, poi se stesso alla morte. Su Facebook la notizia del padre defunto, al quale nessun familiare ha potuto dire addio in ospedale, nemmeno la moglie che è stata sposata con lui per 60 anni. Rabbia. La disperazione. Chi li prenderà?
Si restringe la gola al pensiero di quante persone hanno bisogno di aiuto in questo momento, come pazienti e anche come parenti che si trovano in stato di emergenza – e da soli. Dopo la crisi, chi avrà bisogno di una chiesa che ti ha abbandonato quando le cose si sono fatte difficili? In ogni caso, Gesù non ottenne prima il permesso dall’imperatore per andare dai lebbrosi. Non mi aspetto un prete che metta in pericolo la sua vita. Ma non abbiamo avuto per tutti questi anni le lamentele sulle chiese vuote, sull’abbandono delle chiese e sulla loro chiusura?
E ora improvvisamente non c’è più posto per leggere la messa in banchi mezzi vuoti? Non lo capisco. Si potrebbe organizzare. Anche se c’è una fretta improvvisa. So che può sembrare strano ad alcune persone, ma si potrebbero celebrare cinque Messe di fila se si dovesse davvero limitare il numero di fedeli in chiesa per evitare infezioni.
Cambio di scena: Settimane fa, nel bel mezzo delle peggiori notizie della crisi di Corona, ho ricevuto immagini dai villaggi italiani, video che sono stati trasmessi in rete. I sacerdoti in piena regola portano l’ostensorio per le strade, benedicendo le persone in piedi alle finestre aperte. Uno di loro legge una messa su un grattacielo per tutto il quartiere. Se non potete venire da noi, allora saremo noi a venire da voi. Si può anche fare in questo modo. Un altro sacerdote vola con un aereo ad elica sopra i villaggi, portando nel suo bagaglio una statua di Maria e l’acqua santa, che versa dall’alto come benedizione sulla terra. Si può trovare che sia kitsch, o anche commovente. Benedizione dall’alto, chi non ne ha bisogno in questi giorni?
Pasqua è tra una settimana. Aprite i cancelli. Stiamo celebrando la Resurrezione. Ci vuole molta fiducia in Dio per credere a una storia impossibile che racconta come si supera la paura, si dà speranza e si sconfigge la morte. Non sono una studiosa della Bibbia o una teologa. Ma una cosa la so per certo: Gesù non ha mai evitato, non ha mai chiuso la porta, ed è sempre andato lì e da quelli che tutti dicevano che era meglio lasciar perdere.
Questo mondo ha bisogno di guarigione, questo è sicuro. Sono grata a tutti i medici, infermieri e badanti che attualmente sono lì per gli altri e che fanno il loro servizio per alleviare il dolore, per aiutare e sostenere, e che rischiano sempre in maniera ampia la propria salute. Il corpo ha bisogno di aiuto, ma anche la mente.
L’uomo non vive di solo pane.
Ma il pane della vita non è disponibile la domenica mattina in panetteria e alla stazione di servizio.
Aprite le chiese, non avrebbero mai dovuto essere chiuse. 

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Qui alcune immagini del giovedì santo in San Pietro. perché non adottare lo stesso sistema ovunque? 

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VENERDÌ SANTO
Non solo INRI. Cosa c’era scritto sulla Croce

Sulla croce su cui venne crocifisso il Signore non era visibile solo la sigla INRI, che sta per «Gesù nazareno, re dei Giudei». Oltre che in latino, l’iscrizione era in ebraico e greco, come informa san Giovanni Evangelista. E la scritta ebraica svela il motivo per cui i Giudei cercarono, invano, di convincere Pilato a cambiarla…



«Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”. […] era scritta in ebraico, in latino e in greco». (Gv 19, 19-20)

Prima che Giovanni, sul finire della sua lunga vita terrena, scrivesse il quarto e ultimo Vangelo, gli evangelisti Matteo, Marco e Luca avevano riferito della scritta posta sulla Santa Croce. Quella scritta, il titulus crucis, che nelle iniziali latine è resa dalla celebre sigla INRI (Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum)[1], sintetizzava il motivo della condanna di Gesù, «il re dei Giudei», che con la sua testimonianza era stato, come profetizzato da Simeone, «segno di contraddizione».

Il discepolo prediletto, com’è noto, è l’evangelista che più si è dedicato all’approfondimento teologico del Verbo fatto carne. E, certamente ispirato dalla divina Provvidenza, lo ha fatto senza ripetere molti degli episodi della vita di Gesù già riferiti dai sinottici, ma integrando questi ultimi con racconti (dalle Nozze di Cana al dialogo con la Samaritana) e particolari che riteneva essenziali. Perché, tra questi particolari, san Giovanni Evangelista ha voluto dirci che l’iscrizione sopra la Croce fosse in ebraico, latino e greco?

Per rispondere, bisogna prima guardare all’Antica Alleanza e alla sacralità che circonda il nome di Dio, tenendo a mente che la progressiva rivelazione di questo nome e del suo significato occupa un posto centrale nella pedagogia divina, dunque nella storia della Salvezza.

Nella teofania del roveto ardente, descritta nel libro dell’Esodo, Dio si rivela a Mosè e gli ordina di tornare in Egitto per liberare il Suo popolo dal giogo del faraone e condurlo alla Terra Promessa. Davanti a un ordine così immane, Mosè manifesta le sue domande, chiedendo in quale modo avrebbe potuto convincere gli Israeliti a seguirlo e quale nome di Dio avrebbe dovuto rivelare loro. «Io sono colui che sono!», si sentì rispondere da Dio. E ancora: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”» (Es 3, 14). Questo nome, come insegna il Catechismo, indica che «Dio è la pienezza dell’essere e di ogni perfezione, senza origine e senza fine» (CCC 213), causa dell’essere di tutte le creature.

Il nome di Dio, Io Sono, è reso con il sacro tetragramma YHWH (Yahvè). La sua pronuncia esatta, come spiega una nota alla Bibbia della Cei (2008), «non è giunta fino a noi», perché «a partire dal periodo del secondo tempio, il nome di Dio non venne più pronunciato, a motivo della sua santità, e venne sostituito probabilmente dal termine Adonay (in greco Kyrios, che significa Signore)».

In che modo tutto questo si lega al racconto di san Giovanni e in particolare al Venerdì Santo? Torniamo alla pienezza dei tempi. L’evangelista riferisce che Gesù, nel pieno della sua attività pubblica, dopo aver cercato di spiegare ai Giudei il suo essere consostanziale al Padre, fece loro questa profezia: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono […]» (Gv 8, 28). L’innalzamento a cui si riferiva il Signore era la crocifissione.

E arriviamo alla Passione. Nello stesso versetto in cui informa della scritta in tre lingue, Giovanni rende noto che «molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove fu crocifisso Gesù era vicino alla città». Era, dunque, una scritta ben visibile. I sommi sacerdoti protestarono allora con Pilato. «Non scrivere: il re dei Giudei, ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei». Ora, come già osservavamo in un precedente articolo, è verosimile pensare che la sola scritta «re dei Giudei» infastidisse coloro che avevano condannato Gesù, non riconoscendolo come Messia. Ma per loro, in quella scritta, c’era un grande problema in più.

Si ricorderà infatti che nel processo religioso, davanti al sinedrio, il sommo sacerdote si stracciò le vesti, accusando il Signore di bestemmia, solo dopo aver udito dalle labbra di Gesù la conferma che Lui fosse il Figlio di Dio. Era questa, per i suoi accusatori, la vera inconcepibile colpa del Nazareno, essere uomo ma «farsi» Dio.

INRI era la sigla latina, ma qual era la scritta in ebraico? Grazie a quanto divulgato dallo scrittore Henri Tisot (1937-2011), e non solo da lui, è ormai nota l’esatta trascrizione in ebraico di «Gesù nazareno, re dei Giudei». Tisot consultò diversi rabbini scoprendo che le lettere ebraiche corrispondenti dovevano essere שוע הנוצרי ומלך היהודים. Traslitterando, vocalizzando e tenendo presente la lettura da destra verso sinistra, si ottiene: Yeshua Hanotsri Wemelek Hayehudim. Le iniziali danno il sacro tetragramma: YHWH. Cioè: Io Sono. Si compì così la profezia fatta da Gesù prima della Passione.

Quei Giudei che non avevano creduto in Lui, quindi, protestarono perché si videro davanti agli occhi - proprio nel momento in apparenza più umiliante per il Crocifisso - la Verità fatta carne che avevano rifiutato e che continuavano a rifiutare. Si sa come rispose Pilato di fronte alla loro protesta: «Quel che ho scritto, ho scritto» (Gv 19, 22).

Se la negazione della divinità di Cristo è sempre stata la madre di tutte le eresie, quest’altra profezia compiuta ci offre un’ulteriore occasione per fare memoria, rendere grazie e contemplare Colui che ci ha amato e ci ama di un amore così folle da farsi inchiodare alla croce.


[1] “Nazarinus”, secondo il frammento di tavoletta custodito a Roma nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme e che corrisponderebbe alla forma corretta del latino nel I secolo.

Ermes Dovico

https://lanuovabq.it/it/non-solo-inri-cosa-cera-scritto-sulla-croce

DEL POZZO: CHIESE CHIUSE? SMETTIAMO DI DIRCI CATTOLICI.

10 Aprile 2020 Pubblicato da  6 Commenti --


Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, Luca Del Pozzo ci ha inviato una riflessione che condividiamo pienamente, sul problema delle chiese chiuse, della messa interdetta e della Pasqua. La fotografia che vedete sopra l’articolo proviene dal sito Facebook di Antonio Socci, che ringraziamo, e mostra la messa del Giovedì Santo del Pontefice regnante. Sono presenti almeno venti persone, se non di più; nessuna di esse porta una mascherina (i casi di contagio in Vaticano sono ormai a due cifre) però sono bene distanziate le une dalle altre. Che cosa impedirebbe di fare la stessa cosa nelle chiese di tutta Italia? Se ce ne sarà la forza e il tempo, nei prossimi giorni vorrei aggiungere a questo articolo estremamente esaustivo una piccola riflessione su come sia far difficile comprendere alcune cose che dovrebbero, potrebbero essere essenziali per un cattolico nel mondo odierno, paganizzato di ritorno. Buona lettura. 

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Non è stata la prima e non sarà l’ultima volta che Salvini, da politico navigato qual è, mescola sacro e profano usando la religione pro domo sua (la qual cosa, sia chiaro, non ci scandalizza affatto, di certo non più di altre performance cui ci ha abituato la politica, grosso modo dall’antichità ai giorni nostri). L’aspetto più interessante e sul quale vale la pena tornare a riflettere non è dunque tanto la richiesta in sè, avanzata dal leader leghista (e non solo), di poter riaprire le chiese per le festività pasquali, quanto piuttosto le reazioni scandalizzate – in alcuni casi col bollino nero, nel senso dell’immancabile stigma che la solita sinistra radical-sciocca ha appioppato agli “scemi di destra” rei di cotanto azzardo – che si sono lette e sentite tanto dal mondo laico che da quello cattolico. Reazioni, ha notato giustamente Antonio Polito sul Corriere della Sera, che nè la proposta di Renzi di riaprire le librerie nè quella di Confindustria di lasciare aperte le fabbriche, avevano suscitato. “La paradossale verità – ha scritto Polito – è che oggi cultura e industria ci appaiono strumenti di rinascita più idonei della religione”. La causa di siffatto fenomeno è presto detta: “La secolarizzazione, anche nel Paese più cattolico d’Europa, ha ormai espunto la fede dal dibattito pubblico, come se fosse un sentimento privato, rispettato sì, ma in defintiva inutile al corpo sociale”.
Ecco centrato in poche parole il nocciolo della questione. Con buona pace del fatto che i cattolici sono tenuti ad obbedire ai governanti (e chi mai l’ha messo in dubbio?), e che è giusto e sacrosanto ascoltare gli esperti e non correre rischi, e che bisogna fare di tutto per tutelare la salute dei cittadini, e che questo è il tempo della responsabilità, eccetera eccetera, ciò che soprattutto in certi ambienti cattolici sembra essere sfuggito è un fatto tanto semplice quanto drammatico: la chiusura delle chiese e la sospensione della Messa con il pubblico a seguito dei provvedimenti del governo ha di fatto sancito l’accettazione da parte della Chiesa italiana della estromissione di Dio dalla vita pubblica.
Tenere le chiese chiuse, tanto più durante la settimana santa che per i cristiani è il fulcro di tutto l’anno liturgico, non soltanto non trovava (non trova) alcuna giustificazione di ordine sanitario, ma quel che è più grave veicola un’idea di religione del tutto estranea al cattolicesimo essendo piuttosto espressione di una concezione protestante della fede. Con tutto ciò che ne consegue.
Anche a voler trascurare il non banale dettaglio che lo Stato, nel momento in cui equipara il culto ad una qualsivoglia manifestazione ludica a carattere pubblico, manda un chiaro e preciso segnale di stampo laicista più che laico, la cosa grave è stato l’assordante silenzio da parte di certi ambienti cattolici contro tale scelta ed anzi la supina accettazione di un principio che, va ribadito a scanso di equivoci, non ha nulla a che vedere con la laicità.
C’è poi un altro aspetto da considerare, strettamente legato a quanto fin qui detto in quanto rivelatore dello stadio avanzato di protestantizzazione in cui versa il cattolicesimo italiano, ma se possibile ancor più problematico del rapporto Chiesa-Stato. Esso consiste in una concezione della fede “smaterializzata”, incorporea, tutta spirito e intimità e niente corpo e fisicità. Ora è vero, verissimo, che si può pregare Dio a casa, nel chiuso della tua camera da letto o in autobus, mentre corri e fai palestra o guardando un tramonto a bordo piscina; così come è vero che non è il luogo, il tempio, la chiesa in quanto edificio che conta (checchè ne dicano quei teologi e prelati che  ancora nel XXI secolo si attardano in una anacronistica concezione territoriale delle parrocchie, a sua volta legata a doppio filo ad una altrettanto stantia ecclesiologia “piramidale”); ma qui si sta parlando della possibilità di partecipare alla Messa in quanto popolo, comunità, corpo di Cristo.
Che non è, come qualche prelato forse troppo frettolosamente ha detto, un discorso astratto sul diritto di andare in chiesa, ma una cosa molto concreta. Che poi la Messa la si faccia in mezzo ad una radura nel bosco o su un campo da basket, in una piazza piuttosto che in famiglia o in un parco, in una maestosa cattedrale o in uno scantinato cambia poco. Cambia molto, invece, esserci oppure no, essere presente con il proprio corpo e in quanto membra di un corpo più grande che è il corpo stesso di Cristo, cioè appunto la Chiesa. “L’errore – ha detto di recente non ricordo quale vescovo – è pensare che non poter partecipare fisicamente alle funzioni liturgiche significhi non celebrare la settimana santa”. Sarà pure un errore, ma resta il fatto che se passa questo principio, se passa cioè l’idea che il corpo sia tutto sommato ininfluente ai fini del culto, tanto vale che smettiamo di chiamarci cattolici.
E l’aspetto paradossale in tutta questa vicenda è che a ricordarci dell’importanza del corpo è venuto in soccorso, pensate un po’, un prete anglicano, Tish Harrison Warren, che sul New York Times di qualche giorno fa raccontando di tutte le cose che gli mancano essendo costretto a casa anche lui a causa del Covid-19, a un certo punto dice: “La storia della creazione nella Bibbia ci ricorda che noi umani siamo corpi. Non siamo semplicemente cervelli conficcati su un’asta o anime intrappolate in una prigione mortale. Noi crediamo che anime e corpi siano inseparabilmente intrecciati… E noi crediamo che Dio non è venuto a mo’ di un libro o di un codice di leggi o come un ologramma o un credo o un’idea, ma come una persona in un corpo, Gesù. Assumendo un corpo, Dio il farsi stesso persona. Perciò noi crediamo nella resurrezione non solo dell’anima, che flutta via verso una nebbia effimera, ma anche del corpo”. Non credo servano commenti. Pasqua è ormai alle porte. A Gerusalemme, ancora oggi, c’è una tomba vuota. In quella tomba venne deposto il corpo martoriato e crocifisso di Gesù di Nazareth, che dopo tre giorni risuscitò. Da allora i cristiani ogni anno aspettano la Pasqua per celebrare, non solo spiritualmente ma anche corporalmente, il memoriale del fatto che ha cambiato per sempre il corso della storia, cioè appunto la risurrezione di Cristo senza la quale non vi sarebbero né cristianesimo né Chiesa. Che la resurrezione sia “la” questione, il punto su cui tutto sta o cade, lo ricorda a chiare note San Paolo nella prima lettera ai Corinzi: “Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo, falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato il Cristo” (1Cor 15, 14s). Senza la resurrezione, scrive nel terzo volume del suo “Gesù di Nazareth” Benedetto XVI, “…si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull’uomo, sull’essere dell’uomo e sul suo dover essere – una sorta di concezione religiosa del mondo –, ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso è una personalità religiosa fallita; una personalità che nonostante il suo fallimento rimane grande e può imporsi alla nostra riflessione, ma rimane in una dimensione puramente umana e la sua autorità è valida nella misura in cui il suo messaggio ci convince. Egli non è più il criterio di misura; criterio è allora soltanto la nostra valutazione personale che sceglie dal suo patrimonio ciò che sembra utile. E questo significa che siamo abbandonati a noi stessi”. Quest’ultimo passaggio è particolarmente illuminante. Perché dà la misura esatta di quella che da sempre, ma forse oggi in modo più drammatico che in altre epoche, è la questione più importante nella e per la Chiesa (altro che l’ambiente, i migranti, la comunione ai divorziati risposati o il celibato dei preti!), ovvero se e in che misura il popolo di Dio – nella sua più vasta accezione – ponga o no al centro della propria vita la fede nella risurrezione. La Pasqua affonda le sue radici nella storia di Israele, in particolare nella storia dell’esodo. Ha un significato profondamente esistenziale e concreto (ma niente affatto politico come sostiene qualche corrente teologica), perché dice della liberazione, del passaggio dalla schiavitù alla libertà. Anche la Pasqua cristiana esprime questa realtà. La risurrezione è un evento di liberazione: dalle catene della morte, prima, e dalla schiavitù del peccato, di conseguenza. E nonostante le mancanze e le debolezze di noi uomini, ogni anno durante la solenne Veglia paquale Dio continua a “passare” in mezzo al suo popolo. E come la croce è l’asse portante dell’universo – stat crux dum volvitur orbis recita il motto dei certosini di San Bruno – così la resurrezione è la luce che illumina ogni sofferenza umana, di ogni uomo e di ogni epoca (compresi questi tempi del Coronavirus). Per questo da tempo immemorabile i cristiani vegliano durante la notte delle notti, in attesa che il Signore passi di nuovo in mezzo a loro, salvandoli. Come recita l’Exsultet: “O notte veramente gloriosa, che ricongiunge la terra al cielo e l’uomo al suo creatore!”. E’ tempo di essere responsabili, certo; ma prima ancora, e tanto più in questi giorni, è tempo di testimoniare innanzi ad un mondo smarrito e che ha paura, che la morte non ha l’ultima parola sulla vita. E quale testimonianza migliore di un corpo, fatto di tanti corpi, che esce dalla tomba, dalle case dove siamo sepolti, per celebrare corporalmente e in pienezza ciò che l’uscire dalle case simbolicamente evoca? Le modalità operative per fare tutto in ordine e in sicurezza si potevano (si possono?) trovare. E’ il coraggio che è mancato. Peccato.
Luca Del Pozzo

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